Ep. 01

Le sostanze

Quali sono le origini delle sostanze psichedeliche? Da quanto vengono usate, e come?

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.
Dalle nostre serie Serie Giornalistiche
Il lungo viaggio. Storia universale della psichedelia

Non più droghe ma farmaci: l’evoluzione degli psichedelici tra cultura di massa e scienza.

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Per delimitare l’area della nostra indagine, è necessario cominciare passando in rassegna le singole sostanze che costituiscono quella che potremmo chiamare famiglia psichedelica. Nei prossimi episodi procederò ricostruendo quello che è stato il lungo (e a volte burrascoso) rapporto tra uomini e sostanze. Non mancherà qualche passaggio brusco, ma credo che questo sistema sia il migliore per dare una visione d’insieme il più esaustiva possibile sull’avventura millenaria della ricerca della visione attraverso questa classe di molecole. Michael Pollan nel suo Come cambiare la tua mente ricorda che l’unica popolazione a non aver fatto uso di alcuna pianta in grado di alterare la coscienza è quella degli Inuit, per l’elementare ragione che il loro territorio non offriva alcuna possibilità in questo senso. Diversamente, dove la natura metteva a disposizione molecole psicoattive, queste venivano immancabilmente sfruttate. E quando oltre ai narcotici e al vino era possibile accedere a essenze psicotrope, eccole finire spesso al centro di rituali sacri. Cerimonie elaborate anche per fornire un quadro sociale di riferimento a un’assunzione che altrimenti avrebbe potuto risultare destabilizzante, ove non regolata da un apparato liturgico.

Le prime testimonianze riguardo l’uso di sostanze psicotrope da parte dell’uomo sono addirittura di 7000 anni fa, e provengono dalle illustrazioni rupestri di una grotta del Tassili n’Ajjer, in Algeria, in cui sono dipinti dei sacerdoti che stringono in mano dei funghi. A mille anni più tardi risale il murale di Selva Pascuala, all’interno di una grotta nei pressi di Villar del Humo, in Spagna, e nelle illustrazioni fanno bella mostra di sé quelli che hanno tutta l’aria di essere miceti contenenti psilocibina, l’occorrenza potrebbe essere la più antica testimonianza europea dell’uso di “funghi magici”. Resti archeologici di «pietre fungine» risalenti al 1500 a.C. raccontano di un sofisticato culto dei funghi presente all’epoca in Guatemala. Sono del 1000 a.C. le statue messicane raffiguranti la Psilocybe mexicana, in cui dal corpo dei miceti emergono figure divine, a testimonianza del loro valore sacrale. Risalgono ancora al 1000 a.C. i petroglifi che rappresentano figure antropomorfe con funghi attaccati alla testa, che ci parlano dell’uso dell’Amanita muscaria – un miceto dagli effetti inebrianti – presso il popolo Čukotka, in Siberia. Con un salto in avanti arriviamo al 1560, quando il sacerdote spagnolo Bernardino de Sahagún descrisse nel suo Codice fiorentino l’uso del peyote e del fungo Teonanácatl (la Psilocybe mexicana) da parte degli Aztechi. Nel 1658 un prigioniero di guerra polacco parlò così della cultura siberiana occidentale Ob-Ugriana di Ostyak: «Mangiano certi funghi a forma di “agarici di mosca” [anche lui si riferisce all’Amanita muscaria], e quindi si ubriacano peggio che con la vodka, e per loro è il miglior banchetto». Il 3 ottobre del 1799 a Londra sul diario accademico del dottor Everard Brande viene documentata la prima esperienza psichedelica in Occidente a base di funghi. Dopo la Seconda guerra mondiale (e dopo la scoperta dell’LSD) il fungo che gli Aztechi chiamavano Teonanácatl («carne degli dei») divenne estremamente popolare in occidente grazie a un reportage intitolato Cercando i funghi magici, uscito il 10 giugno 1957 sul magazine «Life». L’articolo, firmato da Robert Gordon Wasson, un banchiere di Manhattan nonché micologo dilettante, raccontava dettagliatamente la sua assunzione della «carne degli dei» a Huautla de Jiménez, nel Messico del sud. A fornire il fungo cerimoniale a Wasson fu quella che da allora sarebbe stata destinata a divenire la curandera per antonomasia, María Sabina, che distribuì due coppie di miceti ai presenti subito dopo averli profumati con una resina. Il rito proseguì con una sequenza di canti e danze rituali che si protrasse fino alle ore notturne, necessario per portarla al cospetto di Dio e farsi tramite per i messaggi da comunicare agli uomini.

