Ep. 08

Kékeh, il caos delle opportunità

La prima volta che un kékeh ti tradisce è una vera delusione.

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.
Dalle nostre serie Serie Giornalistiche
Rinascimento africano

L’Africa è da decenni “il continente del futuro” ma, da decenni, subisce una narrazione eurocentrica che non rende onore alla realtà del continente africano.

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Basta agitare una mano, ruotandola sul polso come se volessi salutare qualcuno o avvitare un pomello, con il gomito piegato a novanta gradi. Non serve sbracciarsi né urlare per richiamare la loro attenzione. Dallo sciame di sferraglianti mezzi gommati gialli, coperti da teli di plastica coloratissimi, esce sempre qualche Apecar, a volte già carico di persone, pronto a fermarsi per farti saltare su. L’odore di gas di scarico, il rumore delle marce che si inseriscono, che salgono, che scalano, i clacson penetranti e il rombo dei motori sembrano quasi svanire non appena ci si siede sul sedile posteriore del mezzo.

«Vai a Congo Town?»
«No amico, Congo Town è troppo lontana. Scendi, ti conviene prendere una moto»
«Ma sta per piovere!»
«Amico, Congo Town è troppo lontana».

La prima volta che un kékeh ti tradisce è una vera delusione. Lo scegli perché è economico. Perché mentre sei su tra uno scossone e l’altro riesci a mandare qualche messaggio e se sei fortunato a telefonare. Sicuramente, se ne hai voglia, è uno dei luoghi migliori della città per chiacchierare, scambiarsi opinioni, conoscere gente. E poi se piove, e a Monrovia a giugno piove spesso e in abbondanza, per arrivare asciutti a destinazione basta tirare giù il telo di plastica e sopportare per un po’ l’effetto serra che si crea all’interno. Per questo quando il kékeh ti tradisce ci resti male.

 

Tubman Boulevard è una polverosa e lunghissima strada a quattro corsie, due a scendere e due a salire. Niente spartitraffico, niente marciapiedi, niente guard-rail, solo una lingua di asfalto assolata che come un serpente nero giace sulla terra ocra. Le due linee gialle al centro che delimitano le carreggiate non sono segnaletica stradale ma una generica indicazione. Durante le ore di punta, quando Tubman Boulevard si congestiona, centinaia di moto, biciclette, pedoni sfrecciano da una parte all’altra come attraversando un fiume di ferro rovente. Decine di venditori di tergicristalli, sapone, carta igienica, penne, braccialetti affollano la strada cercando di richiamare la tua attenzione. Basta agitare una mano, ruotandola sul polso. Altri emettono dei versi che somigliano a dei baci, schioccati a centinaia di decibel. Assordanti. Provo a farlo e una moto che andava dritta per la sua strada sgomma e si ferma di fianco a me. «Sali Capo» dice il pilota mentre il secondo passeggero, un uomo vestito come un impiegato della Megaditta di Fantozzi, gli si stringe addosso per fare spazio sulla lunga sella nera ricoperta di plastica. Nessuno di noi tre indossa il casco.

«Vai a Congo Town?»
«No ma ti ci porto lo stesso»
«Tra poco inizia a piovere»
«Arriveremo prima, Capo»

In cinque minuti, superando il traffico con uno zig-zag tra le auto incuranti del senso di marcia, siamo di fronte a un portone di legno massiccio e scuro con bellissimi bassorilievi asiatici. È il cancello dell’Ambasciata Cinese nella Repubblica di Liberia. Monrovia, zona di Congo Town. La corsa è costata 1 dollaro americano.

L’appuntamento è lì vicino, sono in anticipo.

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Monrovia, Liberia, giugno 2019.

Proibizionismo a due ruote

Tra la fine della seconda guerra civile (2003) e l’epidemia di Ebola più drammatica della storia (2014), la Liberia ha cercato di ammodernarsi anche per quanto riguarda la sicurezza stradale. I mototaxi, motociclette usate come taxi, sono diffusissimi in tante nazioni del continente africano: in Swahili (Kenya, Tanzania Uganda e Ruanda) si chiamano boda-boda, in Hausa (Nigeria, Togo, Benin, Burkina Faso, Liberia e Sierra Leone) si chiamano okada o achaba, e in generale sono il mezzo di trasporto più veloce ed economico per spostarsi in una città. Anche a Monrovia. Un mezzo economico e diffusissimo che nel 2013 le autorità liberiane decisero di bandire: troppi incidenti, troppo caos e guida troppo spericolata.

