Base a Vicenza
La storia dell’ex aeroporto del capoluogo veneto si intreccia con quella delle basi statunitensi presenti in città. E per capire il senso del Parco della pace oggi, bisogna ripercorrere gli ultimi 100 anni di storia vicentina
La storia dell’ex aeroporto del capoluogo veneto si intreccia con quella delle basi statunitensi presenti in città. E per capire il senso del Parco della pace oggi, bisogna ripercorrere gli ultimi 100 anni di storia vicentina
La storia del Parco della pace a Vicenza non è soltanto una storia di rigenerazione urbana. È una storia di guerre e di paci. E scriviamo “paci” al plurale perché questo parco ha a che fare con la trasformazione di un luogo militare, certo, ma anche perché ha avuto a che fare con […]
“La voglio anch’io una base a Vicenza
Non riesco più a farne senza
Ci metto tutta l’arroganza che avanza
La voglio anch’io una base a Vicenza”
È il 14 febbraio del 2025. A Vicenza è una giornata sfortunata dal punto di vista meteorologico: il giorno prima è stata diramata un’allerta precauzionale a causa del forte vento previsto. Durerà 24 ore, che coincidono proprio con l’appuntamento che abbiamo preso per visitare il Parco della pace insieme all’assessore Leone Zilio.
Il Parco della pace di Vicenza è un’area verde di 650.000 metri quadri. Se si cammina di buon passo ci vogliono trenta minuti per attraversarlo: per una città di medie dimensioni come Vicenza, 110mila abitanti, è un parco urbano enorme, grande quanto parco Sempione a Milano. È frutto di un progetto di rigenerazione urbana: prima era un aeroporto. L’infrastruttura verde è stata progettata per offrire servizi ecosistemici. I servizi ecosistemici sono benefici della natura che migliorano la qualità della nostra vita: aria più pulita, regolazione della temperatura, assorbimento dell’acqua piovana, biodiversità, benessere per le persone.
La visita è programmata da tempo e non si può rimandare, anche se non è il giorno ideale. C’è bisogno di un’autorizzazione per entrare e abbiamo dovuto firmare una manleva, consapevoli di entrare in una zona che è ancora parzialmente un cantiere. Eppure il Parco della pace ha già ospitato parecchi eventi, in realtà. Uno degli ultimi, dal 26 al 29 settembre 2024, si chiamava Hangar Palooza. Quel che manca è un via libera definitivo per ragioni di sicurezza: in occasione degli eventi, molte aree del parco sono accessibili, ma l’apertura completa e permanente non c’è ancora stata.
Dall’albergo, non lontano dal parco, la receptionist mi dice che è curiosa di vedere cosa sarà il parco quando finalmente sarà aperto tutto l’anno. “Non vediamo l’ora. Abbiamo avuto qui in albergo molte persone che ci hanno lavorato, per tre anni. È stata lunga, qualcuno ha fatto anche i natali qui”.
In effetti, la storia di questo parco è stata davvero lunga. E per parlarne dobbiamo per forza fare un lungo excursus storico che ci serve per molti motivi. Il primo di tutti è che per valutare l’impatto di un progetto di riqualificazione urbana serve tempo. Serve tempo anche per fare il progetto e per valutarlo, perché cambiano le amministrazioni e i loro colori politici, cambiano le priorità, cambiano le persone. Serve ancor più tempo se il progetto è la riqualificazione di un ex aeroporto che ha una sua storia; ne serve ancor di più se questo ex-aeroporto è proprio adiacente a una base militare statunitense. E i tempi aumentano se, per esempio, quando inizi i lavori scopri bombe, mine, munizioni e ogni sorta di residuato bellico che ci ha lasciato la seconda guerra mondiale.
Ecco perché, prima di parlare di cos’è il Parco della pace oggi, di cosa potrà essere in futuro e di quel che sappiamo già in termini di impatto ambientale e risultati ottenuti, bisogna ricostruire un po’ di storia di queste parti.
Nel 1921 l’Italia, ancora in pieno dopoguerra, è una monarchia. Il re è Vittorio Emanuele III di Savoia. Il sindaco di Vicenza è Luigi Faccio, socialista, e la giunta è monocolore, di sinistra: nei primi due anni dopo la fine della guerra, i socialisti avevano acquisito consensi ovunque. Mussolini, che proviene pure lui dal partito socialista, non ha ancora fondato il partito fascista: lo farà a novembre di quell’anno e nel 1922 gli squadristi, con il golpe nero a Vicenza, si libereranno di Faccio: il “biennio rosso” aveva lasciato posto a quello che sarebbe diventato il ventennio nero. Teniamo a mente le alternanze politiche, perché ritorneranno spesso in questa storia. Prima del golpe, l’amministrazione comunale di Vicenza, insieme alla provincia, ha fatto in tempo a decidere la costruzione di un aeroporto per la città veneta. Il luogo scelto era quello in cui si trovava la piazza d’armi della città durante la prima guerra mondiale.
