L’uomo in rivolta
In protesta contro la realtà, Pietro Pinna si trova a Napoli, prigioniero militare in tempo di pace.
La nonviolenza è il mettersi al centro per attirare, non per guidare.
A Napoli Natale è tradizione, musica e profumo, un presepe di zampognari tra i vicoli e dolci poveri cucinati con cura. La notte di Natale del 1949, a Napoli, la luna piena riflette sul golfo, sembra risuonare la voce che da Santa Lucia canta e dipinge: Sul mare luccica, l’astro d’argento, placida è l’onda, prospero è il vento.
C’è un punto della città da cui la vista deve essere meravigliosa: sulla collina del Vomero, ricavato da una vecchia torre di osservazione normanna e in parte scavato direttamente nel tufo dell’altura, sorge Castel Sant’Elmo.
Castel Sant’Elmo oggi è sede di un museo, ospita eventi culturali. Prima però, come suggerisce la posizione strategica, era un edificio militare. Se la coscienza fosse collettiva, se la memoria resistesse all’avvicendarsi di secoli e generazioni, il popolo guarderebbe con timore la fortezza che sovrasta Napoli: dall’epoca di Masaniello ai tempi della Repubblica napoletana, i dominatori non esitarono a cannoneggiare sul popolo, a sedare la folla uccidendo le persone.
Ma è Natale, Natale del 1949: rivoluzioni non se ne fanno più, la guerra è finita e non sembra tornare, la povertà si dimentica, o si nasconde, almeno per una notte, il tempo di riunire le famiglie e vivere le tradizionali meraviglie.
Quella notte di Natale, a Napoli, c’è un ragazzo di Ferrara. È da solo, proprio là, dove la vista sulla città toglie il fiato. Se guardasse fuori forse non ammirerebbe il mare, ma abbasserebbe lo sguardo sulle case, noterebbe le macerie che ancora punteggiano i quartieri, vedrebbe i lumi tremolanti alle finestre, testimoni dei lutti che la guerra di pochi anni prima aveva causato, che ogni guerra avrebbe causato. Dopotutto, è per protesta contro questa realtà se Pietro Pinna si trova a Napoli, prigioniero militare in tempo di pace.
Il Natale dell’anno prima era stato diverso. Reduce dalla prima parte del corso ufficiali, Pietro Pinna era in licenza, dalla famiglia. Pochi giorni prima aveva manifestato ai superiori l’intenzione di non svolgere il servizio militare per ragioni di coscienza. Se oggi sembra normale, normale non era all’epoca. Gli ufficiali probabilmente pensano di trovarsi di fronte a un ragazzo qualunque, un idealista magari, o un anarchico, sicuramente un giovane animato da incosciente entusiasmo, ma che ancora si può riportare alla disciplina. Non lo puniscono, gli consigliano di pensarci bene: buon rientro, buone feste, ci rivediamo a gennaio. Ma l’anno cambia, l’idea no.
La nota è inviata al Ministero della Difesa che dovrebbe decidere i provvedimenti del caso. E il provvedimento arriva: Pietro Pinna deve presentarsi a Casale Monferrato per il normale servizio come soldato semplice. Nessuna punizione, nessuna concessione.
Dopo settimane di consigli paternalistici, estenuanti attese e spiegazioni inascoltate delle sue ragioni di coscienza, il 7 febbraio 1949 il ragazzo smette di usare le parole e passa all’azione: semplicemente, incorre volontariamente nel reato militare di disobbedienza.
Prima di allora, Pietro Pinna è un giovane qualunque, un diploma di ragioneria in tasca, un lavoro alla Cassa di Risparmio di Ferrara, la sensazione di essere finalmente sostegno per la famiglia, per i genitori verso cui si sente debitore dell’educazione ricevuta. Proprio per questo, quando gli arriva la chiamata al servizio di leva, cerca di prendere tempo e inizia il corso ufficiali a Lecce, con la speranza di rimandare il momento di arruolarsi. È preoccupato per il lavoro, le questioni economiche. In realtà il ragazzo si sta interrogando, riflette, si chiede se sia accettabile vestire l’uniforme e imparare a obbedire e a usare le armi e, soprattutto, ricorda: Ferrara, in cui vive dalla prima infanzia, aveva subìto la guerra. Quasi trecento volte il cielo della città emiliana era stato squarciato dai bombardamenti. La distruzione e la morte, insieme alla paura e alla miseria, avevano segnato l’adolescenza di Pietro Pinna, un figlio della sua epoca, cresciuto tra opera nazionale balilla e catechismo cattolico. L’orrore bellico gli aveva mostrato lo sconvolgimento morale dell’umanità, le certezze imposte dall’autorità erano vacillanti, prive di fondamenta: l’ordine fascista era disgregato, la dottrina liturgica appariva ormai come rito ipocrita, solo i valori profondamente concreti dell’educazione familiare resistevano nella coscienza del giovane testimone. Insomma, le necessità economiche di sostentamento della famiglia non sono che un’esitazione, quasi una scusa che permette alla reale persuasione di maturare per emergere con chiarezza: Pietro Pinna ripudia la guerra, a partire dalla sua preparazione in tempo di pace.
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L’uomo in rivolta
In protesta contro la realtà, Pietro Pinna si trova a Napoli, prigioniero militare in tempo di pace.
La parola nuova
La difficoltà di trovare un’iconografia nonviolenta non si limita alle questioni figurative: riguarda anche le parole.
La scelta di metodo
Il nonviolento tende al cambiamento della realtà: non si può ottenere un fine giusto tramite mezzi ingiusti.
Nemico in avvicinamento
La nonviolenza, come metodo di azione, è “disponibilità sempre al compromesso”.
Inganno e disinganno
Nonviolenza è disponibilità al compromesso, non compromissione.
Dalla torre di Perugia
Pinna sbuffa in maniera molto cortese: «Legga Capitini».
La rivoluzione è aperta!
Le domande che volevo porre a Pietro Pinna, in quanto primo obiettore di coscienza per motivi ideali, erano poche.