L’uomo in rivolta
In protesta contro la realtà, Pietro Pinna si trova a Napoli, prigioniero militare in tempo di pace.
Le domande che volevo porre a Pietro Pinna, in quanto primo obiettore di coscienza per motivi ideali, erano poche.
La nonviolenza è il mettersi al centro per attirare, non per guidare.
Se non si è retori consumati o cinici maestri di propaganda, parlare in pubblico significa semplicemente voler comunicare, manifestare le proprie idee a un uditorio più o meno pronto ad ascoltare e apprezzare il discorso. L’applauso arriva allora inaspettato, provoca in chi parla un’emozione a metà tra lo spavento, lo stupore e la soddisfazione. Ma i discorsi importanti, quelli con un pubblico ampio o un messaggio importante, si pensano con attenzione, si scrivono, si imparano, ci si studia una scaletta almeno, si intuiscono i punti in cui chi ascolta annuirà, le frasi in cui forse sarà vicino alla commozione, le massime che resteranno impresse per parlarne con gli amici o adatte a titolare un resoconto: più forte è la testimonianza, più ci si aspetta una reazione.
Oppure no?
Le domande che volevo porre a Pietro Pinna, in quanto primo obiettore di coscienza per motivi ideali, erano poche. Una di queste riguardava l’effetto della sua scelta sulla storia d’Italia: certo non fu solo merito suo se il servizio di leva smise di essere esclusivamente militare, ma il dibattito sulla possibilità di servizio alla nazione senza collaborare alla cultura bellica si apre proprio dall’esempio, dalla testimonianza di Pinna e degli altri che fecero altrettanto negli anni successivi.
Ci aveva pensato al clamore che avrebbe provocato, mentre scriveva a Capitini per chiedere consiglio? Si immaginava che le pagine dei giornali avrebbero scritto dei suoi processi? Che ci sarebbero stati parlamentari in suo favore, a parlare dal banco dei testimoni, o che il suo nome si sarebbe pronunciato nei dibattiti istituzionali, per discutere la legge sull’obiezione di coscienza?
Seduto sulla poltrona accanto alla finestra, con quella pesante leggerezza che hanno spesso gli anziani, con la schiena poggiata saldamente allo schienale e le ginocchia piegate tra i muscoli tesi, come se il discorso potesse farli scattare in un istante, Pietro Pinna sorride, quasi si scioglie nella risata con cui si schermisce, dicendo «È stata colpa degli altri, che hanno cominciato a parlarne».
Ho già confessato che, per quell’intervista, non ero poi così preparata, e, avendo a malapena letto il nome di Capitini tra le biografie online che avevo sfogliato, ignoravo quanto il filosofo perugino si fosse impegnato nella difesa del ragazzo, dall’aula di tribunale alle colonne dei giornali. Intanto, il giovane Pietro semplicemente testimoniava con la vita, silenziosa e solitaria, del carcerato: «ero come un topolino in gabbia», mi spiega, nessun attivismo nella diffusione delle sue idee, e come avrebbe potuto?, con una lettera al mese concessa come corrispondenza.
La risonanza pubblica della vicenda di Pietro Pinna arriva come l’applauso inaspettato, come risposta gradita ma non attesa, né cercata. Tornano i concetti di centro e di azione nonviolenta come martirio, nel senso etimologico greco di testimonianza, in cui il sacrificio è un elemento di (auto)distruzione necessario all’affermazione di qualcosa di più profondo, di più vero, di più forte. Il ragazzo di Ferrara che cerca nella società i valori spirituali che gli paiono disfatti dalla guerra è come la sarta di Montgomery che non si alza dal sedile, come chi pone il suo corpo davanti ai carriarmati, come il filosofo perugino che rifiuta di cedere alle pretese del celebre professore e all’ideologia che egli rappresenta. La teoria si fa pratica, si agisce senza pretendere lode o imitazione, senza aspettarsela né aspettarla, come centro di un’azione d’amore, di nonviolenza. Scrive Capitini (sì, nel frattempo qualcosa ho letto) che “solo così si rinnova il mondo, per amore; e chi è innamorato non aspetta che gli altri si innamorino”. Pietro Pinna non aspetta che Aldo Capitini gli risponda, non aspetta che si crei un movimento di opinione sull’obiezione di coscienza, non aspetta che il mondo comprenda da solo la violenza della guerra, ma afferma la sua persuasione limpidamente, agisce come martire e testimone, come proclamasse un discorso fondamentale, con voce chiara e parole vere, senza preoccuparsi che la platea sia pronta ad accettarlo.