Tutto comincia con una pista in erba da 500 metri di lunghezza, per permettere i decolli e gli atterraggi del neonato Aeroclub, che è attivo ancora oggi (dal 1928, è intitolato a Ugo Capitanio, un pilota dell’aeronautica italiana morto in guerra nel 1918).
Quando il fascismo prende il potere in Italia, il riarmo muscolare diventa un fatto. Servono basi, hangar, torri di controllo. Molto presto l’aeroporto di Vicenza diventa appetibile per la Regia Aeronautica. Soprattutto, serve una pista in grado di ospitare manovre più ampie. Inaugurato ufficialmente nel 1930, l’aeroporto Tommaso Dal Molin (altro pilota dell’aeronautica, morto quell’anno in un incidente) diventa la base del 16º stormo bombardamento terrestre. La pista viene allungata a 1000 metri e l’erba non basta più: serve una pavimentazione nuova, in macadam, un precursore degli asfalti più moderni. Il Dal Molin è il secondo aeroporto in Italia ad avere una pista simile, dopo quello di Ciampino a Roma. E poi diventa il primo italiano a permettere decolli e atterraggi al buio, perché la pista viene illuminata.
Nel 2007 il governo Prodi nomina un “commissario straordinario per l’ampliamento dell’insediamento militare americano all’interno dell’aeroporto “Dal Molin” di Vicenza”: è Paolo Costa, che in quel momento è anche europarlamentare. In Italia, i commissari hanno poteri speciali e in deroga a determinate leggi e governi d’ogni colore li usano – e a volte ne abusano – quando ci sono situazioni delicate da gestire. La cosa non fa felici molti vicentini.
Quindi, a giugno dello stesso anno, i lavori vengono ufficializzati.
“Si tratta”, scrive Guido Lanaro nella sua tesi di laurea, pubblicata con il titolo “Il popolo delle pignatte”, di “un progetto promosso ed avallato, con una continuità politica altrimenti rara nella gestione della cosa pubblica, da governi di centro destra e di centro sinistra, deliberatamente e volutamente sottaciuto alla città dai propri amministratori, e tacitamente accettato, per motivi di convenienza economica, da molti protagonisti della vita economica e sociale della città”.
Negli anni dell’accordo bipartisan – parola che proprio in quel periodo inizia a diffondersi in in Italia – il sindaco di Vicenza è sempre Enrico Hüllweck (Lega Nord, centrodestra).
Paradossalmente, è proprio questo accordo fra i governi italiano e statunitense, fortemente simbolico e militaresco, che getta le basi per qualcosa che è tutto il contrario delle armi e delle guerre: è proprio da qui, infatti, che, senza che nessuno ancora lo sappia, inizia il percorso del Parco della pace.
Ci sono molti movimenti dal basso che prendono piede in Italia agli inizi degli anni 2000 o poco prima. Il più famoso di tutti è sicuramente il movimento No Tav della Valle di Susa. A Vicenza, quando il progetto della base diventa pubblico, nasce il No Dal Molin. Questi “no” vengono spesso tacciati dalla politica e dalla stampa di essere oppositori di qualsiasi progetto di modernizzazione; di avere visioni limitate del presente e del futuro; di essere affetti dalla sindrome di nimby [not-in-my-backyard. Si dice di chi protesta contro qualsiasi cosa avvenga nei pressi delle proprie aree di interesse, disinteressandosi poi di quel che succede altrove, ndr]. Sono spesso definizioni poco generose, strumentali, volutamente semplificatorie e minimizzanti.
Il movimento No Dal Molin, in realtà, è variegato e animato, fondamentalmente, da un forte spirito antimilitarista. È composto da privati cittadini, dall’Osservatorio Permanente contro la Servitù Militare,dai comitati sorti spontaneamente in alcuni quartieri (come quelli di Polegge, Vicenza Est o Maddalene) e nei paesi limitrofi a Vicenza (come Costabissara e Valdagno), e da alcune associazioni già preesistenti sul territorio (Emergency, Arciragazzi, Arci Servizio Civile e i Centri Sociali del Nordest con la realtà del Capannone Sociale e poi del Bocciodromo).
E, come molti movimenti, non si limita solamente a protestare, ma agisce. Come scrive Moran De Sanctis nella sua tesi di laurea, nella sua prima fase di vita “il movimento ha agito su due piani: a livello di opinione pubblica, informando la cittadinanza della costruzione della base attraverso attività di tipo divulgativo (assemblee informative rivolte ai cittadini, comunicati stampa) e a livello di manifestazioni dirette nonviolente, tipologia di azioni simili a quelle dei No Tav, che caratterizza tutto il percorso del movimento.
I lavori per la nuova base ufficializzati nel giugno 2007, però, non partono subito e il tema della base, molto sentito in città, viene cavalcato dal centrosinistra.
