La propaganda russa in Africa
La propaganda è uno strumento fondamentale della strategia russa in Africa.
La Russia oggi detiene il 44% del mercato delle armi in Africa.
La nostra serie sulle attività della Russia nel continente africano.
L’8 dicembre del 2022, all’aeroporto di Abu Dhabi negli Emirati Arabi Uniti, è avvenuto uno scambio di prigionieri: Viktor But, un cittadino russo di 56 anni, è stato consegnato dalle autorità statunitensi a quelle russe, scambiato con Brittney Griner, cestista americana di 33 anni prigioniera in Russia. But, arrestato in Thailandia nel 2008, era detenuto in un carcere americano dal 2010, condannato a 25 anni e 15 milioni di dollari di multa per avere fornito armi ai ribelli colombiani delle FARC. Griner era stata arrestata all’aeroporto di Mosca nel febbraio 2022, accusata di trasportare olio di cannabis e condannata a 9 anni di reclusione e 1 milione di rubli (circa 15.000 euro) di multa.
But, nato nel territorio dell’odierno Tagikistan sotto l’Unione Sovietica, si è formato tra i servizi segreti russi e l’Istituto militare di lingue straniere di Mosca e parla (oltre al russo) l’esperanto, il portoghese, il francese, l’arabo, l’uzbeko e diverse lingue locali africane come il lingala, il bambara e lo swahili. Tra i primi incarichi, alla fine degli anni Ottanta mentre l’Unione Sovietica stava crollando, viene mandato in Mozambico e Angola, all’epoca ancora in piena bush-war e fortemente dipendenti dal sostegno russo, in qualità di interprete militare. Nel 1991 viene congedato con il grado di tenente. But ha sfruttato la disgregazione dell’Unione Sovietica per arricchirsi enormemente: grazie ai buoni uffici negli ambienti militari è riuscito a mettere le mani su diversi depositi di armi, munizioni e soprattutto di mezzi militari, inutilizzati e abbandonati progressivamente durante la dissoluzione dell’URSS, ed è riuscito a costruire una propria flotta di aeromobili che ha utilizzato per avviare un fiorente commercio di armi verso diversi paesi del mondo: Nigeria e Angola, dove infiammava la guerra civile, in Liberia, dove rifornì le truppe di Charles Taylor (il suo vicino di casa a Monrovia che lo ripaga in diamanti, la vicenda sarà romanzata e raccontata nel film Lord of War, in cui But è impersonato da Nicholas Cage) e in Sierra Leone. E poi Sudan, Libia, Congo, dove è stato il fornitore di tutte le parti in conflitto, sempre violando l’embargo imposto a questi paesi. But era talmente affidabile che da lui si rifornivano i talebani ai tempi di Osama Bin Laden e, durante la seconda guerra in Iraq, anche gli americani: gli aerei di But sono atterrati a Baghdad più di mille volte tra il 2003 e il 2004. L’anno dopo però il suo periodo d’oro si è interrotto, lui è finito su una lista nera e da quel momento è stato avvistato solo a Mosca, frequentando ristoranti e hotel di lusso.
But non vendeva solo armi come AK-47 e RPG, le più gettonate nei conflitti moderni perché molto economiche e facili da maneggiare, ma anche fucili di precisione, missili guidati, visori notturni, elicotteri d’assalto, sistemi d’arma S-300, strutture lanciamissili e mine terrestri. La sua ultima negoziazione, a Bangkok con dei finti ribelli colombiani delle FARC che gli chiedono forniture per 5 milioni di dollari ma che in realtà sono agenti americani sotto copertura, è finita il suo arresto, nel 2008.
Le reti dei traffici di But, negli ultimi 15 anni, si sono progressivamente indebolite ma i flussi di armi di fabbricazione russa verso l’Africa non hanno mai conosciuto crisi: tra il 2017 e il 2021 la Russia è stata il maggiore esportatore di armi in Africa, garantendosi una fetta del 44% dell’intero mercato. Nel 2021 la Russia ha esportato un totale di 14,6 miliardi di dollari di armi e armamenti, ridottisi a 10,8 miliardi (un calo di circa un quarto delle esportazioni) nell’anno dell’invasione dell’Ucraina, il 2022.