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Amanita Muscaria. Jaccob McKay su Unsplash

Per quanto riguarda il peyote, la più antica traccia archeologica è del 3700 a.C. e ce la forniscono i nativi americani della zona del Rio Grande. Nelle grotte di Shumla sono stati rinvenuti resti di “bottoni di peyote” e piccole sculture raffiguranti il cactus. Del 1300 a.C. è la peruviana pietra di Chavin, una scultura intagliata che mostra una divinità sostenere un cactus San Pedro. Già nel 1000 a.C. si ritiene che il peyote fosse usato per ragioni cerimoniali in diverse culture tra Texas e Messico. La più datata testimonianza occidentale circa l’uso del peyote è del 1591, quando Juan de Cárdenas ne descrisse l’impiego che ne veniva fatto nelle Indie occidentali. Nel 1884 a Laredo, ancora in Texas, Anna Nickels vendeva piante di peyote per corrispondenza, diventando una delle prime fornitrici commerciali di sostanze psichedeliche nonché l’unica donna tra i pionieri di questo commercio. Risale al 1895 la prima assunzione a fini scientifici: nella George Washington University di Washington DC, un uomo di 27 anni mangiò tre bottoni secchi di peyote sotto controllo medico e i risultati dell’esperimento furono pubblicati sulla gazzetta terapeutica dell’Ateneo. Il 23 novembre del 1897 il chimico tedesco Arthur Heffter riconobbe nella mescalina il principale componente psicoattivo del peyote. Proprio in questa data Heffner assunse 150 mg di cloridrato di mescalina, diventando il primo protagonista di un’esperienza psichedelica generata da un composto purificato. Nel 1930, in aperta contrapposizione alle popolazioni nativo-americane, molti stati degli USA dichiararono illegale il possesso di peyote.

Tra il 3000 e il 2500 a.C. i Matacao, una popolazione del nord-ovest dell’Argentina, utilizzavano nei loro riti sciamanici il cebil (Anadenanthera colubrine), un albero sudamericano della famiglia delle Mimosaceae, noto per le sue proprietà psicotrope. La pianta contiene infatti gli alcaloidi dimetiltriptammina (ossia la DMT), bufotenina e 5-MeO-DMT (gli stessi alcaloidi presenti nei «rospi psichedelici» del genere Bufo). Nel 1496 il frate Ramon Pane documentò presso la popolazione dei Taino di Haiti l’uso del cohoba yopo, un «tabacco psicoattivo» (contenente 5-MeO-DMT) prodotto con Anadenanthera peregrina.

Risalgono a 2000 anni prima di Cristo i riti eleusini, per la celebrazione dei cui misteri c’è chi, come Gordon Wasson, ritiene che l’ingrediente chiave del κυκεών (kykeón), la pozione offerta durante le celebrazioni agli iniziati, fosse l’ergot, ovvero la segale cornuta: vale a dire quella attaccata dal parassita fungino a partire dal quale Albert Hofmann sintetizzò l’LSD (di cui parlerò diffusamente nel prossimo episodio). Il nucleo centrale dei Misteri era tenuto segreto dagli iniziati – un segreto ben custodito, tanto che ancora oggi persistono dubbi circa la composizione del cocktail “magico”. Il teatro del rito era la stanza centrale del tempio di Eleusi, chiamata Telesterion, ovvero la «stanza delle visioni». Il fine ultimo del culto consisteva infatti nell’indurre una visione mistica codificata secondo precisi simbolismi. L’Inno a Demetra di Omero descrive in questo modo la composizione del ciceone: «acqua, farina d’orzo, mescolandovi la menta delicata», mentre commenta così la sorte di chi partecipa al Mistero: «Felice fra gli uomini che vivono sulla Terra chi ha contemplato queste cose!». Per Aristotele «coloro che vengono iniziati non devono apprendere qualche cosa ma provare delle emozioni, evidentemente dopo essere divenuti atti a riceverle». Pindaro, riferendosi ai Misteri eleusini, afferma: «Beato chi va sottoterra avendo visto quelle cose: egli sa della vita il fine, e ne sa il divino principio», e gli fa eco Sofocle con queste parole: «Tre volte felici quelli tra i mortali che vanno all’Ade avendo visto questi misteri; ché per loro soltanto ivi c’è vita, per gli altri lì è tutto tristezza». Secondo un frammento di Plutarco la visione eleusina era accompagnata da sudorazione e vertigini, sintomi che spesso caratterizzano le prime fasi (la cosiddetta «salita») delle esperienze con sostanze psichedeliche.

