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Un altro ambito fortemente influenzato dall’immaginario lisergico è stato il mondo delle arti plastiche. In questo campo, dove paradossalmente in certi casi l’influenza psichedelica risulta evidente, si è lungamente rimandato (per non dire rimosso) il discorso sul contributo esercitato a partire dagli anni ’60 dalla diffusione delle sostanze psicotrope per scopi ricreativi tra le classi artistiche e intellettuali nordamericane ed europee. Ad affrontarlo in modo originale e organico è stato per la prima volta il critico d’arte del New York Times Ken Johnson, che nel suo Are you Experienced? scioglie l’equivoco che riconosce l’arte psichedelica confinata a quel pugno di artisti che – come Alex Grey, Robert Venosa o Al Held – hanno provato a rappresentarne alcuni elementi esplicitamente ispirati da uno stato di visione alterata dalle sostanze (come i colori particolarmente saturi, i motivi geometrici ricorrenti, i sistemi a griglia o, anche, la mancanza di elementi narrativi nei film di avanguardia). Per Johnson l’influenza della psichedelia va molto più a fondo, fino a diventare addirittura la fonte primaria di gran parte dell’arte nata a partire dagli anni ’60. Il suo è un esame olistico, secondo cui l’espansione della coscienza in quel frangente ha inconsciamente ma profondamente alterato il panorama artistico, creando di fatto il postmodernismo (è una tesi ardita ma è anche l’unica al momento sul piatto). In quel momento, la pervasiva diffusione della psichedelia nel sottobosco artistico statunitense influenzò il modo in cui l’arte visiva veniva prodotta e percepita. Una volta alterato lo Zeitgeist, non era più necessario che questo o quell’artista avesse fatto esperienza diretta delle sostanze, perché, per usare le sue parole «ormai era l’America ad aver preso l’LSD» – rendendo la mutazione parte integrante del nuovo corso internazionale.
Per Johnson da un certo momento in poi diversi artisti, più o meno consapevolmente, hanno condiviso l’idea che lo scopo dell’arte non fosse tanto quello di creare oggetti esteticamente rilevanti ma di fornire esperienze in grado di dialogare con la coscienza degli spettatori. «La cultura psichedelica degli anni ’60 – afferma il critico – riguardava la maggior parte delle stesse aspirazioni dell’arte contemporanea, e divenne per me il fulcro in cui tutte le strade si intersecavano», e ancora «le energie creative e intellettuali che hanno preso vita [in quel momento] stanno ancora alimentando l’immaginazione degli artisti di oggi».
Johnson include nella sua analisi artisti dagli approcci diversissimi, e ci dice che in fondo non è così importante sapere se Richard Serra, Fred Tomaselli, Mark Greenwold, Ed Ruscha, Sigmar Polke, David Salle, Cindy Sherman, Sherrie Levine, Lucas Samaras, James Rosenquist, Robert Smithson, Tino Sehgal, Chris Burden, Richard Tuttle, Jeff Koons o Damien Hirst fossero in acido mentre creavano le loro opere, ciò che conta è il salto concettuale che hanno compiuto in un contesto intrinsecamente influenzato dalla psichedelia, ponendo una questione che il critico restituisce così: «In un mondo reale infestato da squali, l’arte può essere un ampio canale per raggiungere una coscienza trascendentale?».
In questa fase storica tuttavia la psichedelia è seriamente relegata nelle retrovie. Un esempio leggendario quanto aderente può essere quello del mitico guru ritiratosi nella scintillante e lisergica Ibiza degli anni ’80 nientemeno che in una grotta, dove produceva illegalmente LSD. Non so quante possibilità abbia questa leggenda di essere vera, quel che è certo è che è verosimile, così per almeno vent’anni devono essersi manifestati gli alfieri della visione, esiliati come Jedi su pianeti esterni della galassia, dove tentavano a fatica di tenere in vita la fiamma di una Forza che pareva destinata a spegnersi per sempre di lì a poco. Da quest’epoca provengono alcuni dei testi più estremi e radicali. Tra questi vanno certamente ricordati PiHKAL (e il suo seguito TiHKAL) di Alexander e Ann Shulgin, usciti rispettivamente nel 1990 e nel 1997. In PiHKAL, volume che nel suo ambito fece epoca, dopo una prima parte autobiografica, nella seconda – che il chimico Alexander Shulgin mise da subito a disposizione in maniera gratuita su Erowid (la più grande banca dati della rete sulle sostanze psicoattive, vero punto di riferimento per tutti quelli che si siano interessati a partire dal 1995 di questi temi) – descrive 179 composti psichedelici (molti dei quali scoperti dallo stesso Shulgin), con tanto di dettagliate istruzioni circa i metodi di sintetizzazione e i dosaggi consigliati.
Un altro personaggio che merita una menzione è certamente Terence McKenna, il naturalista e filosofo statunitense che – data la drasticità degli approcci e la fermezza della vocazione psichedelica – fu indicato dallo stesso Timothy Leary come «il vero Tim Leary». Della sua vasta e dispersiva produzione (fatta in gran parte di conferenze, molte delle quali presenti su YouTube, grazie alle quali si deve probabilmente gran parte della sua fama al giorno d’oggi), va ricordato almeno il testo più audace: Il cibo degli Dei, del 1992 (e per la cui più recente edizione italiana ho avuto l’onore di scrivere la prefazione). Un libro ardito, ricco di spunti e misurato, dal taglio raffinatamente antropologico, in cui McKenna, dopo aver condotto un’appassionante indagine sulle sostanze psicotrope usate dalle popolazioni più diverse nel corso dei millenni, espone una teoria che – pur essendo indimostrabile e balzana – prova a spiegare in modo originale la dinamica alla base di uno dei più grandi interrogativi della storia scientifica: la rapidità dell’evoluzione del cervello nella specie sapiens.
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