La scelta di metodo
Il nonviolento tende al cambiamento della realtà: non si può ottenere un fine giusto tramite mezzi ingiusti.
La difficoltà di trovare un’iconografia nonviolenta non si limita alle questioni figurative: riguarda anche le parole.
La nonviolenza è il mettersi al centro per attirare, non per guidare.
Nell’ultimo decennio dell’Ottocento, un giovane avvocato, timido e impacciato, scopre che le sue difficoltà davanti alla corte sono inversamente proporzionali alle sue capacità di ascolto e rivendicazione politica. Il giovane avvocato, è il caso di dirlo, è di etnia indiana, ma ha studiato in Gran Bretagna e vive in Sudafrica: il suo nome è Mohandas Karamchand Gandhi, ma nel giro di qualche anno tantissimi lo chiameranno Mahatma, Grande Anima. Tutti oggi lo ricordano vestito di bianco per la marcia del sale o per la resistenza nonviolenta contro l’Impero britannico per l’indipendenza indiana, ma le prime pratiche del metodo partono in Sudafrica, quando Gandhi ancora vestiva all’occidentale, salvo per il turbante, e quasi si stupiva della discriminazione a cui i suoi connazionali, oltre alle persone nere, erano sottoposti.
Ma perché parlare della fine dell’Ottocento? Certo non per distrarre il lettore dal mio errore di registrazione. Anzi, rivendico ogni riga scritta nelle puntate precedenti: avevo di fronte Pietro Pinna, uno dei primi obiettori di coscienza al servizio (dell’uccisione) militare, un pezzo di storia, e non ero stata in grado di filmare l’intervista come si deve; il risultato era un video delle sue ginocchia, motivo per cui cercavo, senza successo, immagini di copertura.
Non sto divagando, davvero: è che la difficoltà di trovare un’iconografia autenticamente nonviolenta non si limita alle questioni figurative, ma riguarda anche le parole.
Torniamo alla fine dell’Ottocento, allora, anzi, ormai all’inizio del Novecento. Gandhi è in Sudafrica da dieci anni, è conosciuto dai connazionali, che difende mettendo a frutto i suoi studi giuridici e senza commettere violenza. Nelle iniziative di protesta contro regole discriminatorie o per impedirne gli effetti, attua e invita ad attuare forme di resistenza passiva, anche se chiarirà più volte che questa pratica non è equiparabile a quello che sta cercando, teorizzando, sperimentando. Chi esercita resistenza passiva infatti può anche essere debole, anzi, molto spesso lo è. Non solo, può anche odiare l’avversario contro cui si oppone, può vederlo come nemico. Il metodo che Gandhi vuole proporre, e che attua con intransigenza, si basa invece su “una forza invincibile”, che è la forza dell’anima, superiore a quella delle armi e fondata sul coraggio. Se la resistenza passiva è applicata dal nonviolento, inoltre, non può mai lasciare spazio all’odio: è una forza d’amore.
La necessità di distinguere il metodo nonviolento dalla resistenza passiva come strategia, che non necessariamente implica la purificazione spirituale dall’odio che Gandhi ritiene requisito per la nonviolenza, spinge il giovane avvocato indiano ormai prestato alla politica a indire un concorso. Sulle colonne dell’Indian Opinion, il giornale che aveva contribuito a fondare, spiega la sfida, promettendo un piccolo premio per il vincitore: bisogna trovare una parola che rappresenti la pratica politica che gli indiani stanno applicando in Sudafrica.
La nonviolenza è il mettersi al centro per attirare, non per guidare.
Il nonviolento tende al cambiamento della realtà: non si può ottenere un fine giusto tramite mezzi ingiusti.
In protesta contro la realtà, Pietro Pinna si trova a Napoli, prigioniero militare in tempo di pace.
La difficoltà di trovare un’iconografia nonviolenta non si limita alle questioni figurative: riguarda anche le parole.
Il nonviolento tende al cambiamento della realtà: non si può ottenere un fine giusto tramite mezzi ingiusti.
La nonviolenza, come metodo di azione, è “disponibilità sempre al compromesso”.
Nonviolenza è disponibilità al compromesso, non compromissione.
Pinna sbuffa in maniera molto cortese: «Legga Capitini».
Le domande che volevo porre a Pietro Pinna, in quanto primo obiettore di coscienza per motivi ideali, erano poche.
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