Ep. 08

Il movimento rave

Che ruolo hanno avuto i rave nella storia della psichedelia?

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.
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Il lungo viaggio. Storia universale della psichedelia

Non più droghe ma farmaci: l’evoluzione degli psichedelici tra cultura di massa e scienza.

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A tenere in vita più di ogni altra cosa il ricordo – e soprattutto la pratica – della psichedelia dopo la fine degli ’60 è stato il movimento rave. La sua cultura liminale ma tenace ha raccolto e sintetizzato sia l’eredità della filosofia hippy (vibrante oltre che nell’approccio pacifista nelle sonorità inizialmente squisitamente sixties) che del punk (rielaborato in un’estetica post-industriale e nell’uso di sound system itineranti), con un approccio all’uso delle sostanze diffuso, orizzontale, non confinato alle cerchie degli adepti.

Nel nomadismo raver la figura dell’artista, che già nei contesti punk tendeva a dileguarsi, sparisce del tutto, mettendo al centro dell’evento il ballo ritmato e liberatorio.

«Nel 1970 l’eredità degli anni ’60 e dell’utopia di Woodstock è ben visibile in Gran Bretagna al primo free festival di Glastonbury – scrive Tobia D’Onofrio in Rave New World –, che diventerà un importante punto di aggregazione della controcultura britannica.

Il biglietto d’ingresso costa una sterlina e include un bicchiere di latte munto direttamente dalle mucche dell’organizzatore Michael Eavis. Nel 1972 si tengono altri due raduni gratuiti e autogestiti: a Windsor e alla fiera dell’East Anglia».

È del 1974 il Manifesto del Libero Stato di Albione, promulgato da un manipolo di attivisti londinesi, che intendeva creare «un network di comunità e collettivi indipendenti, federati assieme per formare il Libero Stato di Albione», ricorda ancora d’Onofrio.

Queste esperienze, destinate a crescere nel corso del decennio successivo, hanno sgrossato il terreno in cui le varie sottoculture del paese si sono evolute e trasformate, formando un’ampia rete di festival, fiere e comunità autogestite e sono il più alto lascito controculturale arrivato dalla Gran Bretagna. Simili iniziative sono diventate l’unica alternativa credibile alla disoccupazione dilagante dell’era Thatcher.

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Adam Whitlock su Unsplash

Non passò molto tempo prima che i politici del Regno Unito trovassero necessario intervenire contro questi gruppi alternativi, così disturbanti agli occhi del governo conservatore. E infatti negli anni ’90, dopo il processo (perso) contro la crew degli Spiral Tribe, colpevole insieme ad altri sound system di aver trasformato il festival di Castlemorton in un rave infinito, il governo britannico riuscì nell’impresa di promulgare una legge, il Public Order and Justice Act, che, vietando «eventi dove la musica include suoni pienamente o predominantemente caratterizzati dall’emissione di una successione di battiti ripetitivi», intendeva rendere illegale la cultura rave.

Una prodezza che ha un solo precedente nella storia, quello del Regolamento per le orchestre del Reichsministerium für Wissenschaft, Erziehung und Volksbildung, il ministero della cultura nazista, che impose analoghe limitazioni alla quantità di foxtrot – un certo tipo di jazz – suonabile in una serata. La repressione, in ogni modo, spinse i raver oltre la Manica, in un’Europa all’epoca ignara e dimostratasi particolarmente ricettiva rispetto alla novità in arrivo, anche in virtù della recente abolizione delle frontiere.

Prima in Francia, quindi nel resto del continente la free tekno esplose combinandosi con la club culture internazionale. Il primo teknival degno di questo nome si svolse a Beauvais nel 1993, seguirono poi le esperienze in Italia, Germania, Belgio, Portogallo e nel resto del continente.

Muro di casse di Vanni Santoni è il libro che racconta in modo migliore la diffusione capillare ed eroica di questa esperienza:

Un mistero eleusino senza il beverone. Sai cosa ti dico, ci è mancata la forza di rivendicare le droghe, abbiamo messo su un pudore che ci ha impedito di dire chiaro e tondo che cosa voglia dire, mettersi sulla lingua quel quadrettino di carta impregnata di dietilammide dell’acido lisergico quando la serata sta iniziando, sentire un’energia nuova e strutturata attraversarci come se arrivasse a noi da chissà dove, ballare nel caos stellante, godere dei sensi esplosi, farsi baciare all’alba dal sole. Tu mi dirai ma questo lo hanno già fatto quelli là negli anni ’60. Vero. Dovevamo andare oltre. Ricordo che una volta, era un periodo di stanca, eravamo in quel posto autogestito, a Firenze, non stavo più coi Rolling Thunder, mi ero fatta un periodo con dei francesi e poi ero finita cogli Inkal, stavamo lì parcheggiati, c’era pure gente di Firenze tipo Foffo, Melusine, la Bibi, e a un certo punto arrivò proprio la tua Cleo, che poi diciamocelo, era una stronza che pensava di essere ancora negli anni, ma che ne so, ’70, venne a dirci Ma muovete il culo una buona volta, mobilitatevi, fate qui, fate là, rivendicate qualcosa, e Foffo tutto fatto a mezzo pomeriggio, sdraiato sullo scalino del camper disse, anzi farfugliò, Io rivendico la ketamina, e quella lo mandò a fanculo, e io lì per lì pensai pure che avesse ragione lei, e invece no, dovevamo davvero rivendicare la ketamina, che era nostra e ce l’hanno scippata, l’hanno etichettata come anestetico per cavalli anche se è per uso umano, è uno dei farmaci fondamentali dell’OMS ma è troppo goloso, sui giornali, nella chiacchiera da bar, quel «per cavalli», fa venire in mente dosi da cavalli, il palio di Siena, doping bestiale, sfracellamenti di zoccoli sul pavé e schiume alla bocca, e invece si usa pure per i neonati, pure per le operazioni d’emergenza.
Vanni Santoni, Muro di casse, Laterza