Gli acquisti di armi russe in Africa si concentrano, per ragioni economiche, anche su attrezzature ex-sovietiche, quelle che erano il pane quotidiano di Viktor But: il Mali, guidato da una giunta militare il cui leader ha studiato in Russia e parla fluentemente il russo, ha acquisito nel 2022 un C295 spagnolo ma anche un jet Su-25 russo, quattro jet L-39 cecoslovacchi, un elicottero d’attacco Mi-24P e un elicottero da trasporto Mi-8, entrambi di fabbricazione russa. Una lista della spesa importante, anche al netto del disimpegno francese nel Sahel.
A maggio 2022 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha rinnovato l’embargo sulla vendita di armi al Sud Sudan, Paese che ha tre record: è la più giovane, povera e martoriata nazione del mondo. Nonostante l’embargo delle armi, in vigore dal 13 luglio 2018, il flusso verso il Sud Sudan è costante: secondo Global Initiative, organizzazione non-governativa con sede a Ginevra, le armi arrivano al porto di Mombasa, il più grande porto del Kenya, e vengono trasferite via terra a Lokichoggio, città al confine con il Sud Sudan. Qui le armi, stipate in container, vengono riconfezionate per facilitarne il trasporto, che può avvenire direttamente o tramite un passaggio in territorio ugandese, da dove poi arriva in Sud Sudan tramite il valico di New Cush. La stessa rotta la seguono i macchinari che le industrie minerarie russe utilizzano legalmente in Sud Sudan per svolgere le loro attività: prima della pandemia queste spedizioni erano bimestrali e regolari ma poi si sono diluite, divenendo perlopiù quadrimestrali. Secondo i rapporti della dogana keniota di Busia, citati da Global Initiative, la maggior parte delle armi russe arrivate in Sud Sudan dal 2019 ad oggi sono spedizioni ufficiali di Rosoboronexport, l’esportatore di armi russo di proprietà statale, mentre negli anni precedenti, dal 2011, queste avvenivano con l’uso di aerei militari e veicoli blindati. Ad oggi, la maggior parte delle armi e delle munizioni utilizzate nel conflitto civile in Sud Sudan è di provenienza russa.
Il flusso di armi dalla Russia all’Africa orientale non si è mai ridotto ma ha cambiato conformazione: se fino a pochi anni fa queste venivano spostate su container e vendute all’ingrosso, il caso vuole che si utilizzassero anche navi ucraine, come la MV Faina, dirottata in acque somale nel 2007 con a bordo un carico di armi destinato all’allora ribellione secessionista sudsudanese.
Da giugno 2022 l’Uganda si è dotato di elicotteri Mi-28 russi, tutti parcheggiati nella base di Nakosongola. Tornando in Africa occidentale invece, dopo il secondo colpo di Stato in meno di un anno, a settembre 2022, il Burkina Faso ha ordinato cinque droni da combattimento turchi per fronteggiare i gruppi terroristici, droni che sono stati trasportati in Burkina da due aerei cargo IL-76 della compagnia aerea bielorussa Rubystar Airlines, che li ha consegnati nella città di Bobo-Dioulasso.
L’AK-47, “l’arma del popolo”, è presente in tutti i conflitti africani, e in quasi tutti i conflitti nel mondo, dal 1950 ad oggi. Quest’arma è stata, ed è ancora, talmente popolare che è stata disegnata persino sulla bandiera del Mozambico, incrociandola con un libro e una zappa.
A seconda di chi sta dalla parte del grilletto, l’AK-47 simboleggia oppressione, autodifesa, crimine, liberazione, indipendenza o terrore. L’ex-presidente egiziano Sadat è stato freddato a colpi di AK-47, l’ex-presidente ugandese Idi Amin armò con questo fucile le sue truppe personali, oggi sono migliaia i poliziotti, i gendarmi, i guardiaparchi e i guardiani privati, in quasi tutti i paesi africani, ad essere dotati di AK-47.