Analogamente, attorno al 1500 a.C., nel Ṛgveda è celebrato l’uso della bevanda psichedelica chiamata Soma, ancor oggi avvolta da un fitto mistero. Per saperne di più è utile leggere Il volo magico di Ugo Leonzio, un libro del 1969 – uscito in Italia giusto a metà tra il bando dell’LSD negli Stati Uniti del 1967 e quello mondiale di tutti gli psichedelici del 1971 –, per poi inabissarsi insieme ai tabù imposti dal proibizionismo internazionale e ricomparire aggiornato solo nel 1997, per Einaudi, ma senza l’eco che il recupero di un testo tanto importante avrebbe meritato (forse i tempi non erano maturi). E così – 23 anni dopo – grazie al Saggiatore il libro di Leonzio è da poco tornato nelle librerie, col suo portato di documento inestimabile su quella che era allora l’avanguardia del dibattito in Italia, e che possiamo constatare essere molto più avanzato di quanto magari si potrebbe immaginare. Grazie alla ricchezza delle fonti letterarie e documentarie messe insieme dall’autore è possibile scoprire qualcosa in più circa il misterioso beverone dei miti vedici, il cui principio attivo – non ancora identificato – potrebbe forse trovarsi in una pianta di montagna del centro dell’Asia Centrale (tra Mar Caspio e Mongolia), da dove venivano gli indoariani.

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Steven Weeks su Unsplash

«Cos’è il soma? – si domanda Leonzio, subito prima di spiegare: – Esotericamente, un liquore inebriante estratto dalla macerazione di alcune piante sconosciute, mescolato con miele e latte, filtrato, e corrispondente all’hydromele, al vino o al sangue delle altre tradizioni religiose». Probabilmente quando furono scritti i Veda non si aveva già più idea di che pianta fosse ed è per questo che nei testi viene descritto in modi diversi, perché sembra che da un certo punto in poi fu sostituito simbolicamente da altre essenze, dato che chi ne faceva uso non aveva più accesso alla pianta originaria, essendo nel corso delle generazioni il suo gruppo sociale migrato altrove.

Così ne descrive gli effetti un passo dei Ṛgveda:

Io penso: devo impadronirmi della vacca, del cavallo.
Ho dunque bevuto del Soma?
La bevanda mi trascina come un vento di tempesta.
Ho dunque bevuto del Soma?
Il pensiero si offre come una vacca al suo piccolo.
Ho dunque bevuto del Soma?
Le cinque razze mi sembrano nulla.
Ho dunque bevuto del Soma?
Una sola metà di me è più grande dei due mondi interi.
Ho dunque bevuto del Soma?
Ho superato in grandezza il cielo e la terra.
Ho dunque bevuto del Soma?
Trascinerò qua e là questa terra?
Ho dunque bevuto del Soma?
Frantumerò io questa terra?
Ho dunque bevuto del Soma?
Una parte di me è nel cielo, una parte nella bassa terra.
Ho dunque bevuto del Soma?
Io immenso, mi innalzo fino alle nubi.
Ho dunque bevuto del Soma?

All’ebbrezza, che si manifesta in termini divini e umani, continua a spiegarci Leonzio, partecipava Indra, la divinità guerriera dell’induismo. Indra (così avido della bevanda che i Ṛgveda lo definiscono una coppa destinata a contenere solo soma), grazie alla droga si accresce, si fortifica e riceve il somasya made – l’eccitazione ebbra, divenendo capace di compiere le imprese più incredibili. Ebbro di soma il Dio uccide il Drago Vitra, sconfigge i Panis che tenevano le vacche prigioniere in una caverna e annienta i temibili Dasas.

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Le piramidi di Teotihuacan, Messico. Abimelec C. su Unsplash

È del 500 d.C. il murale di Teotihuacán, non lontano da Città del Messico, in cui è raffigurata una Dea Madre contornata da sacerdoti e da un viticcio rampicante: l’Ololiuqui (nel 1941, il biologo statunitense Richard Evans Schultes, identificò questa pianta nella Rivea corymbosa). La composizione chimica del principio attivo dell’Ololiuqui, l’ammide dell’acido lisergico (o LSA), venne descritto per la prima volta il 18 agosto 1960 da Albert Hofmann, che lo riconobbe come un alcaloide dalla struttura simile a quella dell’LSD. L’Ololiuqui è stata probabilmente tra le piante psicoattive più usate in assoluto dalle popolazioni centroamericane. Tra 1570 e 1575 l’esploratore spagnolo Francisco Hernández ne ha descritto la preparazione e l’uso da parte degli Aztechi.

