Spazi vuoti, città in vendita?
Intervista con la ricercatrice Veronica Conte, che ha studiato molti interventi di rigenerazione urbana. E che spiega come, spesso, questi grandi progetti sono “strumenti centrali dei modelli di crescita di tipo imprenditoriale finalizzati a posizionare le città nel mercato degli investimenti”.
Le seconde vite di spazi urbani morti. Rinati grazie ai fondi di coesione.
I grandi progetti di rigenerazione urbana sono molto spesso i mezzi con cui, chi governa una città, punta a «creare condizioni favorevoli all’arrivo e all’ancoraggio di capitali».Per questo, da un lato, sono interventi «poco attenti ai territori e ai bisogni locali» e, dall’altro, sono «strumenti centrali di quei modelli di crescita di tipo imprenditoriale finalizzati a posizionare le città nel mercato degli investimenti».
Veronica Conte ha sviluppato queste idee studiando numerosi processi di rigenerazione urbana, come ricercatrice della Research Foundation Flanders – Fwo alla KU Leuven in Belgio e come affiliata al The real estate financial complex (Refcom), un gruppo di ricerca che studia le relazioni tra il mercato immobiliare e la finanza concentrandosi sul coinvolgimento degli attori pubblici.
Dopo aver ragionato sul concetto di rigenerazione urbana e aver raccontato alcuni casi che hanno coinvolto i fondi della politica di coesione Ue, da Aprilia ad Empoli e Firenze, è con lei che abbiamo cercato di delineare un ulteriore tassello del nostro discorso. E abbiamo ragionato su quali siano gli impatti di questi interventi su larga scala ma anche dei piccoli progetti di riutilizzo di luoghi abbandonati, spesso sostenuti dall’impegno delle comunità locali.
Partiamo con una premessa utile a chi legge: qual è il campo della sua ricerca?
Mi sono occupata di progetti di rigenerazione su larga scala e attualmente studio il turismo urbano e il mercato della casa. Anche se possono sembrare temi distinti, nascono da premesse comuni. La prima: il ruolo centrale ricoperto dalla capacità dei territori e delle città di attrarre risorse per posizionarsi in un contesto globale fortemente competitivo e caratterizzato da un aumento dei flussi di merci, di persone e di investimenti. La seconda: la corsa alla competitività urbana che sta caratterizzando le politiche di sviluppo degli ultimi decenni e sta portando a una crescente concentrazione di opportunità nelle mani di pochi territori che si affermano come nodi centrali dell’economia e come spazi per l’accumulazione e la circolazione del capitale. La terza: il cambiamento delle logiche di governo del territorio che risultano sempre più orientate a creare condizioni favorevoli all’arrivo e all’ancoraggio di questi capitali e di conseguenza poco attente ai territori e ai bisogni locali. Un tema, questo, al quale è connessa anche la crescita delle disuguaglianze e la redistribuzione dei benefici. La mia ricerca, infine, si muove tra diverse scale di analisi, da quella più globale, come per esempio i flussi di investimenti, a quella locale delle politiche urbane e della politica con la P maiuscola.
A proposito di politiche di sviluppo orientate alla competitività urbana. Che ruolo ha giocato in questo contesto la necessità di rigenerare spazi che hanno perso la loro funzione?
La rigenerazione urbana, in particolare attraverso progetti di larga scala, ha rappresentato uno strumento politico molto importante per far fronte al generale processo di deindustrializzazione e alla dismissione di grandi aree, non solo industriali ma anche infrastrutturali, come per esempio gli scali ferroviari. La corsa al posizionamento nel mercato globale degli investimenti si è verificata in questo contesto. I “vuoti urbani” diventano opportunità e “spazi dalla forte potenzialità” per generare sviluppo e attrarre risorse. Ci tengo a precisare che uso la locuzione “vuoti urbani” perché viene spesso impiegata per indicare la necessità di riempire queste aree di nuove funzioni come quelle legate al terziario, quindi uffici e spazi commerciali, e al residenziale.
Anche dietro l’espressione “spazi dalla forte potenzialità” si nasconde un tentativo di tipo discorsivo di aumentare la reputazione e l’appeal delle aree oggetto di trasformazione. Queste espressioni hanno a che vedere con la creazione di aspettative sul loro valore futuro. Quando non sono più funzionali all’economia possiedono un valore intrinseco dato, per esempio, dalla posizione all’interno dei territori metropolitani. Queste aree, grazie alla trasformazione urbana, quindi attraverso l’infrastrutturazione e l’aumento dell’accessibilità, oppure anche con una loro rifunzionalizzazione, possono incrementare il proprio valore nel tempo consentendo ampi margini di guadagno e di ritorno di investimento.
Ci può fare un esempio concreto?