Nel 2008 a Vicenza si vota per le elezioni comunali: una maggioranza lieve (50,48%), che sembra essere l’istantanea di una continua alternanza politica, elegge sindaco Achille Variati, della coalizione di centrosinistra. Secondo Variati sono le persone che devono decidere del destino del proprio territorio. Così convoca un referendum cittadino. Nel frattempo, anche il Tar (tribunale amministrativo regionale del Veneto) si esprime contro la base e blocca i lavori, accogliendo la domanda di sospensione del comune in attesa del referendum. Ma, quattro giorni prima del voto, il Consiglio di stato ribalta tutto: hanno ragione il ministero della Difesa e il consiglio dei ministri – che hanno fatto ricorso contro il Tar –: l’approvazione della nuova base è “un atto politico” e il Tar non poteva intervenire. Contestualmente, il consiglio di Stato ferma anche l’iniziativa di Variati affermando che il referendum “non rientra nella procedura di autorizzazione ad un insediamento militare, di esclusiva competenza dello Stato”.
E allora Il movimento No Dal Molin ne organizza uno proprio. Partecipano 25mila persone (il 28% degli iscritti ai registri elettorali di Vicenza) e circa il 95% dei voti sono contro la realizzazione della base. Tutto questo, semplicemente, rallenta i lavori, ma nel 2009 i cantieri partono.
Il movimento continua con le proprie azioni di protesta. Nel 2010 alcune decine di manifestanti, violando la legge, entrano nella base e documentano con alcune foto la situazione dei lavori. Fra di loro c’è la consigliera comunale e portavoce del movimento Cinzia Bottene.Dovranno rispondere di “introduzione clandestina in area militare e danneggiamento”, ma la loro azione ha un doppio risultato.
Da un lato mette in luce l’assurdità di una situazione in cui i tecnici del comune di Vicenza non possono entrare a verificare i lavori mentre alcuni civili sì, se parenti dei soldati statunitensi. Dall’altro offre una documentazione inedita sui lavori. Gli attivisti, infatti, scattano varie foto della situazione: “I migliaia di pali impiantati nel terreno per le fondamenta hanno creato un effetto diga impedendo alla falda superficiale, che è solo 50 centimetri sotto il piano campagna, di defluire”, dice Bottene. I lavori sono di fatto fermi, così come gli scavi archeologici della Soprintendenza, fermi a dicembre. Lì sotto c’è un villaggio paleoveneto”.
Le foto vengono portate in consiglio comunale. Il sindaco Variati – almeno formalmente – critica l’azione: “Non potete pensare che sia da parte mia una benedizione del fatto che siete entrati violando la legge”, dice. Poi, però, usa le informazioni che ha ricevuto come leva per fare pressione sul commissario Costa.
È aprile, e comincia a farsi strada un’idea. L’area ovest dell’ex aeroporto ormai è andata: la base c’è, esiste. Ma forse si potrebbe ottenere qualcosa: trasformare l’area est in un parco. A sorpresa, ecco che arriva un altro accordo bipartisan, questa volta locale. Il centrodestra si schiera insieme alla coalizione di Variati. Con 29 voti su 32 il consiglio comunale impegna il sindaco “a ricercare un’intesa con il Governo, tramite il commissario, per un accordo di realizzazione di infrastrutture quali la Tangenziale Nord-est, la realizzazione della prima linea cittadina di trasporto elettrico, l’attribuzione a titolo gratuito del lato est dell’area Dal Molin da destinare prevalentemente a sviluppo ambientale e il rilancio dell’università berica”. Inoltre, con 26 voti su 32 chiede “la riconversione del finanziamento per la realizzazione e rototraslazione della pista (previsto da delibera Cipe del 6 marzo 2009) destinandolo all’area verde”.
L’idea, insomma, è di ottenere una compensazione in cambio del fatto che Vicenza si trova a ospitare, suo malgrado, un’altra base militare statunitense.
Il movimento vuole ribadire ancora una cosa importante, con un sit-in: “il parco della pace – sono proprio i No Dal Molin che cominciano a chiamarlo così – è un diritto della città, non un regalo”.
Mentre ripasso quel che mi serve ricordare per il mio incontro con l’assessore Zilio, mentre soffia il vento forte e piove, mi avvicino alle transenne che delimitano il parco. All’orizzonte vedo la base americana. Ci sono più di cento anni di storia davanti a me e se non se ne conoscono bene le dinamiche si rischia di equivocare, prima di tutto, la funzione sociale di quel che rappresenta il parco della pace.
Ma com’è fatto? E quest’idea che nel 2011 veniva chiamata “area verde”, cos’è diventata oggi? Come funziona? A cosa serve?
Con il supporto di Journalismfund Europe
In apertura, l’antica pista dell’aeroporto Dal Molin, oggi – Foto di Vilija Ramanauskienė
La storia del Parco della pace a Vicenza non è soltanto una storia di rigenerazione urbana. È una storia di guerre e di paci. E scriviamo “paci” al plurale perché questo parco ha a che fare con la trasformazione di un luogo militare, certo, ma anche perché ha avuto a che fare con […]
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