In migliaia si ritrovarono senza lavoro. Molti di più quelli con un problema simile: come arrivare al lavoro senza essere costretti a camminare per ore. Il divieto ha spianato la strada all’arrivo dei kékeh. Numerosi operatori commerciali guineani e nigeriani, impiegando forza lavoro liberiana, hanno importato migliaia di trabiccoli usati in India e in Cina come tuk-tuk: dopo una prima ondata di mezzi marcati Piaggio, talmente vecchi che in realtà hanno saturato il mercato dei pezzi di ricambio, aziende asiatiche come Bajaj, Mahindra, TVS hanno aperto linee produttive dedicate all’esportazione. In particolare Bajaj Auto, che detiene dal 1959 una licenza Piaggio per la produzione di veicoli a due e tre ruote, è oggi il più grande produttore di mezzi tre-ruote al mondo. Oggi l’India produce 800.000 veicoli di questo tipo ogni anno, un terzo dei quali viene esportato in altri paesi in via di sviluppo: TVS ad esempio produce il King, utilizzato in 30 nazioni africane, con motore a benzina monocilindrico a quattro tempi da 200cc. In poco tempo i tre-ruote hanno preso il posto dei mototaxi: più sicuri di questi ultimi, leggermente più cari ma con la garanzia di arrivare a destinazione asciutti in ogni periodo dell’anno, accessibili anche agli anziani, i kékeh sono diventati il mezzo di trasporto pubblico-privato preferito dai cittadini di Monrovia e delle altre città liberiane. Migliaia di tre-ruote rumorosi si snodano ogni giorno, come i tentacoli di un’enorme piovra di lamiera, lungo le strade della capitale liberiana, soffocata dal traffico e congestionata dal caos.

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Monrovia, Liberia, giugno 2019.

Secondo la Liberia Motorcycle and Tricycle Association (LIMTCA) nel primo anno il nuovo mercato dei kékeh ha generato 5.000 posti di lavoro e tre anni dopo, scriveva nel 2016 l’AFP citando la Polizia nazionale liberiana, gli incidenti erano diminuiti del 90%. Oggi è il mezzo più diffuso per spostarsi in città, come una Uber africana dove la app è in realtà la tua mano che ruota.

Ma i dati, soprattutto quando si parla di realtà complesse come quella liberiana, non dicono sempre tutto. Nella vita reale, laggiù in mezzo alla strada, il traffico è veramente bestiale, la guida necessariamente spericolata, gli incidenti all’ordine del giorno. E la fatica si fa sentire. Si cammina avvolti dallo smog centuplicando il proprio livello di attenzione e affidandosi anche a una buona dose di fortuna. Dopo l’epidemia di Ebola nel 2016 il divieto di circolazione per i mototaxi è stato abolito, la concorrenza si è diffusa e con essa sono aumentati i rischi per i pedoni. Lo spazio si deve pur condividere. Salire su un kékeh è come rifugiarsi in un bar quando in agosto ci si sente spaesati dal caldo. Si fa fermare l’autista, si indica la direzione e si sale sul sedile posteriore, spesso già affollato: lo sprofondare nella similpelle o nella plastica che avvolge la gommapiuma della seduta somiglia al sedersi sulla una poltrona di un treno. Per un istante ci si abbandona e si tira un respiro di sollievo. Il caos all’esterno sembra sparire eppure è tutto lì attorno: i mezzi si toccano in continuazione, gli autisti schioccano baci ai clienti e litigano tra loro, si fermano a chiedere informazioni se non trovano la strada o a fare la spesa a una bancarella. Gli altri passeggeri parlano al telefono, tra di loro o con l’autista, ti salutano curiosi o giocano annoiati a Candy Crush Saga sullo smartphone. Sembra di stare su un vagone della metropolitana di Roma.

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Monrovia, Liberia. Sul kékeh di Papay Mensoh, giugno 2019

Ogni kèkeh può trasportare al massimo tre persone più l’autista ma capita spesso di ritrovarsi in cinque passeggeri più bambini in fasce. Il costo della corsa è di un dollaro americano, ma dipende anche dalla determinazione a non volerne pagare cinque, dalla distanza e dalla difficoltà nel trovare la destinazione. «Faccio questo lavoro da tre anni». Papay Mensoh ha 38 anni e nonostante la pancia gonfia e le mani nodose ne dimostra dieci di meno. Quando gli chiedo come vanno gli affari si offre di vendermi la sua licenza e il mezzo per 4.000 dollari: «Nel giro di un anno ti sei ripagato tutto. Prima lo prendevo a noleggio ma ho messo da parte i soldi e l’ho comprato usato due anni fa in un negozio, l’ho già riverniciato tre volte. Ora lavoro da solo, sono un imprenditore e sto pensando a qualche altro business». C’è da credergli ma fino a un certo punto. Quello che è certo è che il mezzo ha il fondo arrugginito e i sedili squarciati, con la gommapiuma gialla che esce dappertutto. Probabilmente Papay li ha aggiustati con lo scotch diverse volte prima di desistere. Il telo impermeabile che avvolge il tre-ruote, un TVS King giallo e nero, è fatto da diverse borse di plastica cucite assieme e svolazza un po’ schiaffeggiando i passanti. «Questo kékeh ha ancora parecchi chilometri davanti a sé» ed è solo uno delle migliaia che ronzano per le strade di Monrovia. Papay Mensoh parla un inglese dall’accento quasi incomprensibile. Forse è dialetto Kolokwa, il pidgin English più diffuso in Liberia e derivante dal Merico, dalla lingua Krio sierraleonese e dalle influenze del sud degli Stati Uniti, da dove gli ex-schiavi liberati migrarono tra il 1819 e il 1860 per tornare in Africa e fondare la prima nazione libera. La Liberia.

