È paradossale osservare come all’aumento delle rimesse non corrisponde una diminuzione delle tariffe, un paradosso reso ancor più forte da un’evidente determinazione da parte delle persone ad inviare denaro a casa letteralmente «ad ogni costo». Le soluzioni, parziali come sempre auspicabili, esistono già.
In Kenya e Tanzania esiste un sistema di trasferimento denaro che si chiama Mpesa [em-pesa, nda], sviluppato da un team di ingegneri a guida italiana dalla compagnia telefonica Safaricom: è un servizio diffusissimo, tanto che la compagnia sta lanciando lo stesso sistema in altri paesi africani.
Il denaro, anche contante, viene trasferito immediatamente utilizzando la rete dati Safaricom: Mpesa funziona sia come Satispay, un portafogli virtuale sempre più utilizzato in Italia [ne abbiamo parlato su Wolf], che come money transfer ma senza alcun costo per chi invia o riceve denaro. La transazione utilizza necessariamente la rete Safaricom che, in questo modo, ha il suo tornaconto. Il sistema di Mpesa permette agli operai che vivono e lavorano a Nairobi, ai camerieri e ai facchini di Malindi e Watamu, di inviare il proprio stipendio alla famiglia che risiede al villaggio, magari a centinaia o migliaia di chilometri di distanza; il tutto è oggi possibile senza assumersi il rischio di dover necessariamente viaggiare per diverse ore con le tasche piene di contanti, esponendosi ai pericoli che possiamo immaginare.
Una rivoluzione tecnologica che permette alle zone più remote dell’Africa orientale di garantirsi autosufficienza perché le rimesse che i migranti interni inviano a casa vengono investite, anche in istruzione, oltre che utilizzate per la spesa corrente.
Oggi, nonostante Internet sia onnipresente, non esiste un sistema che permetta questo tipo di operazioni da un Paese all’altro o da un continente all’altro: l’eliminazione dal mercato dei contratti di esclusiva migliorerebbe la concorrenza, oltre a migliorare l’efficienza dei servizi e il progresso tecnologico.
Il legame strettissimo tra le diaspore e le loro origini non ha nazionalità e, se vogliamo estorcere una regola generale dai numeri, questo legame è un fattore di crescita importante per i paesi in via di sviluppo. Un elemento ancor più importante laddove insistono conflitti armati: da quando la Svezia investe buona parte dei propri fondi per la cooperazione e lo sviluppo in Somalia, accompagnati dall’avvio di attività di supporto alle associazioni della diaspora somala presenti nel paese scandinavo, il combinato disposto rimesse-fondi allo sviluppo ha creato zone war-free nel disastrato paese africano grazie a progetti sanitari, scolastici e umanitari.
Stoccolma ha finanziato sostanzialmente attori privati in Somalia e lo stesso fa l’Italia in diversi paesi dell’Africa subsahariana, spesso con successo e con gli investimenti più ingenti d’Europa (persino più della Francia), ma questa è una modalità che diverse associazioni della società civile europee marchiano come miope e spesso controproducente.
La questione è sempre la stessa: l’accesso e il controllo dei fondi europei per lo sviluppo sostenibile, 4 miliardi di euro in aumento. Noi non possiamo in alcun modo dire chi ha ragione e chi ha torto ma ci limitiamo a riportare le considerazioni delle parti nel modo più asciutto possibile: diverse organizzazioni della società civile europee infatti concordano sul fatto che il settore privato sia un importante volano di sviluppo ma lamentano anche come spesso la cornice legislativa in cui avvengono tali investimenti non sia proprio chiara.
Queste attività di cooperazione, che esistono, vanno a discapito della tutela dei diritti umani o della sostenibilità ambientale e spesso non incidono in alcun modo sulla lotta alla povertà e alla disuguaglianza, paradossalmente aggravando le condizioni di vita nelle zone di intervento.