Se c’è stato un posto in Italia che ha saputo catalizzare più di altri la scena rave e underground in quel periodo, questo posto è Roma.

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Lucas Schroeder su Unsplash

La quantità di feste illegali e serate ormai mitologiche cominciate già prima dell’arrivo delle tribe e poi susseguitesi in luoghi come la Fintech o il centro sociale occupato Forte Prenestino hanno fatto della scena underground romana degli anni ’90 una erede ideale di quella inglese del decennio precedente. Una certa cronaca sconclusionata e straniante di quel periodo può essere – metaforicamente – recuperata attraverso i numeri della rivista radicale «Torazine» che in modo irregolare seppe distillare gli elementi cardine di quegli anni.

In un articolo uscito su «Vice», Valerio Mattioli ricostruisce l’esperienza di quella che definisce «una rivista “tossica” come tossici erano i suoi autori, anche nel senso letterale del termine. Per qualche tempo fu uno dei marchi più chiacchierati, controversi e discussi di quel sottomondo a cavallo tra rave illegali e centri sociali occupati che negli anni ’90 alterò in maniera spiazzante le geografie della cultura alternativa italiana: con le sue copertine in cui il volto di Charles Manson si sovrapponeva a quello di Che Guevara, l’estetica ributtante che faceva pensare a un misto di satanismo acido e depravazione gratuita, e i “grandi reportage” su droghe, integralisti islamici e sesso quasi sempre estremo».

L’esperienza della rivista è racchiusa negli anni che vanno dal 1996 al 2001. Continua Mattioli «Che questa roba fosse reperibile in una qualsiasi libreria Feltrinelli, oggi quasi mi sembra impossibile. Anche perché “Torazine” oltre che una rivista era prima di tutto un mondo, una famiglia di debosciati, una milizia di pervertiti con base a Roma che per tutta Italia organizzavano feste, eventi, appuntamenti sempre improntati al più sublime, violento, a volte ingiustificabile cattivo gusto. Andavi al lancio dell’ultimo numero, e ti ritrovavi accanto un tizio tutto nudo che ti chiedeva di versargli addosso la cera di una candela accesa, mentre dalle casse promanava una cacofonia di ritmi techno hardcore, amena musica lounge, e pop sintetico squisitamente kitsch. L’aperitivo magari era a base di cavallette fritte».

Oltre che cartina al tornasole di quel particolare momento, «Torazine» costituì anche il canto del cigno di una ideale serie di riviste analoghe cominciata, come accennato, trent’anni prima: la genealogia di questi magazine stralunati e accelerazionisti ante litteram può partire probabilmente da «Mondo Beat», per proseguire con «Re Nudo», «Cannibale» e la già citata «Decoder».

«Torazine» chiude la parentesi delle riviste e presto viene rimpiazzata dai flussi psichedelici della comunicazione online, in cui Internet diventa il nuovo vettore della diffusione di questo tipo di suggestioni.

Il fumetto, tuttavia, rimane uno dei baluardi dell’immaginario lisergico, grazie a prodotti come Ultra Heaven (2001, un manga di Keiichi Koike), Prof. Bad Trip (2007, di Gianluca Lerici), o gran parte delle strisce del Dr. Pira. Anche l’intrattenimento audiovisivo ha conosciuto una nuova stagione psichedelica, in qualche misura anticipata da , prima di culminare in esempi come quello di Rick and Morty (2013) di Justin Roiland e Dan Harmon,  fortemente influenzato dall’immaginario psichedelico.

Per quanto riguarda il mondo delle serie tv, il tema della visione e la presa di coscienza di un Rinascimento psichedelico sono presenti forse per la prima volta in modo compiuto nella serie Fringe (2008), di J.J. Abrams, Alex Kurtzman e Roberto Orci. Anche il cinema ha continuato a proporre contenuti marcatamente psy, ad esempio con Enter the Void (2009), nientemeno che un «melodramma psichedelico» nelle parole del regista Gaspar Noé; o anche con Inception (2010) di Christopher Nolan.

