Ep. 05

Nemico in avvicinamento

La nonviolenza, come metodo di azione, è “disponibilità sempre al compromesso”.

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.
Dalle nostre serie Serie Giornalistiche
Uno come noi. Militare la nonviolenza

La nonviolenza è il mettersi al centro per attirare, non per guidare.

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.

Sono tanti, per le strade di Praga, spaventati, senz’altro, eppure convinti. Hanno creduto, ancora credono, nella possibilità di un socialismo dal volto umano, ma dopo la primavera arriva l’estate e i frutti non sono quelli sperati. Il 1968 sembra l’epoca delle rivoluzioni romantiche, quelle in cui riecheggiano la libertà, l’uguaglianza, la fraternità, ma con un nuovo sapore, perché assaggiare la dichiarazione dei diritti non basta, bisogna gustarne l’attuazione. E così, tra gli operai che chiedono tutele sul lavoro, gli studenti della contestazione culturale, la musica militante e i pugni alzati di Tommie Smith e John Carlos alle Olimpiadi di Città del Messico, la cronaca politica assiste incredula alla repressione estiva della Primavera di Praga.

La Cecoslovacchia non intendeva uscire dal Patto di Varsavia, non avrebbe rinnegato l’ideologia: avrebbe semplicemente affrontato una stagione di riforme, allentando i controlli sulla libertà di stampa, progettando il decentramento amministrativo. Ma a fermare il progetto, a fermare la Primavera di Praga, arrivano i carri armati sovietici, l’occupazione militare. In quei giorni di fine agosto, i cittadini di Praga sono in strada: sono vent’anni che vivono nell’influenza dell’Unione Sovietica, al punto che a scuola si studia il russo, e questa lingua comune, tra gli occupati e gli occupanti, tra le vittime e quelli a cui è stato ordinato di fare i carnefici, sarà uno strumento di azione nonviolenta. Quando i cingolati entrano a piazza San Venceslao, e bloccano la città, si trovano di fronte una massa di persone, di ogni età, con bandiere cecoslovacche e il desiderio di spiegare le proprie ragioni, nella lingua che i cecoslovacchi hanno studiato a scuola e che i russi hanno imparato come lingua madre. La popolazione cerca un dialogo con le forze occupanti, invitata all’utilizzo di metodi nonviolenti dalle trasmissioni di Radio Praga (trasmissioni che, una volta interrotte, saranno riprese da altre piccole emittenti).

Accerchiavano i carri armati, dai quali a volte spuntavano le facce stralunate di soldati per lo più imberbi. I cecoslovacchi parlavano il russo. L’avevano imparato a scuola. Era la lingua obbligatoria. La lingua imperiale serviva ora a dialogare con gli occupanti, a chiedere perché fossero lì, a invitarli a tornare a casa, a rassicurarli, a spiegare le ragioni del nuovo corso, il proposito di costruire un “socialismo dal volto umano”, un’esigenza che poteva essere condivisa anche dagli altri popoli dell’Est. È un fatto che, per evitare il contagio politico, i soldati russi impiegati nelle operazioni di occupazione venissero spesso sostituiti.

Non avevo in mente questa vicenda quando Pietro Pinna, seduto sulla sua poltrona, chiarì come la nonviolenza, come metodo di azione, fosse (e sia) “disponibilità sempre al compromesso”. Forse la perplessità era emersa dal mio sguardo, io che la parola compromesso la collegavo alle vicende politiche di quel periodo. Compromesso, per i miei vent’anni, era la debolezza un po’ subdola di chi nei talk show si indigna con l’avversario e poi in Parlamento vota allo stesso modo: com’è possibile essere disponibili al compromesso, se il compromesso è questo?

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.
Folla di dimostranti circonda alcuni carri armati sovietici durante i primi giorni dell’invasione sovietica a Praga, 1968. Engramma.

Pinna parlava con lo sguardo a mezz’aria, accanto alla finestra ma senza guardare fuori, concentrato senza fissare un punto preciso, come se leggesse un discorso riavvolto che svolgeva srotolandolo innanzi a sé. Ogni tanto volgeva gli occhi a me, saggiava la mia comprensione con garbo. In quel caso non ci fu bisogno: doveva aver capito subito che di compromesso non avevo capito nulla, che anzi forse la parte più orgogliosa di me gli stava tacitamente dando torto. Ma non si interruppe. Completò il discorso. «La nonviolenza è sempre disponibilità al compromesso», e aggiunse «sembra allora una debolezza, il compromesso è l’atteggiamento più nobile che si possa avere, perché sono sempre disposto a cedere, salvo nelle questioni di principio, lì duro come una pietra».

E in una manciata di parole aveva spiegato tutto.

