Ep. 06

Inganno e disinganno

Nonviolenza è disponibilità al compromesso, non compromissione.

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.
Dalle nostre serie Serie Giornalistiche
Uno come noi. Militare la nonviolenza

La nonviolenza è il mettersi al centro per attirare, non per guidare.

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C’è chi pensa che il velo sia di tessuto e che le competenze alchemiche del principe abbiano garantito a Sanmartino, lo scultore, la celebrità, di rendere marmo quel che marmo non era; c’è chi invece pensa che anche quel corpo straziato sia un uomo, in carne e ossa, inglobato nella pietra dalla cinica crudeltà scientifica di Raimondo del Sangrio. In realtà, il Cristo Velato è semplicemente un’opera mirabile, scolpita con maestria in un unico blocco di marmo. Si trova al centro della Cappella Sansevero, a Napoli, e appena entrati tutti si accalcano per osservarlo, come fosse l’unica opera in un luogo invece carico di arte e simboli.Mentre aspetto che gli altri visitatori si spostino quel tanto che basta per permettere anche a una turista bassa come me di ammirare il Cristo Velato, seguo il consiglio di Gaia, l’amica che prima di entrare mi aveva detto: «Disinganno. Fidati, cerca il Disinganno». E non ci vuole molto per arrivarci, bisogna solo dare le spalle all’opera più celebre e alla folla a cui rapisce l’attenzione.

Il Disinganno è una scultura di Queirolo, rappresenta un uomo avvolto in una rete (una rete di marmo!), una rete in cui si divincola e da cui si libera con l’aiuto di un genio alato, simbolo dell’intelletto umano. La liberazione simboleggiata nell’opera è quella dal peccato, anche se non mancano riferimenti al sapere massonico, con il passaggio dal buio alla luce. “Qui non vident videant”: quelli che non vedono vedranno. L’uomo è il protagonista, l’intelletto è il mentore per l’uscita dalla trappola, ma artisticamente l’elemento centrale è la rete, scolpita nel marmo, levigata da Queirolo in persona perché nessuna bottega, nessun apprendista né altri artigiani scultori si sarebbero mai presi la responsabilità di rischiare di rovinare quell’opera per sistemare gli ultimi dettagli.

L’incontro con la nonviolenza non è così diverso dalla scena rappresentata nell’opera partenopea: è disinganno, è consapevolezza di essere intrappolati in una rete di convinzioni cristallizzate, di violenza strutturale. E l’inganno più subdolo è l’equivoco, la distorsione delle parole e dei concetti, l’utilizzo degli strumenti nonviolenti per perpetrare fini violenti, così come la delegittimazione di chi sembri troppo appassionato dall’azione per essere collegato a una filosofia come la nonviolenza.

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Il Disinganno di Francesco Queirolo. Napoli, Cappella Sansevero. Dalianera su Flickr

Accadde anche a Pietro Pinna, quando decise di rifiutare il servizio (dell’uccisione) militare, e basta sfogliare la pagine di cronaca dell’epoca per notare lo stupore, quasi lo scherno, per il ragazzo imputato che “capovolge a suo sfavore la sanzione processuale inveendo contro giudici ed avvocati”, come si legge su La Stampa del 6 ottobre 1949. C’è un’aspettativa, un pregiudizio, verso chi si dichiara contrario alla guerra: l’idea di un debole, di un vile, in ogni caso di qualcuno che debba essere gentile. E invece la nonviolenza non necessariamente è pacatezza, non è ascetismo, prende il carattere di chi la adotta, che si prefigge sì di non compiere violenza, ma che non rifugge il conflitto, anche aspro. D’altronde, me lo spiegò proprio quel giovane obiettore qualche decennio dopo, «la nonviolenza è sempre disponibilità al compromesso», precisando «compromesso, ma non compromissione», perché «sono sempre disposto a cedere, salvo nelle questioni di principio, lì duro come una pietra».

Ed è proprio con la durezza della pietra, con l’intransigenza d’amore, che si dovrebbe vivere il disinganno, levandosi di dosso la meravigliosa rete di marmo che una società fondata sulla violenza ha cucito addosso a ogni consociato. Così, nonviolenza è anche la capacità di analizzare la realtà, di riconoscere come certe dinamiche, pur legittimate dalle leggi e dalle consuetudini, siano specchio di rapporti di dominio, siano espressione di violenza, talmente antica da essere considerata naturale e ineliminabile. Se di fronte ai totalitarismi, alle dittature, l’azione nonviolenta è radicale e semplice, perché semplici sono le rivendicazioni e radicali sono le privazioni dei diritti, tanto da costare enormi sacrifici ai dissidenti, nella società democratica l’impegno del nonviolento non si traduce nel martirio, ma deve essere profondo e creativo, perché deve innanzitutto svelare la violenza annidata nei rapporti. E nelle società liberali, l’inganno risiede addirittura, spesso, in un modello distorto di democrazia, che la riduce a un insieme di riti elettorali, plebiscitari o dialettici, senza preservare l’essenza della democrazia stessa.

