Ep. 04

La scelta di metodo

Il nonviolento tende al cambiamento della realtà: non si può ottenere un fine giusto tramite mezzi ingiusti.

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.
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Uno come noi. Militare la nonviolenza

La nonviolenza è il mettersi al centro per attirare, non per guidare.

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La teoria è pratica, almeno per la nonviolenza. Più di altre filosofie, non si regge senza la prospettiva e l’azione, senza un’attuazione concreta e coerente: bizzarro, visto l’idealismo al limite dell’utopia che la caratterizza.

La forza delle parole di Pietro Pinna, quel signore che, seduto su una poltrona, mi spiegava la nonviolenza, era così profonda proprio perché non era una semplice spiegazione: era biografia, era azione storica eppure costante e quotidiana. La teoria era, è, pratica. Questa coerenza si basa su un’identità tra mezzi e fini: non si può raggiungere la giustizia con mezzi disonesti, non si può ottenere la pace con la guerra, non si può mirare a un fine senza prestare attenzione ai mezzi che si utilizzano per quello scopo.

I mezzi sono fini. Due ragioni essenziali inducono il nonviolento ad aderire a quest’idea. La prima è ideale, a difesa dell’integrità delle persone. La violenza corrompe l’animo di chi la commette e danneggia il prossimo: raggiungere un obbiettivo positivo attraverso mezzi violenti squalifica il fine. La seconda è realista. Nessuno ha il potere esclusivo sulla realizzazione di un determinato fine, dunque non ha senso affannarsi per il suo raggiungimento senza concentrarsi sul percorso, sui mezzi che, al contrario, dipendono dalla nostra scelta e non da variabili al di fuori dal nostro controllo.

L’attenzione ai mezzi rappresenta così un equilibrio tra due opposti: potere e umiltà. Il nonviolento tende al cambiamento della realtà, persegue un’utopia confidando nelle proprie azioni, ma, nel contempo, è consapevole di non avere controllo sul risultato finale del suo impegno, quindi concentra il suo sforzo sull’elemento su cui è sicuro di poter influire, ovvero i mezzi. Non esiste obbiettivo raggiungibile senza un percorso con esso coerente. Non si può ottenere un fine giusto tramite mezzi ingiusti.

E perfino i mezzi giusti possono causare violenza: «Gradualità dei mezzi» esclama Pinna, continuando a spiegarmi, «nell’azione politica prima faccio le azioni legali, poi passo, se non sono efficaci, gradualmente, a forme di lotta più incisive, più pesanti, eccetera, passo ad esempio alla non collaborazione e poi posso passare invece ad azioni di attacco, disobbedienza civile, disubbidisco alle leggi: non faccio il servizio militare, non pago certe tasse e via dicendo, fino a istituire dei governi paralleli».

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Il memoriale a Jan Palach in piazza San Venceslao a Praga, Repubblica Ceca. Marie Thérèse Hébert & Jean Robert Thibault su Flickr

L’assenza di gradualità nella scelta dei mezzi finisce, paradossalmente, per essere coercitiva, infliggendo una violenza psicologica sull’avversario: la tecnica da utilizzare deve invece essere la più semplice possibile, in rapporto con il fine da raggiungere, utilizzando con misura gli strumenti di potere già in possesso del nonviolento, non lasciando che si tramutino in forme di dominio. Un esempio? Il 16 gennaio 1969 Jan Palach si immolò dandosi fuoco a Praga, in protesta con l’occupazione sovietica; prima e dopo di lui diversi cittadini si sacrificarono così, in aperta opposizione all’invasione della Cecoslovacchia, ossia di fronte a un’azione militare di una potenza mondiale ai danni della popolazione civile inerme. La stessa azione di suicidio con il rogo, attuata in una democrazia per protestare contro un governo che si ritiene inadatto o per chiedere l’attuazione di un diritto negato, resta certamente una possibilità, ma estrema, al limite del ricatto. Per agire con nonviolenza è necessario chiedersi: esistono altri mezzi? Esiste un metodo di azione già previsto per la tutela dei diritti o per la critica pubblica?

L’atto eclatante resta nella storia, ma più spesso, a fare la storia, è l’atto graduale. Il metodo nonviolento riconosce la necessità di valutare i mezzi, di sceglierli guardando alla loro correttezza più che alla loro efficacia immediata (e talvolta solo apparente): questo richiede una dose di attenzione e quindi di sacrificio considerevole, a cui bisogna educarsi.

La tenacia conta più della velocità e talvolta ci se ne accorge troppo tardi. Perfino Gandhi, dopo il massacro di Amritsar (379 morti, almeno un migliaio di feriti: l’esercito aveva aperto il fuoco sulla folla pacifica radunata in un parco, privo di vie d’uscita, senza colpi di avvertimento e senza prestare assistenza medica) e le reazioni di rabbia e violenza, ammise di aver commesso «un errore di proporzioni himalayane»: aveva spinto il popolo indiano alla disobbedienza civile senza averne prima curato l’educazione alla nonviolenza.

