La rivoluzione è aperta!
Le domande che volevo porre a Pietro Pinna, in quanto primo obiettore di coscienza per motivi ideali, erano poche.
Pinna sbuffa in maniera molto cortese: «Legga Capitini».
La nonviolenza è il mettersi al centro per attirare, non per guidare.
Anche se arriva alla fine dell’anno, raramente dicembre sembra un finale. Il periodo dell’Avvento, la preparazione delle feste, l’attesa spirituale, religiosa o laica, condita di buoni propositi, si pone come un inizio, la ripresa di un ciclo infinito eppure sempre nuovo. Così questa storia è iniziata a Napoli, nel Natale del 1949, nella cella di Pietro Pinna, recluso nel carcere militare di San Martino per aver rifiutato il servizio (dell’uccisione) militare. Qualche anno prima, nello stesso periodo di attesa e con il medesimo animo di convinta persuasione, un giovane studioso della Normale di Pisa attende di subire la rabbia del Direttore della Scuola, già Ministro dell’Istruzione e figura di spicco del regime fascista alla sua acme, Giovanni Gentile. Teorizzatore della necessità di uno Stato forte, che ha sostenuto fin da prima dell’avvento di Mussolini, il Direttore, dai capelli ancora scuri sopra la barba canuta e lo sguardo severo, deve confrontarsi con lo scompiglio che due giovani ricercatori, entrambi passati dalla letteratura alla filosofia, stanno portando nelle elaborazioni accademiche e nelle discussioni tra gli studenti del collegio. Il più giovane dei due, Claudio Baglietto, classe 1908, di umili origini, ha ottenuto una borsa di studio a Friburgo, proprio all’università dove insegna Heidegger, ma, una volta espatriato, con un visto concesso anche grazie alle rassicurazioni del direttore Gentile, decide di non tornare più: rinuncia ai benefici accademici, si trasferisce a Basilea e vivrà da esule, in quanto obiettore di coscienza alla leva militare.
Per Giovanni Gentile la questione è grave, anzi gravissima. Baglietto aveva già espresso le sue idee contro il fascismo, e per una riforma religiosa al di fuori del cattolicesimo, stampando e diffondendo, insieme a quell’altro, opuscoli dattiloscritti, discutendone nelle stanze del collegio, confrontandosi con gli altri studenti. Chissà, deve aver sperato Gentile, forse c’è la possibilità che il normalista rimasto, senza l’amico esule, riconosca la necessità etica della disciplina, dell’autorità. E così, prima cerca di convincerlo ad ammettere come l’atto del collega sia scorretto sul piano morale. Non ci riesce. E allora gli fa una richiesta, che suona più come un ordine, proprio nei giorni di Natale del 1932: se vuol restare alla Normale, se desidera rimanere segretario del collegio di Pisa e continuare con la carriera accademica, deve prendere la tessera del partito fascista. La risposta è limpida, semplice: è la scelta nonviolenta e antifascista di Aldo Capitini.
«Ha letto Capitini?». No, rispondo a Pietro Pinna, non più giovane obiettore ma anziano testimone della storia, prima di accendere la telecamera per iniziare l’intervista, dopo avergli detto che avevo letto e apprezzato la lettera ai giudici di don Lorenzo Milani. Pinna sbuffa, ma in maniera molto cortese. I preti, i cattolici, arrivarono dopo, spiega. «Legga Capitini» aggiunge.
I primi giorni del 1933 Giovanni Gentile fa chiamare Aldo Capitini, lo saluta: l’esperienza alla Normale è finita, il giovane prende il treno e torna a casa, a Perugia, da dove era partito. Torna a vivere nell’abitazione in cui è cresciuto, “una casa nell’interno povera, ma in una posizione stupenda, perché sotto la torre campanaria del palazzo comunale, con la vista sopra i tetti della campagna e dell’orizzonte umbro, specialmente del monte di Assisi, di una bellezza ineffabile”, così scrive lui stesso e così cita Fabrizio Truini in un’interessante biografia del filosofo. Figlio dell’impiegato comunale custode del campanile, Capitini aveva imparato da autodidatta il latino e il greco e conseguito gli studi classici da privatista; dopo l’epurazione dalla Normale, si guadagnerà modestamente da vivere con le ripetizioni. E chissà quante volte il giovane filosofo, che si definiva kantiano-leopardiano e a cui si deve il merito di aver diffuso il pensiero nonviolento in Italia, avrà alzato lo sguardo, sedendo e mirando, interminati / spazi di lá da quella, e sovrumani / silenzi, e profondissima quiete, e quante volte nel pensiero si sarà finto, si sarà figurato una realtà diversa, si sarà confrontato con la finitezza umana e con l’orizzonte così distante, chissà se proprio guardandolo dalla torre di Perugia avrà elaborato le teorie sulla compresenza e sull’unione-amore per superare il limite, come la siepe che il guardo esclude ma che, così facendo, spinge a rivolgersi all’Infinito.