Forse è questo uno dei motivi per cui la nonviolenza viene spesso derisa, fraintesa, ignorata: perché non ci sono scuse per non applicarla, perché ci offre il potere e ci chiama al suo esercizio.
Nessuno è escluso dall’omnicrazia, perché il potere nonviolento è un potere di tutti. Ed è un potere che fa spavento. Quello che conosciamo, nella nostra società di violenza cristallizzata, è ben diverso, è il potere su: è supremazia, è dominio. L’esempio nonviolento ci indica invece un altro tipo di potere, il potere di, che da sostantivo diventa verbo e si apre alla realtà. È un potere che, per essere tale, dovrebbe appartenere a tutti, ma che individualmente deve essere scoperto ed esercitato da ciascuno. Non è mai esibizione di forza, ma è anzi consapevolezza del proprio limite, individuale ed esistenziale: sono limitata, ho molti difetti personali e un limite comune a ogni essere umano, che mi ricorda che non sono abbastanza, non sono perfetta, non sono infinita. Ma è proprio questa debolezza, questo limite, che spinge ad anelare a qualcosa di più alto, che tenda all’infinito e a cui so, individualmente, di non poter arrivare. E quella stessa mia debolezza, di cui sono consapevole, mi ricorda di dover essere umile, di non dover imporre quanto piuttosto di dover persuadere, di dovermi mettere in cammino verso una verità comune, creare e nutrire l’unità-amore, vedendo nell’altro un Tu, insieme simile e diverso da me, con il quale superare il limite.
Questo limite, la siepe che il guardo esclude permettendo di focalizzarsi sull’infinito, è una caratteristica anche politica della nonviolenza, del metodo di azione che prevede la forza d’amore. «A Birmingham nelle schiere della lotta nonviolenta si poterono arruolare anche gli zoppi e gli sciancati. Al Hibler, il cantante cieco, non sarebbe mai stato accettato nell’esercito degli Stati Uniti e in quello di qualsiasi altra nazione, ma nelle nostre file egli occupò un posto di comando» spiega Martin Luther King, «Nell’esercito della nonviolenza c’è posto per tutti coloro che vogliono arruolarsi. Non ci sono distinzioni di colori, non ci sono esami da sostenere né garanzie da dare, senonché, come un soldato degli eserciti della violenza deve controllare e tener pulito il suo fucile, così i soldati della nonviolenza sono tenuti a esaminare e a rendere belle le loro armi più grandi: il cuore, la coscienza, il coraggio e il senso della giustizia».
La nonviolenza è aperta, accogliente, inclusiva quanto alle persone che la vogliano praticare. E l’apertura riguarda non solo i suoi attivisti, ma anche le sue attività: il metodo è creativo, non codificabile se non sui principi, poggiato su fondamenta “antiche come le montagne”, per citare Gandhi, ma sempre a confronto con l’oggi e col domani, con le capacità, le competenze, le conoscenze. Nella preparazione dell’azione nonviolenta allora non possono mancare i momenti sociali, di costruzione di cooperazione e solidarietà tra gli attivisti, coinvolgendo il gruppo nonviolento nell’analisi e nella scelta dei metodi di lotta, ma anche nel servizio alla comunità, con il sostegno a bambini, anziani, malati, carcerati, e impegnandosi insieme in attività ricreative, artistiche, sportive, da vivere collettivamente per coltivare il senso di comunità. Se il risultato è di tutti e per tutti, anche il cammino merita quindi di essere condiviso: non si tratta di un intervento doveroso, imposto e prescritto da un qualche obbligo, quanto piuttosto di una partecipazione volontaria, virtuosa, dell’incremento del rapporto con tutti.
È questo, nonviolento, il vero potere forte, il potere di tutti, aperto all’aggiunta di ognuno, accogliente ma intransigente. L’omnicrazia che rende ciascuno responsabile e potente, ma che si fonda sull’essere, ognuno, limitato e umile.
La nonviolenza è il mettersi al centro per attirare, non per guidare.
In protesta contro la realtà, Pietro Pinna si trova a Napoli, prigioniero militare in tempo di pace.
La difficoltà di trovare un’iconografia nonviolenta non si limita alle questioni figurative: riguarda anche le parole.
Il nonviolento tende al cambiamento della realtà: non si può ottenere un fine giusto tramite mezzi ingiusti.
La nonviolenza, come metodo di azione, è “disponibilità sempre al compromesso”.
Nonviolenza è disponibilità al compromesso, non compromissione.
Pinna sbuffa in maniera molto cortese: «Legga Capitini».
Le domande che volevo porre a Pietro Pinna, in quanto primo obiettore di coscienza per motivi ideali, erano poche.
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