A Bruxelles, la città in cui vivo e in cui porto avanti la mia ricerca, si sta tentando da anni di creare le condizioni favorevoli alla trasformazione dell’area del Canale. Si tratta di uno spazio molto interessante perché attraversa il territorio della capitale per 14 chilometri e perché lì, in passato si sono concentrate le principali attività industriali. Dal punto di vista fondiario è composta da circa 313 ettari di suolo pubblico e questo ci dimostra che ci sono sia interessi privati, perché sono coinvolti operatori immobiliari, sia interessi pubblici che nel caso di Bruxelles vanno dal governo regionale a quelli municipali.
Inoltre il Canale è sempre stato considerato una sorta di barriera naturale, un limite tra i comuni centrali e orientali, indirizzati al turismo e alle attività commerciali, come per esempio la Ville de Bruxelles, e ai servizi amministrativi, come a Ixelles o Etterbeek, e quelli occidentali che sono oggetto di forte stigmatizzazione per l’alta concentrazione di cittadini dal background migratorio o di famiglie che vivono in condizioni di vulnerabilità. Nel Piano regionale di sviluppo sostenibile del 2018, un documento strategico il cui obiettivo è quello di delineare le direttrici future di sviluppo del territorio, l’area del Canale viene identificata come uno spazio di potenziale la cui trasformazione può contribuire a ridurre le disuguaglianze interne. Ma come si è agito nel concreto? Il processo è stato lungo e complesso.
Oggi l’area del Canale è probabilmente la più interessante per investitori domestici e internazionali, che in quel luogo stanno sviluppando una serie di progetti residenziali e a uso misto. Il suo potenziale si è creato nel tempo anche a partire da investimenti pubblici. Anche se non sono stati al centro delle mie ricerche, farò alcuni esempi di questi investimenti dei quali ho dovuto tener conto per capire il contesto. Prima si è agito con i Contratti di quartiere, che di solito sono finanziati dalla regione di Bruxelles capitale, finalizzati a riqualificare il patrimonio abitativo e lo spazio pubblico. Poi si è proseguiti con i progetti d’area per introdurre residenzialità nelle zone che un tempo ospitavano funzioni industriali. E ancora: i fondi federali ed europei sono stati utilizzati per migliorare le infrastrutture. Infine, una serie di progetti di rigenerazione a guida privata hanno contribuito a trasformare ampie porzioni di territorio.
Io ho studiato l’area di Tour & Taxis che un tempo era un importante nodo logistico e infrastrutturale e oggi è un distretto urbano innovativo, spesso brandizzato come simbolo della rinascita dell’area del Canale. Partendo da questo esempio mi piacerebbe poi problematizzare alcuni aspetti, tra i quali per esempio come cambia il governo del territorio e chi si appropria del potenziale che viene prodotto. Per il momento però torno alla domanda iniziale, possiamo dire che i grandi progetti sono considerati strumenti centrali di quei modelli di crescita di tipo imprenditoriale finalizzati a posizionare le città nel mercato degli investimenti. C’è un ultimo aspetto da sottolineare in merito al ruolo centrale della rigenerazione urbana che riguarda il fatto che questi grandi progetti hanno anche un forte significato simbolico, in quanto sono spesso progettati da architetti di fama internazionale e i loro edifici iconici diventano delle vere e proprie cartoline. Basta cercare su Google la parola Milano e al fianco delle immagini del Duomo e della Madonnina appaiono quelle del nuovo skyline, con il Bosco verticale a Porta Nuova o le tre torri di Citylife.
La sua attenzione si è concentrata sia su città italiane sia su quelle europee. Cosa ha osservato?
Nel corso dei miei studi ho approfondito Milano e Bruxelles e ora sto lavorando anche su Dublino, anche se quest’ultima per me è ancora da scoprire. Vorrei parlare però anche di casi che ho studiato in letteratura per preparare le mie ricerche. Prima di tutto è importante sottolineare che i grandi progetti non sono presenti solo nelle città considerate globali e internazionali come Londra, Parigi, Milano o Bruxelles, che hanno un mercato immobiliare maturo o in crescita, ma sono presenti anche in città secondarie, inteso nel senso della posizione che occupano sullo scacchiere internazionale.
Tra questi rientra il caso di Bilbao, molto interessante perché negli anni novanta si trovava in una posizione di forte debolezza economica, complice la dismissione delle industrie siderurgiche e di quelle navali con una conseguente impennata della disoccupazione che toccò picchi del 25 per cento. La strategia governativa attuata per uscire da questa condizione fu quella di attrarre un’istituzione culturale e di utilizzare la leva della rigenerazione e del turismo. Nel 1997 venne inaugurato il Guggenheim Museum, progettato da un’archistar di fama internazionale come Frank O. Gehry. Questo ha portato a una serie di effetti a cascata, come la trasformazione di ampie aree urbane lungo il fiume e la costruzione di strutture alberghiere, concert hall, musei e centri congressi.
