Nemico in avvicinamento
La nonviolenza, come metodo di azione, è “disponibilità sempre al compromesso”.
Il nonviolento tende al cambiamento della realtà: non si può ottenere un fine giusto tramite mezzi ingiusti.
La nonviolenza è il mettersi al centro per attirare, non per guidare.
La teoria è pratica, almeno per la nonviolenza. Più di altre filosofie, non si regge senza la prospettiva e l’azione, senza un’attuazione concreta e coerente: bizzarro, visto l’idealismo al limite dell’utopia che la caratterizza.
La forza delle parole di Pietro Pinna, quel signore che, seduto su una poltrona, mi spiegava la nonviolenza, era così profonda proprio perché non era una semplice spiegazione: era biografia, era azione storica eppure costante e quotidiana. La teoria era, è, pratica. Questa coerenza si basa su un’identità tra mezzi e fini: non si può raggiungere la giustizia con mezzi disonesti, non si può ottenere la pace con la guerra, non si può mirare a un fine senza prestare attenzione ai mezzi che si utilizzano per quello scopo.
I mezzi sono fini. Due ragioni essenziali inducono il nonviolento ad aderire a quest’idea. La prima è ideale, a difesa dell’integrità delle persone. La violenza corrompe l’animo di chi la commette e danneggia il prossimo: raggiungere un obbiettivo positivo attraverso mezzi violenti squalifica il fine. La seconda è realista. Nessuno ha il potere esclusivo sulla realizzazione di un determinato fine, dunque non ha senso affannarsi per il suo raggiungimento senza concentrarsi sul percorso, sui mezzi che, al contrario, dipendono dalla nostra scelta e non da variabili al di fuori dal nostro controllo.
L’attenzione ai mezzi rappresenta così un equilibrio tra due opposti: potere e umiltà. Il nonviolento tende al cambiamento della realtà, persegue un’utopia confidando nelle proprie azioni, ma, nel contempo, è consapevole di non avere controllo sul risultato finale del suo impegno, quindi concentra il suo sforzo sull’elemento su cui è sicuro di poter influire, ovvero i mezzi. Non esiste obbiettivo raggiungibile senza un percorso con esso coerente. Non si può ottenere un fine giusto tramite mezzi ingiusti.
E perfino i mezzi giusti possono causare violenza: «Gradualità dei mezzi» esclama Pinna, continuando a spiegarmi, «nell’azione politica prima faccio le azioni legali, poi passo, se non sono efficaci, gradualmente, a forme di lotta più incisive, più pesanti, eccetera, passo ad esempio alla non collaborazione e poi posso passare invece ad azioni di attacco, disobbedienza civile, disubbidisco alle leggi: non faccio il servizio militare, non pago certe tasse e via dicendo, fino a istituire dei governi paralleli».
L’assenza di gradualità nella scelta dei mezzi finisce, paradossalmente, per essere coercitiva, infliggendo una violenza psicologica sull’avversario: la tecnica da utilizzare deve invece essere la più semplice possibile, in rapporto con il fine da raggiungere, utilizzando con misura gli strumenti di potere già in possesso del nonviolento, non lasciando che si tramutino in forme di dominio. Un esempio? Il 16 gennaio 1969 Jan Palach si immolò dandosi fuoco a Praga, in protesta con l’occupazione sovietica; prima e dopo di lui diversi cittadini si sacrificarono così, in aperta opposizione all’invasione della Cecoslovacchia, ossia di fronte a un’azione militare di una potenza mondiale ai danni della popolazione civile inerme. La stessa azione di suicidio con il rogo, attuata in una democrazia per protestare contro un governo che si ritiene inadatto o per chiedere l’attuazione di un diritto negato, resta certamente una possibilità, ma estrema, al limite del ricatto. Per agire con nonviolenza è necessario chiedersi: esistono altri mezzi? Esiste un metodo di azione già previsto per la tutela dei diritti o per la critica pubblica?
L’atto eclatante resta nella storia, ma più spesso, a fare la storia, è l’atto graduale. Il metodo nonviolento riconosce la necessità di valutare i mezzi, di sceglierli guardando alla loro correttezza più che alla loro efficacia immediata (e talvolta solo apparente): questo richiede una dose di attenzione e quindi di sacrificio considerevole, a cui bisogna educarsi.
La tenacia conta più della velocità e talvolta ci se ne accorge troppo tardi. Perfino Gandhi, dopo il massacro di Amritsar (379 morti, almeno un migliaio di feriti: l’esercito aveva aperto il fuoco sulla folla pacifica radunata in un parco, privo di vie d’uscita, senza colpi di avvertimento e senza prestare assistenza medica) e le reazioni di rabbia e violenza, ammise di aver commesso «un errore di proporzioni himalayane»: aveva spinto il popolo indiano alla disobbedienza civile senza averne prima curato l’educazione alla nonviolenza.
Per partecipare a un’azione nonviolenta, infatti, è fondamentale avere l’autocontrollo necessario a sopportare i sacrifici, conoscere il metodo, la pratica di quel neologismo, satyagraha, che richiede fermezza d’amore e, nel concreto, persuasione, prontezza, pazienza.
Innanzitutto, persuasione. C’è una tensione interiore, la volontà di non commettere violenza e di costruire un mondo che non la contempli, di riconoscere quella forza d’amore che è alla base del metodo e dell’etica nonviolenta. È quindi una profonda fede personale, non in senso confessionale, né chiuso sulle proprie convinzioni, ma aperto all’altro, in un dialogo costante, che parte dalla coscienza dell’individuo.
Poi, la prontezza, ossia lo sviluppo disponibile della persuasione a partire dagli altri e verso gli altri. La nonviolenza non resta una rivelazione custodita nella profondità individuale, ma si apre nell’analisi della società, nella capacità di confrontarsi con essa ed essere pronti ad adattare i mezzi all’obiettivo e alle reazioni.
Infine, la pazienza. La persuasione sulla bontà dei metodi nonviolenti, la prontezza nel servizio agli altri sarebbero presto frustrate se non fossero sostenute dalla pazienza di non pretendere risultati immediatamente visibili. Idealista fino all’utopia, il nonviolento è anche estremamente legato alla concretezza del qui e ora: oggi agisce, agirà anche domani, e dopodomani anche, senza rassegnazione, consapevole fin dall’inizio dei rischi possibili e del sacrificio richiesto.
La nonviolenza è il mettersi al centro per attirare, non per guidare.
La nonviolenza, come metodo di azione, è “disponibilità sempre al compromesso”.
In protesta contro la realtà, Pietro Pinna si trova a Napoli, prigioniero militare in tempo di pace.
La difficoltà di trovare un’iconografia nonviolenta non si limita alle questioni figurative: riguarda anche le parole.
Il nonviolento tende al cambiamento della realtà: non si può ottenere un fine giusto tramite mezzi ingiusti.
La nonviolenza, come metodo di azione, è “disponibilità sempre al compromesso”.
Nonviolenza è disponibilità al compromesso, non compromissione.
Pinna sbuffa in maniera molto cortese: «Legga Capitini».
Le domande che volevo porre a Pietro Pinna, in quanto primo obiettore di coscienza per motivi ideali, erano poche.
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