Dalla torre di Perugia Capitini mantiene qualche contatto accademico e consegna a Benedetto Croce il manoscritto Elementi di un’esperienza religiosa: il volume viene pubblicato nel 1937, passa le maglie della censura perché presentato come opera religiosa, anche se l’ossatura nonviolenta e l’antifascismo sono chiarissimi. Dalla torre di Perugia, con lo sguardo all’infinito e la consapevolezza sul presente, Capitini legge, studia, scrive, riflette, si schiera: sarà arrestato nel 1942, poi ancora nel 1943 e anche con la fine del fascismo non smetterà mai di essere attenzionato dalla questura, di essere controllato nei suoi movimenti e nelle sue intenzioni.
«Legga Capitini!», il consiglio di Pinna sembra una semplice indicazione bibliografica, invece, come sempre in ambito nonviolento, non c’è distinzione tra pensiero e azione, tra le parole e i fatti, tra l’opera e la testimonianza. E, mentre mi svela con semplicità le basi del metodo nonviolento, nemmeno cita il ruolo personale che Capitini ha avuto nel periodo della sua obiezione.
Da quella lettera inizierà una corrispondenza, prima, e una collaborazione, poi, profonda, fertile, durevole.
Se gli anni successivi si caratterizzeranno per l’azione del Movimento Nonviolento soprattutto nella sensibilizzazione sull’obiezione di coscienza, sull’antimilitarismo, sul disarmo, poco prima di conoscere Pietro Pinna, Aldo Capitini nella sua Perugia si occupa di altro, dell’elaborazione concreta di una parola che segnerà il suo impegno politico: omnicrazia.
Tre anni prima di quel convegno a Ferrara, e quasi un anno dopo la liberazione della sua città, Capitini rifletteva sul Corriere di Perugia: “se la guerra è composta di una serie di azioni, di battaglie, di bombardamenti, di blocchi commerciali, di spionaggi, anche la pace è una serie di azioni: e noi subito ci domandiamo: sono gli uomini preparati a tutti questi atti che la pace esige per stabilirsi durevole su tutta la estensione dei continenti e degli oceani?”. E con questa consapevolezza, con l’idea che si dovesse essere preparati alla democrazia, pronti a vivificarla e a difenderla, fonda il primo Centro di Orientamento Sociale (C.O.S.), a cui si aggiungeranno a Perugia altri otto gruppi rionali, oltre a diversi centri in Umbria, Toscana e anche a Bologna, Ancona, Ferrara. Il Centro di Orientamento Sociale rappresenta uno spazio nonviolento, ragionante, di distacco dalla realtà violenta e di espressione della realtà di tutti: si tratta di una cellula aperta, una socialità innovativa e decentrata. Il Centro di Orientamento Sociale è un percorso collettivo per la preparazione nonviolenta contro il dispotismo, nell’eventualità di dover difendere ancora la comunità dalla dittatura, ma anche per la costruzione dell’omnicrazia, ossia della società in cui il potere è di tutti.
Alla base del Centro nonviolento vi è uno sforzo politico decentrato e locale, adatto all’effettivo confronto: come un punto, che è talmente piccolo da essere adimensionale, eppure è l’elemento fondamentale della geometria, che può formare una retta infinita. I C.O.S. sono piccoli gruppi, che sperimentano l’apertura all’altro, alla base della nonviolenza, in senso politico e di gruppo. Tra il 1944 e il 1948 ogni lunedì si discute delle questioni amministrative cittadine, ogni giovedì dei problemi politici e sociali: lo spirito dell’assemblea non è quindi né rinchiuso nel localismo, né astrattamente perso in discorsi idealistici. E non è, o non è solo, uno strumento di elaborazione di istanze, di interlocuzione dalla periferia al vertice politico: si tratta, piuttosto, di una profonda attività educativa, di formazione di senso collettiva.
Quando il giovane Pinna da Ferrara scrive ad Aldo Capitini, il kantiano-leopardiano, l’autodidatta studioso della Normale, l’antifascista vegetariano così scomodo per Gentile, l’esperienza dei C.O.S. è quasi al termine. Il filosofo della nonviolenza avrà letto i dilemmi del ragazzo che non vuole collaborare alla guerra e forse si sarà affacciato dalla torre di Perugia. Il paesaggio è avvolto dalla foschia, che il guardo esclude, ma l’orizzonte è infinito: la rivoluzione è aperta.
La nonviolenza è il mettersi al centro per attirare, non per guidare.
Le domande che volevo porre a Pietro Pinna, in quanto primo obiettore di coscienza per motivi ideali, erano poche.
In protesta contro la realtà, Pietro Pinna si trova a Napoli, prigioniero militare in tempo di pace.
La difficoltà di trovare un’iconografia nonviolenta non si limita alle questioni figurative: riguarda anche le parole.
Il nonviolento tende al cambiamento della realtà: non si può ottenere un fine giusto tramite mezzi ingiusti.
La nonviolenza, come metodo di azione, è “disponibilità sempre al compromesso”.
Nonviolenza è disponibilità al compromesso, non compromissione.
Pinna sbuffa in maniera molto cortese: «Legga Capitini».
Le domande che volevo porre a Pietro Pinna, in quanto primo obiettore di coscienza per motivi ideali, erano poche.
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