All’inizio del XVI secolo è stata scoperta sulle pendici del vulcano Popocatépetl una statua di Xochipilli, il principe azteco dei fiori, in cui alcuni glifi raffigurano quattro elementi: un viticcio di una delle piante che venivano chiamate morning glory (l’Ipomoea violacea, il cui principio attivo, analogamente a quello dell’Ololiuqui, è l’LSA); quindi un fiore della stessa pianta; un bocciolo di Sinicuichi (Heimia salicifolia – l’essenza tradizionalmente alla base “dell’elisir del sole”) e delle calotte di Psilocybe aztecorum.

Durante un’esplorazione in Amazzonia del 1851, l’etnobotanico inglese Richard Spruce osservò nei pressi del Rio Vaupés, in Brasile, la popolazione dei Tukano preparare e compiere un rituale visionario fondato sull’assunzione di un decotto a base di liane amazzoniche. È il primo contatto di un occidentale con l’ayahuasca. Spruce bevve una piccola quantità di quello che definì un tè. Battezzò la vite alla base della ricetta Banisteria caapi (gli altri ingredienti sono le foglie dell’arbusto Psychotria viridis e quelle della Diplopterys cabrerana, indispensabili in quanto dotati del portato psicoattivo, dovuto alla presenza della DMT), e inviò in Europa dei campioni per effettuare delle analisi chimiche. Nel 1931 la DMT fu sintetizzata per la prima volta dal chimico britannico Richard Manske, che la chiamò “nigerine”.

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Statue a protezione di un tempio in Brasile. Stefano Girardelli su Unsplash

Nel 1864 il medico ed esploratore francese Marie-Théophile Griffon du Bellay ha segnalato per la prima volta l’uso della radice di iboga (la Tabernanthe iboga della famiglia delle Apocynaceae) come stimolante e afrodisiaco in Gabon e in Congo. Appena tre anni dopo l’iboga è stata presentata al pubblico all’Esposizione mondiale di Parigi: da quel momento i tonici a base di estratto di iboga divennero molto popolari in Francia e Belgio. Non ci sono informazioni certe che ci consentano di datare con precisione a quando risalga l’uso visionario della pianta dell’iboga nel culto religioso Bwiti, praticato nell’Africa centro-occidentale, dai popoli Babongo e Mitsogo del Gabon (dove è una delle tre religioni ufficiali) e dai popoli Fang in Gabon e Camerun. Quel che è certo è che da migliaia di anni la foresta del Gabon è abitata da popolazioni pigmee, profonde conoscitrici dei «segreti della foresta», tra cui spiccano le proprietà medicinali e psicoattive delle piante, e in particolar modo di quelli dell’iboga, il cui principio attivo, l’ibogaina, è un indolo (analogo dunque a psilocibina e LSD). I Pigmei praticano da secoli i “Misteri dell’iboga”, ma la loro stretta segretezza rende al momento inaccessibili i loro rituali.

Presumibilmente nel corso del XIX secolo i Pigmei trasmisero la conoscenza dell’iboga alla tribù degli Apindji, che vive in una regione centrale del Gabon. Questi la comunicarono a loro volta alla vicina tribù dei Mitsogho. Forti di questo nuovo sapere gli Apindji e i Mitsogo elaborarono a loro volta un culto religioso imperniato sugli effetti visionari dell’iboga: il Bwiti. Per i fedeli della religione Bwiti l’arbusto è l’Albero della Conoscenza di cui parla la Bibbia.

Le virtù psicotrope delle secrezioni di alcuni rospi e alcune rane sono patrimonio diffuso e fondativo non solo per le tribù amazzoniche, ma per molte di quelle civiltà che popolavano il continente americano prima della scoperta europea. In particolare era noto il portato visionario ricavabile dai rospi appartenenti al genere Bufo. Tra questi spiccavano il Bufo marinus e il Bufo alvarius. Il primo è diffuso in tutto il continente americano, il secondo invece è presente solo nel deserto del Sonora, al confine tra Stati Uniti e Messico. Questi due rospi secernono notevoli quantità di indolalchilamine (dei derivati triptamminici), composti che, analogamente al DMT, costituiscono i principi attivi delle polveri da fiuto psichedeliche impiegate dagli Yanoama e da alcune tribù amazzoniche. I Bufo marinus erano così diffusi nel territorio dello Yucatán da assurgere a elemento simbolico-iconografico fondamentale già per gli Olmechi, la prima delle grandi civiltà precolombiane, nonché punto di riferimento per tutte le successive (erano in qualche modo i Greci delle culture mesoamericane).