Così, ad esempio, si permette che i diritti siano calpestati, con la scusa del voto popolare, come se il volere di chiunque, fosse anche di una maggioranza, potesse ridurre a meno che umani gli altri umani. Ma “nelle questioni di principio, lì duro come la pietra”, spiegava Pinna, a me dalla sua poltrona, ma all’umanità dalla cella del carcere militare in cui trascorse mesi di giovinezza: perché la democrazia, come la nonviolenza, è certamente ricerca del compromesso, ma è anche capacità di non comprometterne i pilastri, facendo sì che i fondamenti restino saldi.

Così, ancora, è un inganno pensare che tutte le posizioni siano accettabili in democrazia, che nonviolenza significhi essere disponibili al dibattito con chiunque, anche con portatori di idee liberticide, violente. Ma se è vero che i mezzi sono fini, e che non si può raggiungere un obiettivo di pace con strumenti di guerra, uno scopo giusto con modi ingiusti, non si può però credere che un mezzo formalmente privo di violenza non ne sia immerso quando viene usato per raggiungere un fine violento. Il sit-in non è una pratica violenta, ma lo diventa se è usato per veicolare convinzioni omofobiche e rivendicare il diritto di discriminare. La lettura di un comunicato sembra un atto democratico, ma non lo è se a metterla in pratica sono degli skinhead interrompendo l’assemblea di un’associazione antirazzista.

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Negozio ariano vietato agli ebrei. Roma, 1944.

Contro il fascismo, in particolare, si pone una di quelle questioni di principio su cui è necessario essere duri come la pietra. Riconoscere nel fascista un altro da rispettare è un atto nonviolento. Accoglierne la presenza nel dibattito pubblico significa però legittimarne le convinzioni, parificarle ad altre accettabili in democrazia.

Il fascismo è invece intrinsecamente violento e antidemocratico, e credere che non lo sia soltanto perché molti fascisti si presentano in politica ed esprimono le proprie opinioni senza picchiare i propri interlocutori sarebbe un po’ come ritenere che una rapina non sia tale se chi pretende denaro con una pistola in pugno chiedesse i soldi “per favore”. Se non abbiamo dubbi a ritenere violento un mafioso che entra in un negozio e chiede il pizzo, anche senza minacce esplicite e senza percuotere le persone o danneggiare il locale, perché dovremmo considerare democratici coloro che rivendicano un sistema di pensiero che su violenza e dominio basa la propria essenza?

Al di là del contributo al genocidio ebraico e rom, della repressione squadrista e istituzionale contro i dissidenti, della partecipazione alla guerra, la violenza è un elemento ontologico e culturale del fascismo: è la stessa base filosofica, il funzionalismo di Gentile, a essere violenta. L’indottrinamento fascista si basa sulla concezione della società come un unico corpo, che deve tendere concordemente agli stessi obiettivi e in cui il soggetto non ha ragione di esistere se non nello Stato. Il conflitto è escluso a priori: basti pensare al sistema sindacale durante il Ventennio, con corporazioni che riunivano, in un’unica associazione, lavoratori e datori di lavoro, eliminando così qualunque possibilità di dialettica e negoziazione in virtù di una formale pacificazione e coesione sociale. Si ha un obbligo di pax sociale, un’uniformità imposta, che si traduce nella punizione della devianza, con la repressione di tutti coloro che possono attentare all’ordine costituito, con le loro azioni o con la loro stessa esistenza, diversa dal modello di italianità fascista.

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Aldo Capitini.

Di fronte a questa realtà di violenza intrinseca, in cui la coscienza individuale e l’identità soggettiva sono sacrificate, il compromesso è impossibile e il confronto inaccettabile. Resta il rispetto umano, la compassione perfino, verso chi si dedica a convinzioni mortifere, ma più forte ancora resta l’opposizione a esse. E se oggi lo sforzo antifascista è intellettuale, di decostruzione della propaganda e costruzione di una società che soddisfi i bisogni umani e sociali, limitando il terreno di coltura delle ideologie liberticide, un tempo un impegno nonviolento simile implicava maggior sacrificio.

«Nelle questioni di principio, lì duro come la pietra», spiega Pietro Pinna, seduto sulla poltrona, decenni dopo quella prima volta in cui disse il suo no alla violenza istituzionale. Il primo a sostenerlo, dopo quella scelta, con le lettere e al processo, e con una fertile collaborazione per i successivi vent’anni, fu qualcuno che, con la stessa intransigenza, espresse un rifiuto storico, contro il fascismo, quando il fascismo era al culmine del dominio. Quel qualcuno si chiamava Aldo Capitini, insegnava Filosofia Politica alla Normale di Pisa, fino al giuramento di fedeltà al Duce richiesto ai professori universitari.

Rifiutò: nonviolenza è disponibilità al compromesso, ma non compromissione.

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