Che sia Pietro Pinna che dice qualcosa su cui penso di non essere d’accordo, o che di fronte io abbia il peggior criminale della storia, ugualmente ho innanzi a me una persona, un tu. Nel sistema violento in cui viviamo, l’altro mi è spesso nemico, specie se esprime un’opinione diversa dalla mia o si pone in una posizione a me contraria. Il nonviolento però è consapevole della finitezza umana, sa di avere un limite e rispetta l’altro come un individuo che si trova a confrontarsi con gli stessi limiti. Come può essermi nemico qualcuno che condivide la mia essenza, il mio non essere perfetta, eterna e completa?

Non esiste vittoria per il nonviolento se essa comprende violenza sul nemico. A ben guardare, per il nonviolento non esiste proprio il nemico. Il nemico è in avvicinamento, nel senso che guardandolo con attenzione, aprendosi alla comprensione altrui, riconoscendo nell’altro la somiglianza e la comune finitezza umana. La reazione è quella dei cecoslovacchi che discutono con i militari sovietici, è quella dei moscoviti che nell’estate 1991 resistettero al putsch di agosto, al tentato golpe, fraternizzando con i soldati che occupavano la capitale, è quella dei soldati che durante la Prima Guerra Mondiale, tra una trincea e l’altra, almeno a Natale, riconobbero sotto la “divisa d’un altro colore” non nemici, ma uomini, con cui scambiare cioccolato, sigarette, preghiere.

Avvicinandosi al nemico ci si accorge che il nemico non c’è. C’è casomai un avversario con cui ingaggiare un comune percorso di ricerca della verità, e il nonviolento in questo modo si pone, nei confronti dell’altro, in un’ottica di persuasione che non è mai unilaterale: chi si confronta deve sempre essere disponibile a rivedere la propria posizione, essere aperto al convincimento altrui. Questa scelta di metodo è genuina, ricalca l’etica della nonviolenza, aperta verso l’altro e concentrata sui mezzi.

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.
Campionato del mondo di Ju-Jitsu 2011. Peter Huys su Flickr.

Collateralmente, però, finisce per essere anche una strategia di successo, quella che Richard Gregg ha definito come ju-jitsu politico. La debolezza del nonviolento è infatti solo apparente, come nell’arte marziale in questione, che si basa sulla tecnica invece che sulla forza e punta a sbilanciare l’avversario trovando un obiettivo cedevole all’attacco. Allo stesso modo, l’adozione di tecniche nonviolente nell’azione politica priva l’avversario dell’alibi per la reazione violenta: il ricorso alla durezza appare ingiustificato di fronte all’affermazione intransigente ma priva di offese. Inoltre, contrapponendo la gentilezza alla brutalità, si afferma un esempio forte, si propone la visione di un modo altro di intendere e affrontare il conflitto. In questo modo, se pure il nonviolento non intende nuocere all’integrità fisica dell’avversario, rinunciando a retribuire la violenza con la violenza porta l’altro a confrontarsi su un campo che gli è ignoto, con “armi” che non ha scelto e che non padroneggia. La nonviolenza, per quanto annunciata, è infatti sempre inaspettata: sostituendo la consueta resistenza violenta con la resistenza nonviolenta, viene meno l’equilibrio morale in cui è immerso chi usa violenza, che si ritrova così catapultato in un sistema di valori nuovo, di fronte a un esempio pratico di apertura.

Alla ricerca del compromesso, nell’opposizione gentile ma ferma, aperta alla persuasione, disponibile a rivedere le proprie posizioni sulla base del dialogo, la Storia spesso assegna la sconfitta. Ma come il nemico, a cui avvicinandosi si sostituisce l’altro, così anche la Storia è da guardare con una diversa prospettiva, allontanandosi questa volta. La vicenda della Primavera di Praga sembra la storia di un fallimento: le spiegazioni dei civili non fermano i carri armati, la repressione sovietica arriva d’estate, il regime è consolidato. Eppure chissà cosa scatta nell’animo dei militari, chissà se il dubbio si insinua sotto le loro divise, chissà che effetti avrà sulle loro azioni. Se in guerra si contano le vittime, le vite spezzate, per le azioni nonviolente bisognerebbe riuscire a contare le vite risparmiate, l’impatto politico che ha, sulla storia, la scelta di dialogare, di cercare di persuadere, di essere disponibile a un compromesso. Così si pone, nella Storia, chi usa nonviolenza, con apertura mentale ma con intransigenza e rigore, perché l’inganno, la distorsione è un rischio sempre presente.

Continua a seguirci
Slow News ti arriva anche via email, da leggere quando e come vuoi...
Iscriviti gratis e scegli quali newsletter vuoi ricevere!
Stai leggendo
Uno come noi. Militare la nonviolenza

La nonviolenza è il mettersi al centro per attirare, non per guidare.

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.

Prossimo episodio

Tutti gli episodi

01
02
03
04
05
06
07
08
Altri articoli Società