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Esemplare di Bufo. Rolf Dietrich Brecher su Flickr

Il 1912 è l’anno in cui il chimico tedesco Anton Köllisch, in forze alla casa farmaceutica Merck, sintetizza dal safrolo (uno degli olii essenziali contenuti in essenze come il sassofrasso, la noce moscata o la vaniglia) l’MDMA. A partire dagli anni ’70 l’MDMA, anche nota come ecstasy, cominciò a essere usata a scopo ricreativo. Nel 1985 fu inserita nella Tabella I delle sostanze proibite; prima di quella data venne utilizzata come coadiuvante psicoterapeutico. L’MDMA agisce principalmente sulla sfera emotiva umana, non influenzando la percezione visiva o i processi cognitivi, per tali caratteristiche è considerata un entactogeno o empatogeno, ovvero una sostanza in grado di creare empatia in chi la assume.

Nel 1939 l’antropologo J.B. Johnson fu il primo occidentale a descrivere l’uso di un decotto a base di foglie di Salvia divinorum. La pianta è un enteogeno parte del set dei cosiddetti “inebrianti sciamanici” utilizzati dai Mazatechi, in Messico. In quella zona è nota come Ska Maria Pastora, Hierba de la Pastora, Hierba de la Virgen, la Hembra o la Maria. Secondo alcuni etnobotanici la Salvia divinorum può identificarsi con il pipiltzintzintli (ovvero il “nobile piccolo principe” o il “venerabile piccolo bambino”) degli Aztechi. In certe tradizioni messicane la Salvia divinorum rappresenta il primo livello iniziatico per un apprendista sciamano, da utilizzare prima di passare al secondo livello, in cui si impiega la morning glory (ovvero la Rivea corymbosa), mentre al terzo troviamo i funghi psilocibinici. María Sabina utilizzava nei suoi riti la Salvia divinorum quando non aveva a disposizione funghi del genere Psilocybe. Negli anni ’40 il medico P. B. Reko raccolse dei campioni di foglie di Salvia divinorum e li portò in Europa, mentre nel 1952 l’antropologo R.J. Weitlaner descrisse una cerimonia in cui le foglie venivano sfregate nell’acqua – molto simile a quella descritta nel XVI secolo da un cronista spagnolo. Negli anni ’60 la Salvia divinorum fu studiata da Gordon Wasson e da Albert Hofmann, che ebbero occasione di provarla durante un rituale in Messico e ne descrissero gli effetti, paragonandoli alla fase iniziale di quelli ottenuti con i funghi psilocibinici.

La ketamina è un anestetico dissociativo, sintetizzato la prima volta nel 1962 da Calvin Stevens nel Parke Davis Labs, allo scopo di rimpiazzare la feniciclidina, un anestetico che presentava forti effetti collaterali, tra cui allucinazioni, attacchi epilettici e neurotossicità. La ketamina è considerata un anestetico “gentile”, poiché agisce sul sistema nervoso centrale senza diminuire le funzioni respiratorie e circolatorie. A dosaggi sub-anestetici può indurre forti allucinazioni ed esperienze psichedeliche, provocando sensazioni di distacco dalla realtà circostante e dal proprio corpo. Appare molto promettente la capacità della ketamina di esercitare un rapido effetto antidepressivo già dopo alcune ore dalla somministrazione, qualità che la rende particolarmente utile per i pazienti a rischio di suicidio e per quel che riguarda le depressioni resistenti.

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Manel Torralba su Flickr

Bastano queste note per evidenziare come una storia della psichedelia si debba confrontare con un fenomeno eminentemente multiculturale e sovranazionale, anzi di più: una costante tensione in direzione della ricerca del rapporto col divino, articolata da ogni civiltà attraverso le declinazioni rese possibili da ciò che offriva il suo territorio. È utile specificarlo perché sebbene la più nota, divisiva e importante di queste sostanze, l’LSD, sia stata sintetizzata in Svizzera, nel Novecento gran parte di questa vicenda ha avuto luogo negli Stati Uniti, facendo sembrare la storia della psichedelia una storia americana – con tutte le conseguenze politiche del caso. In questi ultimi anni, al contrario, molte delle iniziative e delle scoperte più significative, a partire dal congresso tenutosi a Basilea nel 2006 in occasione del centenario della nascita di Albert Hofmann, fino ad arrivare alle sensazionali immagini di Robin Carhart-Harris – che nel 2016 ha mostrato al mondo lo spettacolo di una risonanza magnetica del cervello umano che sotto lo stimolo dell’LSD si interconnetteva in modo mai visto prima – tornano a provenire dal continente europeo.

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