Arte e controculture
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L’impatto politico del clima di allarme partito dagli Stati Uniti verso la fine degli anni Sessanta riguardo ai rischi legati all’uso di sostanze psichedeliche investì con forza il contesto internazionale. Nel 1968 l’Economic and Social Council delle Nazioni Unite (ECOSOC), tentò con una mediazione di preservare l’uso degli psichedelici per scopi di ricerca. Gli stati membri provarono a raggiungere un accordo riguardo l’ambito scientifico, ma considerata la mutata percezione del rischio fu impossibile elaborare un documento che proteggesse anche solo le ragioni della ricerca terapeutica. Nel 1971 i rappresentanti dei paesi dell’ONU a Vienna scoprirono che anche il Canada, teatro nel decennio precedente di alcuni dei più importanti trial in materia, aveva ormai vietato da due anni le sostanze, imitato a stretto giro da tutti gli altri paesi membri. Dal 1971, al di là di rare e sporadiche eccezioni, i vincoli imposti dai governi alla ricerca erano tali da legare le mani anche ai più volenterosi degli studiosi. Le nuove restrizioni ebbero pesanti effetti anche sui risultati ormai raggiunti, che vennero accantonati. Si entrava in una fase per cui ipotizzare di fare studi sugli psichedelici avrebbe di per se stesso screditato chi avesse pensato di farli. Da questo momento in avanti la storia novecentesca della psichedelia entra a pieno diritto nel dominio di quella controculturale, con tutti i rischi e le dure repressioni comportate da un quadro di divieto draconiano. Proviamo comunque a riassumere in breve alcuni dei principali risultati raggiunti dalla ricerca scientifica a partire dalla fine degli anni ’60 in poi.
Appena prima che il divieto internazionale fosse effettivo, alcuni risultati rilevanti furono conseguiti dallo psichiatra messicano Salvador Roquet, il cui approccio terapeutico variava a seconda del disturbo da trattare, così come l’uso delle sostanze – riservando le più intense, come mescalina e LSD, per le fasi più delicate del percorso terapeutico. La terapia messa a punto da Roquet prevedeva la costituzione di gruppi di non meno di venti pazienti, da trattare a seconda delle loro reazioni, sempre sotto stretto controllo medico. Il ruolo del setting era per Roquet fondamentale. A differenza di Leary e Alpert, i membri del team dello psichiatra messicano non assumevano mai le sostanze insieme a chi partecipava alle sessioni terapeutiche. Dai dati raccolti nel corso di oltre 2000 trattamenti, Roquet ricostruisce un quadro complessivo che descrive gli effetti degli psichedelici sui pazienti. A una prima fase caratterizzata da distorsioni sensoriali, seguiva una seconda in cui spiccava una forte componente mistica, era poi generalmente la volta di un sentimento di ansia, spesso associata a ricordi infantili o alla paura della morte, preludio della vera e propria ego dissolution, l’acme dell’esperienza, nel quale grazie al crollo delle vecchie strutture mentali si riusciva ad abbattere le resistenze psicologiche, favorendo la creazione di un nuovo modo di pensare, in grado di metabolizzare più efficacemente il disagio provato dai pazienti. Le ricerche di Roquet si interruppero nel 1974, quando anche il Messico vietò gli psichedelici e Roquet venne arrestato insieme a molti dei suoi collaboratori.
Tra gli psichiatri che negli anni ’60 e ’70 hanno continuato a studiare gli psichedelici va ricordato anche Stanislav Grof, convinto dai suoi trattamenti che attraverso queste sostanze fosse possibile (almeno in alcuni casi) far risalire il paziente fino al primo grande trauma che questi avrebbe vissuto, quello della nascita; e, soprattutto, permettergli di vivere meglio la prospettiva della propria morte. Il programma di studi di Grof fu condotto insieme a Walter Pahnke, che abbiamo incontrato in occasione del «Miracolo del venerdì Santo», e la cui prematura e traumatica scomparsa rischiò di porre fine alle ricerche di Grof. Pahnke infatti morì nel 1971 annegando nelle acque che bagnano le coste del Maine in circostanze misteriose, di lui non venne ritrovato nulla, né il cadavere né l’attrezzatura con cui si era immerso. Tuttavia Grof decise di proseguire le sue ricerche e fu il caso di Gloria, malata terminale di cancro, che irrobustì la sua convinzione secondo cui si potessero ottenere dei trattamenti terapeutici in molti ambiti grazie alle sostanze psichedeliche. Gloria, che soffriva anche di una forte depressione, fu trattata nel 1966 da Grof nella clinica di Spring Grove e il risultato della cura fu straordinario. Costituita da alcune sedute di psicoterapia e da una sola assunzione di 200 μg di LSD (una dose intensa), la terapia messa a punto per la paziente migliorò decisamente la qualità dei giorni che le restavano da vivere, poco più di un mese. In Gloria la depressione e la paura della morte si dileguarono, rimpiazzate da sensazioni di empatia e amore verso quella che era stata la sua vita.
Nel suo libro L’incontro con la morte, pubblicato nel 1977, Grof scrive:
Un altro contributo molto importante di Grof fu la sua classificazione in quattro fasi dell’esperienza psichedelica, descritta a partire dalle reazioni dei pazienti trattati con LSD. Le quattro fasi – che ricordano le osservazioni effettuate da Roquet – sono: fase estetica (dominata dalle distorsioni sensoriali); fase psicodinamica (in cui riemergono e vengono rielaborati alcuni ricordi, soprattutto dolorosi); fase perinatale (durante la quale si vivono esperienze di dolore, morte e rinascita); e fase transpersonale (caratterizzata dall’ego dissolution, in cui la coscienza individuale si fonde nel battito universale, oltre i limiti dell’io e del consueto rapporto con lo spazio-tempo).
Negli anni immediatamente precedenti la messa al bando internazionale, anche negli atenei italiani – dove storicamente si è sempre riscontrato un certo ritardo per quanto riguarda gli studi riguardo a questo tipo di sostanze – qualcosa si stava muovendo. All’Università di Genova lo psichiatra Franco Giberti studiava gli effetti dell’LSD col fine di indurre uno stato di psicosi temporanea a scopi diagnostici e terapeutici, ottenendo risultati incoraggianti. Un contributo arrivò anche dall’Università di Imola, dove Giuseppe Tonini studiò il rapporto tra LSD e produzione artistica – ma tutti i trial vennero arrestati nel 1966, quando la Sandoz smise di fornire i campioni di acido lisergico, poco prima che anche l’Italia inserisse le sostanze tra quelle vietate anche per scopo di ricerca, stroncando così i pochi filoni di studio allora attivi. Questa frontiera della ricerca scientifica è stata relegata fino a oggi in un territorio considerato impraticabile dai tremebondi apparati universitari italiani.
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