Nel frattempo era già in arrivo da Goa, in India, la successiva contaminazione.

Nel piccolo stato indiano sul mar arabico, meta finale di gran parte delle hippie trail sin dalla fine degli anni ’60, si definiva con sempre maggior precisione il sound in grado di conquistare l’immaginario elettronico del nuovo millennio: la Goa trance. La singolare evoluzione di questo irripetibile laboratorio etno-musicale è stata raccontata in modo magistrale e anche divertente da Simon Reynolds in Energy Flash: A Journey Through Rave Music and Dance Culture:

Alla fine degli anni ’80, Goa era diventata un paradiso della danza e della droga. Ho sentito parlare per la prima volta delle feste di Goa che andavano avanti tutta la notte sulle spiagge e nella giungla dal fratello di un amico nel 1988. Mi disse che mentre la sostanza di moda era l’LSD, la musica non era ancora acid house ma Euro-beat, electro-pop e gay Hi-NRG-Front 242, Skinny Puppy, Yello, e infine i mix senza voce dei brani di New Order e Pet Shop Boys. In un flashback accompagnato da uno sguardo glaciale, mi disse di essere andato a un «anti-rave» messo su da uno psicopatico fritto dall’acido su un promontorio di granito, dove i battiti della musica erano duri come l’inferno e l’enorme flusso di crack che scorreva dal centro della roccia rese concreta la possibilità di «perderlo» sulla pista da ballo, per sempre. Mi raccontò dei «signori della droga» che arrivavano in volo dai loro paradisi nelle isole offshore, sbarcando dall’elicottero con le loro amiche, super modelle magrissime e altezzose, tipici esemplari dell’alta moda dell’est europeo. «Devi andarci», mi ha esortato in modo concitato. «È la fine del viaggio. Apocalypse Now».
Simon Reynolds, Energy Flash: A Journey Through Rave Music and Dance Culture

In realtà era solo un nuovo inizio, il sound nato a partire dalle sempre più audaci ibridazioni elettroniche che prendevano le mosse dall’adozione dei Kraftwerk nelle interminabili session sulle spiagge indiane era destinato a definire l’evoluzione del nuovo sound psichedelico proprio grazie alle contaminazioni in arrivo dall’Inghilterra e dalla lisergica Ibiza degli anni ’80.

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Yvette de Wit su Unsplash

Inizialmente le feste sulle spiagge di Goa non erano altro che un misto tra un rave e un campeggio di hippy, ma le sonorità nate a partire da quei piccoli sound di fortuna montati alla bell’e meglio su una spiaggia indiana erano destinate a fare epoca. Anche perché i temi ambientalisti inclusi fin nel midollo dell’immaginario goano erano più in sintonia con istanze culturali aderenti al sentire del nuovo millennio. Mentre si andava forgiando il nuovo sound e il nome stesso di Goa cominciava a caricarsi di significati che andavano ben al di là della semplice indicazione toponomastica, la località visse una mutazione destinata in qualche tempo a spegnerne lo splendore originario.

L’ondata di turisti-raver in arrivo da ogni angolo del globo la resero presto nient’altro che una nuova Mykonos. Reynolds al riguardo osserva «Sbalorditi i “capi” e i più seri ricercatori spirituali si spostarono, abbandonando le spiagge più famose di Goa – Anjuna, Vagator e Arambol – per raggiungere località più remote della stessa India, o fuggendo fino in Thailandia (dove i rave sono chiamati “frenzies”, cioè frenesie)».

Mentre l’atmosfera originaria abbandonava il suo luogo di nascita, lo spirito di Goa raggiungeva l’Europa, facendo della Goa trance «un omaggio a un luogo che sembra il paradiso terrestre, anche a chi non ci è mai stato. Goa è diventato un significante fluido, un modo per prendersi una vacanza permanente dalla vita ordinaria. […] Mentre Goa veniva spolpata dal turismo, il suo spettro circolava – come una presenza virale, “virtuale” – in tutto il mondo occidentale.

Da Londra a Tel Aviv, i club di Goa trance forniscono una versione in vitro di quella realtà», e proprio come nella vera Goa, continua Reynolds, «la droga preferita della scena era l’acido, molto più dell’ecstasy, e in questi contesti si suppone che l’LSD sia insolitamente puro e forte».

A metà degli anni ’90 la nuova musica era ormai un fenomeno globale, affermatasi grazie al lavoro di etichette tra cui Dragonfly, Flying Rhino, TIP e Blue Room Release; mentre è del 1986 la prima edizione del Burning Man, il primo grande festival psichedelico in senso lato, che dal 1991 si tiene in Nevada, e che ha fatto da apripista a diversi festival pienamente goani: baccanali in grado di attirare migliaia di persone da ogni angolo del mondo e che si svolgono per lo più in Europa, come il portoghese Boom o l’ungherese Ozora.

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