La parola nuova
La difficoltà di trovare un’iconografia nonviolenta non si limita alle questioni figurative: riguarda anche le parole.
La scelta, il rifiuto. Il rapporto col mondo.
La nonviolenza è il mettersi al centro per attirare, non per guidare.
Tutto quel che avevo era un numero di telefono, con il prefisso di Firenze. Perché qualcuno aveva deciso di comunicarmi quelle cifre in sequenza? «Credo che sia importante per la tua generazione raccogliere la sua eredità culturale, per capire come le forme di lotta del passato possono insegnarci qualcosa per il futuro» mi spiegò chi mi diede quel numero.
Alla fine, titubante, avevo telefonato. Pietro Pinna rispose. Una settimana dopo ero a casa sua, seduta di fronte alla sua poltrona, con una fotocamera su un cavalletto universale che avevo trovato da qualche parte. Non una grande attrezzatura, a ripensarci.
Avevo poche domande, volevo che fosse l’intervistato a parlare, a spiegare, a focalizzarsi sui temi più profondi. Così fece. Era stato un pilastro del Movimento Nonviolento, organizzatore delle prime marce della pace, stretto collaboratore di Aldo Capitini, ma di questo non parlammo: quello che sapevo io prima di quell’intervista, quello che avevo scoperto online e di cui volevo che mi raccontasse, era un’obiezione di coscienza, il rifiuto di collaborare al “servizio dell’uccisione militare”.
Quella mattina di ottobre Pietro Pinna rispose alle mie curiosità: il rapporto con la sua famiglia dopo la sua scelta e durante la detenzione, le aspettative sul riconoscimento dell’obiezione di coscienza, le reazioni dei partiti. E poi gli chiesi se per favore potesse parlarmi di qualcosa a cui teneva, che gli importava comunicare, che pensava che la mia generazione dovesse sapere.
E lui mi raccontò la nonviolenza.
Ero rapita dalle sue parole. Lo ascoltavo mentre spiegava, saggiando la mia comprensione a ogni passaggio. Usava parole semplici, proponeva concetti di sintesi, così chiari e così profondi, enfatizzando il discorso con la persuasione in fondo agli occhi, severi e dolci insieme.
Se, invece di restare concentrata sul suo sguardo, avessi controllato la fotocamera, mi sarei evitata la sorpresa in serata.
Ancora carica dall’esperienza, scarico il girato sul computer, calzo le cuffie e inizio a riguardare. La luce è buona, l’audio potrebbe essere migliore: mi comprerò un microfono, o magari una videocamera, invece di questa macchinetta. L’inquadratura mi piace, certo, è un po’ statica, ma è comunque un’intervista, basterà aggiungere i sottotitoli. La tranquillità dura pochi minuti, i minuti che sono bastati all’obbiettivo per scivolare definendo una nuova inquadratura, quella delle ginocchia dell’intervistato. Scorro veloce il video: nessuna speranza, tolti i primi minuti, il resto dell’intervista mostra poltrona, gambe, ciabatte e pavimento.
E adesso?
Devo rimediare. Riascolto l’intervista, sbuffo, mi serve una soluzione: certo non rinuncerò a pubblicare il video. E allora mi metto a cercare immagini di copertura. Finché si parla dell’obiezione di coscienza, di antimilitarismo, di guerra, la ricerca non è poi difficile: ci sono video di repertorio che mostrano soldati, eserciti, bombardamenti. Ma esiste modo per spiegare per immagini concetti come “disposizione al sacrificio”, “compromesso ma non compromissione”, “gradualità dei mezzi”? Esiste, insomma, una rappresentazione figurativa della nonviolenza?
Una disattenzione, tanto banale quanto evitabile, mostrava chiaramente uno dei problemi della nonviolenza o, meglio, della sua narrazione: l’assenza di un’iconografia.
In realtà, di simboli ne esistono: c’è quello della pace, c’è l’arcobaleno, la colomba, il rametto di ulivo. Rappresentano però il pacifismo, troppo spesso simile al quieto vivere, a un annacquato impegno contro la guerra, a un generale appello a non litigare: la nonviolenza è un po’ più complessa, specie rispetto alla gestione del conflitto. Altra rappresentazione possibile è quella della contrapposizione: il Movimento Nonviolento, ad esempio, usa come simbolo il fucile spezzato. In questo modo non si perde l’elemento conflittuale, quasi eretico, della nonviolenza nella società moderna, ma non si conia una nuova realtà figurativa, ci si limita a descrivere l’opposizione alla violenza.
La nonviolenza è il mettersi al centro per attirare, non per guidare.
La difficoltà di trovare un’iconografia nonviolenta non si limita alle questioni figurative: riguarda anche le parole.
In protesta contro la realtà, Pietro Pinna si trova a Napoli, prigioniero militare in tempo di pace.
La difficoltà di trovare un’iconografia nonviolenta non si limita alle questioni figurative: riguarda anche le parole.
Il nonviolento tende al cambiamento della realtà: non si può ottenere un fine giusto tramite mezzi ingiusti.
La nonviolenza, come metodo di azione, è “disponibilità sempre al compromesso”.
Nonviolenza è disponibilità al compromesso, non compromissione.
Pinna sbuffa in maniera molto cortese: «Legga Capitini».
Le domande che volevo porre a Pietro Pinna, in quanto primo obiettore di coscienza per motivi ideali, erano poche.
Venezia è unica. Ma non è l’unica. E non è sola.
Soluzioni per contrastare lo spopolamento
Ticket d’accesso e Smart Control Room sono soluzioni contro l’iperturismo?
Il problema è l’iperturismo? O lo spopolamento? Oppure sono i soldi?