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Monrovia, Liberia, giugno 2019

Mamba Point

Il TVS King di Papay Mensoh mi porta nella zona di Mamba Point, sulla punta di capo Mensurado. Lo fermo e scendo per una passeggiata. Dalle parti della spiaggia, in realtà una discarica a cielo aperto a ridosso della zona dei migliori alberghi di Monrovia e dell’Ambasciata americana, c’è Randall Street. È un viale affollato di negozi di mezzi agricoli, furgoni, pezzi di ricambio, gommisti, meccanici, squallidissimi autosaloni e motosaloni, un supermercato e un fast-food. In uno di questi negozi mi accoglie Robert J. Jefferson, proprietario di un autosalone: «Di tre-ruote nuovi ne vendo almeno una decina ogni mese, soprattutto nuovi: costano 5.000 dollari l’uno ma se non li hai tutti me li puoi dare anche a rate. C’è tanto lavoro, i soldi rientrano sempre. Ad alcuni non faccio nemmeno pagare gli interessi. Hanno motori semplici e si riparano con pochi soldi o qualche nozione meccanica, è raro che vadano in giro con un solo cliente. Si usurano molto su queste strade ma macinano decine di migliaia di chilometri prima di dare problemi: this is Africa!»

Ma la vita del driver di kékeh non è sempre rose e fiori: il prezzo del carburante che cresce ogni giorno [a giugno 2019 1.34 dollari al litro alle pompe e qualche centesimo in meno al mercato nero] e i due anni di epidemia di Ebola nel cuore di Monrovia sono solo le più epiche battaglie dei driver fatte per la sopravvivenza. «Durante Ebola la gente aveva paura di salire a bordo e anche io squadravo sempre il cliente prima ancora di fermarmi» racconta un altro autista, Mattew Moh, 30 anni. «Lavavo il mezzo ogni sera ma non ero mai sicuro: chi si è seduto? Era infetto o no? Per mesi non ho lavorato, è stato un periodo terribile». Oggi come vanno gli affari? «Decisamente meglio ma con questo mestiere si galleggia senza emergere mai. Si lavora tanto e il mezzo comincia a usurarsi e spendo molti soldi per la manutenzione, la verniciatura, i pezzi di ricambio. Con la forza di Dio andiamo avanti» dice accarezzando il telo nero di finta-pelle che avvolge il suo Apecar Piaggio giallo e verde. È giovane, gli occhi vispi e il suo inglese è molto difficile da capire. Le infrastrutture della città, fatiscenti, affollate e pericolose, sono il suo pane quotidiano: «Qualche mese fa ho distrutto le ruote prendendo una buca, la sera è troppo buio per noi kékeh e durante “la stagione”, quando piove, diventa molto pericoloso».

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Monrovia, Liberia, Randall Street. Giugno 2019

I benefici pratici di questo mezzo di trasporto sono del tutto evidenti. Altrettanto evidenti sono però i numerosi risvolti negativi: oltre al traffico infatti Monrovia è afflitta da un inquinamento atmosferico mitigato solo dai venti oceanici e dalle verdi foreste alle sue spalle. La bassa qualità dei carburanti, il numero di veicoli e soprattutto la loro età anagrafica producono uno smog dannosissimo per la salute. Soffocante. Nella “capitale più umida del mondo”, Monrovia, questo inquinamento affligge i polmoni dei suoi abitanti a tal punto che il Parlamento ha emesso delle normative anti-fumo molto stringenti come palliativo popolare. Se vieni visto fumare una sigaretta per strada sarai fermato e multato: «Liberia is a smoke free country» ripetono i poliziotti mentre mezzi pesanti e migliaia di motori a quattro tempi di fine anni Ottanta rombano tutt’attorno. Paradossi del proibizionismo. Il kékeh più venduto, il Bajaj RE SP (molto in voga la sua versione Deluxe), monta motore a benzina ma è venduto anche in versione a gas naturale compresso (metano), molto meno inquinante e più economico. Il problema è l’approvvigionamento: «Qui a volte è difficile trovare anche la benzina» spiega Robert Jefferson «ma quel genere di carburante è molto più sicuro».

