Durante la Rivoluzione, il 12 febbraio 2011, Abderrahim lancia una carovana umanitaria che raccoglie medicinali, attrezzature mediche e prodotti alimentari per un valore di 70.000 dinari [all’epoca circa 30.000 Euro] destinati all’ospedale regionale di El Hamma, dove mancava tutto. Si rende conto, lo ha dichiarato più volte ai giornali tunisini, di come fosse grande la sofferenza delle popolazioni meno abbienti; una considerazione che non ha provocato pietismo o indifferenza ma azione: «Ho iniziato a studiare il loro programma e l’ho trovato convincente» dichiarò a Business News parlando di Ennahda. «C’era già molta fiducia tra loro e me, e ho trovato la mia candidatura all’Assemblea Costituente propizia alla difesa dei risultati raggiunti dalle donne. Come donna la mia presenza potrebbe essere una garanzia, una salvaguardia dei nostri diritti».
Molte persone, non solo in Tunisia ma anche diversi esponenti politici occidentali, analisti, studiosi, temono che Ennahda sia la bella faccia dell’islamismo radicale nel paese nordafricano. Una bella faccia simile a quella di al-Fatah in Palestina, che si mostra progressista e conciliante salvo finanziare in diversi modi movimenti politici come Hamas, che di moderato non hanno nulla.
Ma il caso di Ennahda è decisamente differente, come differente è il contesto sociale e politico che caratterizza la Tunisia rispetto alla Palestina: «Questa fobia è comprensibile, soprattutto se pensiamo che in altre parti del mondo l’islamismo ha fallito. Ennahda è tutt’altro che estremista: ad esempio io non ho mai ricevuto commenti sul mio aspetto fisico o sul fatto che non indossi il velo. […] All’Assemblea costituente sento il dovere di rappresentare il mio popolo e non Ennahda: il rispetto reciproco e l’amore per il nostro Paese ci unisce tutti» dichiarò nel dicembre 2011 dopo l’elezione.
È difficile convincere del contrario chi sostiene che Souad Abderrahim rappresenti la vetrina ripulita di un partito sostanzialmente conservatore dal punto di vista dei diritti individuali, toccherà nuovamente a lei agire per mettere a tacere.
L’Islam politico non ha futuro in Tunisia e questa è solo una fase di transizione: questi infatti è incompatibile con una società ricca di civiltà e cultura, con una storia complessa e multiculturale. In Tunisia convivono arabi-musulmani del Mashrek e del Golfo con arabi-berberi-musulmani nel Maghreb, strutture mentali e culturali profondamente differenti e integrate: nell’XI secolo le ragazze studiavano fianco a fianco con i ragazzi. È incredibile come Souad Abderrahim debba convincere non tanto in Tunisia quanto più fuori dalla Tunisia: la sua militanza trentennale, la sua vita raccontano già molto di lei, abbastanza da allontanare diffamazioni come quelle di chi la indica come «una vetrina» degli islamisti.
Abderrahim ha sempre deplorato la divisione interna ai movimenti studenteschi di cui ha fatto parte, negli anni Ottanta gli scontri tra studenti islamisti e studenti di sinistra erano all’ordine del giorno, si è sempre proposta come mediatrice laica interna al movimento e ancora oggi rivendica la sua indipendenza all’interno di un partito islamico: «Non sono mai stata membro di alcun partito, di movimenti con tendenze islamiche né di Ennahda» ha dichiarato a Le Monde il giorno dopo l’elezione. Nel 2014 il partito snobba la sua disponibilità a candidarsi a Tunisi preferendole il vicepresidente di Ennahda Abdelfattah Mourou e da quel momento inizia la traversata nel deserto di Souad Abderrahim.
Le domande che dobbiamo porci per cominciare a capire la personalità complessa di Souad Abderrahim possono limitarsi all’osservazione: indipendente, senza velo e certamente non una donna musulmana «tradizionale», per ciò che questo significa nel nostro immaginario, che sostiene che «le libertà non devono essere assolute ma incorniciate da costumi, tradizioni e rispetto della moralità». Le madri single le definì «un’infamia», non hanno bisogno di tutele dei propri diritti perché la famiglia è una soltanto, il matrimonio. Parole, dette nel corso di un’intervista alla radio, per cui fu costretta a scusarsi, anche in seguito a un’aggressione subita una decina di giorni dopo averle pronunciate di fronte alla sede dell’Assemblea Costituente, a Tunisi, e per cui si guadagnò il soprannome di Souad Palin.
Nel corso della stessa intervista però, e questo esemplifica non solo la complessità del personaggio politico ma anche la complessità del panorama culturale tunisino, Souad Abderrahim ha insistito sull’importanza di una «vera parità tra uomini e donne», un fatto che oggi è la normalità in Tunisia. In questo senso Souad è figlia del suo tempo e ne rappresenta molto bene la spinta progressista: nel giugno scorso il Comitato per le libertà e l’uguaglianza tunisino ha pubblicato un rapporto che illustra come il dibattito pubblico, sia nella politica che nei mercati e nelle famiglie, verta su temi quali l’uguaglianza di genere nell’eredità, la depenalizzazione dell’omosessualità e dell’uso di droghe leggere, l’abbandono dello statuto maschile del capofamiglia. Questioni che toccano nel concreto la vita delle persone.
Souad sostiene, lo ha fatto pubblicamente più volte, che l’aborto afferisca alla «libertà di ciascuna persona» e il partito che rappresenta, pur giudicandolo «un’aggressione contro la vita» ne valuta un’eventuale depenalizzazione «prima della formazione del feto», anche questa una rivoluzione per le donne tunisine. La Tunisia è quel Paese in cui le associazioni del terzo settore e la società civile manifestano, il 14 maggio scorso a Tunisi, per denunciare la situazione precaria che vive l’immigrato africano in Tunisia e per chiedere la firma della Convenzione ONU sulla protezione dei diritti dei lavoratori migranti e delle loro famiglie.
Sempre in Tunisia il Parlamento lavora, da circa un anno, su una legge anticorruzione che intacchi il finanziamento a gruppi islamici radicali, lo stesso Parlamento che ha approvato una legge che consente il matrimonio di tutti con tutti (nello specifico dei musulmani con i non-musulmani) e che ha rifiutato, in nome del rispetto dei diritti umani e della propria sovranità territoriale, il rimpatrio dei migranti irregolari e l’istituzione sul proprio suolo di centri di accoglienza gestiti dall’Unione Europea.
Mentre decine di migliaia di giovani tunisini si sono lasciati attrarre dalle sirene dell’estremismo islamico arruolandosi in gruppi come Daesh o al-Qaeda, da qui sono partiti per la Siria e l’Iraq più foreign-fighters in assoluto, la Tunisia discuteva al suo interno di come migliorare le proprie carceri, rendendosi conto che era lì che questi ragazzi frequentavano l’Università del terrore. Molti di questi erano dentro perché tossicodipendenti o erano stati colti in flagrante a consumare o vendere cannabis, sbattuti in galera alla mercé delle sirene islamiste.
Se è vero che c’è ancora tantissimo da fare per quanto riguarda la partecipazione democratica, l’affluenza alle elezioni amministrative è stata decisamente bassa sopratutto nelle zone più povere (dove è arrivata ad appena il 12%), è anche vero che proprio Ennahda ha cambiato al suo interno diverse posizioni politiche nel corso degli anni. Oramai non esistono argomenti tabù nel dibattito pubblico tunisino.