Per partecipare a un’azione nonviolenta, infatti, è fondamentale avere l’autocontrollo necessario a sopportare i sacrifici, conoscere il metodo, la pratica di quel neologismo, satyagraha, che richiede fermezza d’amore e, nel concreto, persuasione, prontezza, pazienza.

Innanzitutto, persuasione. C’è una tensione interiore, la volontà di non commettere violenza e di costruire un mondo che non la contempli, di riconoscere quella forza d’amore che è alla base del metodo e dell’etica nonviolenta. È quindi una profonda fede personale, non in senso confessionale, né chiuso sulle proprie convinzioni, ma aperto all’altro, in un dialogo costante, che parte dalla coscienza dell’individuo.
Poi, la prontezza, ossia lo sviluppo disponibile della persuasione a partire dagli altri e verso gli altri. La nonviolenza non resta una rivelazione custodita nella profondità individuale, ma si apre nell’analisi della società, nella capacità di confrontarsi con essa ed essere pronti ad adattare i mezzi all’obiettivo e alle reazioni.

Infine, la pazienza. La persuasione sulla bontà dei metodi nonviolenti, la prontezza nel servizio agli altri sarebbero presto frustrate se non fossero sostenute dalla pazienza di non pretendere risultati immediatamente visibili. Idealista fino all’utopia, il nonviolento è anche estremamente legato alla concretezza del qui e ora: oggi agisce, agirà anche domani, e dopodomani anche, senza rassegnazione, consapevole fin dall’inizio dei rischi possibili e del sacrificio richiesto.

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Rosa Parks il 19 giugno 1968, fotografata al Monumento a George Washington durante la Grande Marcia su Washington per i diritti civili. L’immagine originale si trova presso la Libreria del Congresso degli Stati Uniti ed è disponibile per tutti su Unsplash.

Dalle azioni storiche più efficaci emergono con chiarezza queste tre caratteristiche del metodo nonviolento. Prendiamo uno degli atti più conosciuti, quel che accadde in una sera di dicembre del 1957.

A Montgomery, stato dell’Alabama, gli autobus erano divisi con posti riservati ai soli bianchi, posti riservati ai soli neri e una zona comune, centrale, che poteva essere occupata da chiunque, a meno che un bianco non vi si dovesse sedere: in quel caso, i passeggeri di colore avrebbero dovuto cedere il posto. Quella sera una sarta, Rosa Parks, seduta nella zona comune, tra diversi posti liberi, non obbedisce all’ordine irragionevole e per questo viene arrestata.

È un atto esemplare di nonviolenza. C’è la persuasione del singolo, di Rosa Parks che nel profondo sa di non voler far violenza ma che è altrettanto persuasa di non poter più accettare la violenza cristallizzata della segregazione razziale. C’è la prontezza, la disponibilità al sacrificio, nell’accettare di essere arrestata.

E la pazienza? La pazienza sta nella teoria del centro: chi, come Rosa Parks, agisce secondo nonviolenza, agisce personalmente, persuaso e pronto, e non pretende che altri aderiscano. Si limita ad agire, dimostrare, dialogare. È la potenza di essere centro che fa il resto, la testimonianza, l’esempio: l’azione nonviolenta, spiegava Capitini, «è compiuta da un centro, che può essere una persona o un gruppo di persone; ma essa è presentata e offerta affettuosamente al servizio di tutti: essa è un contributo e un’aggiunta alla vita di tutti. Questo animo è fondamentale nell’addestramento alla nonviolenza: sentirsi centro rende modesti e pazienti, toglie la febbre di voler vedere subito i risultati, toglie la sfiducia che l’azione non significhi nulla. Anche se non si vede tutto, l’azione nonviolenta è come un sasso che cade nell’acqua e causa onde che vanno lontano».

Così avviene. Quella sera di dicembre, mentre Rosa Parks è in arresto, altri si riuniscono in assemblea, chiedendosi che cosa fare. Decidono di boicottare l’azienda dei trasporti e iniziano, semplicemente, in prima persona, a camminare invece di usare l’autobus.

Dal centro di Rosa Parks al raggio dei singoli che aderiscono al boicottaggio. E, da loro, ai tassisti che si uniscono all’azione, adeguando il costo della corsa al biglietto dell’autobus, mettendo così in atto a loro volta una forma di disobbedienza civile, violando i regolamenti sulle tariffe minime. Ancora, di fronte alla repressione dei tassisti, gruppi di volontari automuniti organizzano corse collettive, mettendo a disposizione tempo e mezzi per il principio, persuasi della bontà dell’azione, pronti a partecipare e sacrificarsi, pazienti nel non pretendere il risultato. Così, per 381 giorni: più di un anno di persuasione, prontezza, pazienza quotidiane.

Questa è nonviolenza: praticare una forza d’amore, ponendo fini e mezzi sullo stesso livello etico. Forse il segreto di questa forza sta nell’aver compreso che, agendo così, non esiste sconfitta, e non esiste il nemico.

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