Progettata da Mikhail Kalashnikov nel 1946, oggi nel mondo ci sono circa 75 milioni di fucili AK-47 e 200 milioni di varie varianti AK di Kalashnikov. Uno ogni 35 persone, secondo AK47: The Story of the People’s Gun. Il prezzo medio di quest’arma è di 500 dollari ma è possibile acquistarlo anche per meno, dipende dalla situazione civile e sociale in cui ci si trova. La famiglia Kalashnikov costituisce circa il 75% di tutte le armi da fuoco in Africa. Inoltre, la sua disponibilità in Africa può essere attribuita al fatto che molti paesi africani lo producono in grandi quantità.
Secondo le Nazioni Unite, prima di essere arrestato la rete logistica di But contava 50 aerei, costantemente coinvolti in spedizioni di armi dall’Europa orientale alle zone di conflitto in Africa. La sua assenza sulla scena internazionale, negli anni di detenzione, è un vuoto che qualcuno avrà certamente colmato: nel 2003 lo stesso But ha detto al New York Times di avere rifornito, in Afghanistan, sia i ribelli dell’Alleanza del Nord di Massud che i Talebani, di avere portato le forze di pace delle Nazioni Unite in Somalia e Timor Est e le truppe francesi in Ruanda durante il genocidio del 1994.
Negli anni Novanta But ha mescolato le sue attività di contrabbando con affari legittimi e redditizi, come l’acquisto di gladioli per 2 dollari ciascuno in Sudafrica e il loro trasporto a Dubai, dove li ha venduti per 100 dollari a stelo.
Stephen Rapp, procuratore della Corte internazionale speciale per la Sierra Leone sostenuta dalle Nazioni Unite, aveva detto che But era come Al Capone, il capo della mafia di Chicago che fu sì arrestato e condannato, ma per evasione fiscale. A differenza di Capone, però, But ha scontato 15 anni di carcere invece di 8. La Commissione per la verità e la riconciliazione della Liberia, creata dopo la guerra civile in cui But ebbe un ruolo chiave nel fornire le armi a tutte le parti in conflitto, ha chiesto per anni la creazione di un tribunale ad hoc per processare i crimini di guerra e contro l’umanità commessi durante quel conflitto, un punto fondamentale per i sopravvissuti, i difensori dei diritti umani e molti politici, che tuttavia non è mai diventato realtà. George Weah, attuale presidente della Liberia, aveva promesso il Tribunale speciale in campagna elettorale e ne aveva anche approvato la creazione, salvo poi non parlarne più.
Ad oggi, di fatto, quel Tribunale non esiste e la guerra civile in Liberia è finita nel 2003. Diversi attori di quel conflitto sono processati all’Aia, come Charles Taylor e i suoi familiari, mentre altri hanno fatto carriera, come Prince Johnson, la dimostrazione vivente che la Storia la scrivono i vincitori: Johnson è il responsabile diretto della cattura, delle sevizie e della morte di Samuel Doe, ex-presidente liberiano trucidato dopo un’imboscata tesa dai ribelli durante la prima guerra civile liberiana. Subito dopo la morte di Doe, Johnson si autoproclamò presidente della Liberia ma a poco a poco la maggioranza dei ribelli passò dalla parte di Taylor e Johnson fu costretto a fuggire in Nigeria.
Tornato in patria nel 2004, dopo le dimissioni di Taylor e a guerre civili concluse, nel 2005 si è candidato al Senato, dove è stato eletto come rappresentante della Contea di Nimba. Il suo nome compare nell’elenco stilato dalla Commissione per la Verità e la Riconciliazione, creata dall’allora presidente Ellen Johnson Sirleaf, Nobel per la Pace, tra le 50 personalità che avrebbero dovuto essere escluse da ogni ruolo politico e istituzionale per via delle atrocità commesse nel periodo bellico. Nel 2011 Prince Johnson ha vinto il ricorso presentato contro il rapporto della Commissione e ottenuto l’11% dei voti alle elezioni presidenziali. Dieci anni dopo, nel 2021, il Dipartimento di Giustizia americano ha imposto delle sanzioni su Prince Johnson, che vive ancora a Monrovia ed ha una forte influenza politica.
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