Ep. 2

Il salvataggio di Banksy a Venezia e l’idea che c’è dietro

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Sulle tracce di Banksy

Lo spazio d’azione dell’arte accessibile, sul territorio, fra le persone, è il pretesto per raccontare storie.

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Nella notte tra il 23 e il 24 luglio a Venezia è stato staccato dal Palazzo San Pantalon, nel cuore del sestiere Dorsoduro, il murale più famoso della città: Migrant Child di Banksy.

Un bambino naufrago che lancia un razzo di segnalazione rosso acceso: una denuncia, una richiesta di attenzione per tutte le vite migranti che continuiamo a perdere in mare. L’operazione è avvenuta di notte, in silenzio, con due barche e una gru. È stato tutto organizzato, tutto programmato da tempo: il murale è stato portato “al sicuro”, dicono, in una struttura di Mestre dove sarà restaurato da Federico Borgogni, lo stesso che a Bristol aveva già restaurato un’altra opera di Banksy.

Tutto bene, allora? Sì, se pensiamo che un’opera di street art debba essere trattata come un quadro del Rinascimento da appendere in salotto o in banca, protetto da vetri antiproiettile e allarmi sofisticati.

Nel 2019, quando Banksy ha creato questa immagine in occasione della Biennale, sapeva benissimo che cosa stava facendo: aveva scelto una città fragile e insieme fortissima, una città che da decenni viene usata come vetrina e palco di una Disneyland per turisti, una città che perde residenti ogni giorno e in cui oggi ci sono più letti per turisti che abitanti.

Era un’opera destinata a scomparire, lentamente, sotto l’umidità salmastra, le onde, il tempo. Era questa la sua forza: un’immagine effimera, urgente, autenticamente veneziana proprio perché destinata a non restare per sempre. E proprio per questo capace di interrogare, disturbare, provocare. Come fanno le opere d’arte vere.

Invece ora qualcuno ha scelto la conservazione museale, asettica e rassicurante. Un restauro deciso dall’alto, dalla politica, dagli interessi privati.

Nel 2024, Palazzo San Pantalon è stato acquistato da Banca Ifis, che vuole trasformarlo nella sua sede veneziana. E il murale è parte integrante del valore del palazzo: Banksy è prestigio, è investimento, è un asset.

Certo, la banca promette che il restauro porterà a una mostra pubblica, gratuita. Ma intanto, per rimuovere Migrant Child, nessuno ha chiesto nulla né alla comunità locale né all’artista stesso, che notoriamente non ha un’identità pubblica proprio perché le sue opere non appartengono a lui, e certamente non alle banche, ma alla strada, alle persone.

Questa vicenda è emblematica. È l’ennesimo atto di privatizzazione simbolica della città, un altro segnale che si vuole far diventare Venezia un brand, una cartolina, un’attrazione turistica.

Togliere il murale dal muro non è solo questione di restauri: è una scelta politica, economica, culturale. È un modo per ribadire che la città non è più delle persone che la abitano, ma dei grandi interessi che la sfruttano, la vendono, la consumano.

È un modo coerente con quell’idea paternalista che emerge continuamente: Venezia va salvata. Ma da cosa? Il Banksy rimosso rischia di diventare metafora di venezia stessa, staccata, pezzo dopo pezzo, e portata via in nome del profitto.

È questo, forse, ciò da cui dobbiamo salvare davvero Venezia.

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