Attualmente in Liberia è impensabile anche l’acquisto di un mezzo a motore elettrico: l’energia, prodotta da fonti fossili, non è mai costante, tanto che tutti gli alberghi turistici della capitale Monrovia possiedono generatori diesel di corrente elettrica. Un fatto che, tra l’altro, fa lievitare i costi di una camera a livelli impensabili.

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Monrovia, Liberia. Meccanico, giugno 2019.

Gli orizzonti ristretti

Mentre nel 2013 la Liberia apriva i suoi porti al commercio di mezzi a tre-ruote per il trasporto passeggeri a Pontedera, 25 chilometri da Pisa, il presidente del Gruppo Piaggio Roberto Colaninno dichiarava tramontata l’epoca dell’Ape, fino a quel momento uno dei simboli del made in Italy. La sua produzione, avviata nel 1948, era in fase calante da 20 anni e nel 2007, prima della grande crisi economica degli anni Duemila, ne immatricolò in tutta Europa solo 10.000 unità. «Il mercato europeo dei veicoli a tre ruote è morto» affermò Mauro Faticanti, responsabile Fiom nel Gruppo Piaggio. In quel preciso momento, mentre si chiudevano i battenti in Toscana, a Pune, città di 2.5 milioni di abitanti a 150km da Mumbai in India, si producevano 150.000 modelli Ape per il mercato indiano.

L’Ape, nato a Pontedera nel 1948 da una semplice Vespa 125 a cui era stato posteriormente montato un grosso cassone (si chiamava VespaCar), simbolo del design made in Italy e apprezzato per la sua praticità, continuava a essere prodotto e venduto nei mercati emergenti più grossi del mondo. Le aziende indiane continuavano a produrre grazie alla licenza acquistata decenni prima da Piaggio e addirittura la Star è riuscita a aggredire il mercato italiano con la sua copia perfetta di Vespa PX, vendendone decine di migliaia di modelli. L’orizzonte ristretto di Piaggio, la piccola e satura Europa, avevano convinto la dirigenza a chiudere le linee di produzione in Italia rischiando di darsi la zappa sui piedi da soli. In realtà l’annunciata crisi dell’Ape, come anche di Vespa, è stata solo una fase di passaggio che ha fatto tuttavia perdere molto tempo ai player italiani. Ancora oggi Piaggio produce tre modelli di Ape: Ape 50, circa 5.000 Euro, Ape Classic, circa 6.000 Euro, e Ape Calessino, 6.345 Euro più IVA. I primi due sono modelli da lavoro mentre il terzo è il mezzo studiato e venduto appositamente per il trasporto di passeggeri e turisti: una versione personalizzata è in possesso del Papa e un’altra del Presidente della Repubblica Italiana.

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Monrovia, Liberia, giugno 2019

Solo nel 2018, 70 anni dopo la nascita di questo mezzo a motore con tre ruote, il Presidente e amministratore del gruppo Piaggio ha annunciato «un progetto di crescita dell’export dei veicoli commerciali leggeri nei Paesi emergenti»: nel 2017 Piaggio ha venduto all’Egitto 70.000 Ape e persino di più in Nigeria ma il mercato nei paesi emergenti è oggi dominato dalle aziende indiane e cinesi, che grazie al know-how italiano sono capaci di produrre a costi inferiori mezzi di alta qualità.

Su Alibaba si può acquistare un SRX1 dell’aziendacinese Siristar (conforme alle normative europee sull’inquinamento) a 2500 dollari americani. Sono prodotti e assemblati a Henan, Cina, anche nella versione 100% elettrica. Versione che per Ape Calessino è stata inizialmente prodotta in soli 999 modelli. In 30 giorni viene garantita la spedizione via nave e più se ne acquistano, meno costano (si può arrivare a un prezzo di 1300 dollari l’uno). Altri modelli nuovi di altre marche cinesi o indiane sono anch’essi disponibili su Alibaba all’interno di offerte pensate per imprenditori o cooperative di autisti che intendono creare vere e proprie flotte di tuktuk per il trasporto passeggeri.

Il futuro della mobilità urbana è su tre ruote? Difficile a dirsi. Forse con il tramonto del mercato informale della mobilità, in Africa ma anche in Asia, e la fine dei combustibili fossili i tuktuk saranno riconvertiti in mezzi da lavoro. O forse no. Quello che è certo è la vita di cui stanno godendo i mezzi a tre-ruote è decisamente più longeva di quella che immaginava qualche anno fa il loro creatore Piaggio.

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