Bilbao era diventata un modello, tanto che in quegli anni si inizia a parlare di “effetto Bilbao”. C’è un articolo del 2004 della ricercatrice Sara González che racconta come la città fosse diventata meta di architetti, urbanisti e accademici che la visitavano per studiare i segreti del modello per poi eventualmente applicarlo anche in altri contesti. Ma i contesti cambiano e le stesse ricette non sono applicabili a tutte le realtà.
Questo è un aspetto importante che numerosi ricercatori hanno studiato utilizzando le lenti della policy mobility, un processo attraverso cui le politiche si muovono da un luogo a un altro in un contesto di crescente globalizzazione delle pratiche con una scarsa attenzione alle caratteristiche dei luoghi in cui atterrano. Alcuni di questi progetti diventano delle vere e proprie best practice alle quali i developer (come vengono chiamati gli sviluppatori di progetti immobiliari, ndr) si ispirano. Un esempio è il progetto di King’s Cross a Londra, annoverato tra le best practice dello Urban Land Institute, che è forse la più importante organizzazione che riunisce professionisti ed esperti del mercato immobiliare, perché coniugava perfettamente le nuove funzioni al patrimonio storico e architettonico. King’s Cross è poi stato usato come modello per la strategia di marketing di Tour & Taxis a Bruxelles.
In questo quadro, il turismo e i grandi eventi che ruolo giocano?
In Europa questi progetti sono connessi al rilancio del settore turistico, come a Bilbao, ma anche all’organizzazione di grandi eventi, come è avvenuto con l’Expo 2015 a Milano e come avverrà in vista delle Olimpiadi Invernali del 2026. Altro esempio fuori dai confini nazionali è la nomina di Marsiglia a Capitale europea della cultura nel 2013, con la rigenerazione dell’area del Vieux Port (il porto vecchio, ndr) e dei quartieri limitrofi che ne è seguita. Questi esempi ci mostrano il legame stretto che c’è tra la rigenerazione urbana e l’attrattività turistica ma anche il ruolo che hanno gli investimenti pubblici nel creare quel potenziale di cui parlavamo prima che viene spesso catturato dagli attori di mercato.
Per chiudere vorrei citare il libro del ricercatore francese Antoine Guironnet, “Au marché des metropoles”, che tradotto significa “Al mercato delle metropoli”, nel quale analizza il Mipim, il convegno internazionale dell’immobiliare che si tiene ogni anno a Cannes, al quale aderiscono sia i decisori pubblici sia gli attori del mercato immobiliare e gli investitori. Secondo Guironnet, il Mipim è una sorta di palcoscenico, una vetrina in cui i rappresentanti delle istituzioni e quelli del mondo imprenditoriale ed economico espongono i progetti che riguardano i propri territori e gli spazi da trasformare al fine di intercettare investimenti.
Anche se durante la conferenza non si raggiungono dei veri e propri accordi, quello è il contesto in cui si crea una connessione tra la scala globale e quella locale, si creano reputazione e relazioni, si identificano le best practice, nel tentativo di aprire la possibilità di un incontro tra le opportunità locali e gli interessi immobiliari. Guironnet ha non solo osservato un ampliamento della portata geografica degli attori e delle città che partecipano al Mipim ma anche un’evoluzione dei segmenti dell’immobiliare che sono interessanti per i partecipanti al convegno: si è passati dalla logistica, all’ospitalità, all’affordable housing ma anche alle soluzioni abitative per studenti e popolazioni temporanee.
Le trasformazioni urbane di larga scala coinvolgono spesso grandi attori finanziari globali di fronte ai quali le amministrazioni locali, sempre più forti dal punto di vista della governance ma con sempre meno risorse a disposizione, appaiono spesso subalterne. Quali rapporti di forza ha osservato e qual è il ruolo della pianificazione pubblica nei processi di rigenerazione urbana?
Le amministrazioni locali hanno un ruolo importante nella trasformazione dei loro territori. Per comprendere i rapporti di forza bisogna fare un passo indietro e ragionare su quali sono le risorse che determinano gli equilibri o gli squilibri di potere. Questo aspetto ci consente di riflettere anche sugli esiti dei processi. Per la mia ricerca mi è stato utile fare riferimento all’urban political economy e in particolare alla tradizione dello urban regime theory perché mi ha offerto uno schema di analisi che guarda sia alle risorse tangibili, quindi al capitale finanziario e alla proprietà del suolo, sia a quelle intangibili, quali l’expertise tecnico-finanziaria e la capacità organizzativa. Partendo da questo schema, si potrebbe pensare che i rapporti di forza spesso non sono in equilibrio e vanno a favore degli attori privati. In realtà la situazione è molto più complessa.
In Europa abbiamo osservato il tentativo degli attori pubblici di equipaggiarsi con nuove competenze e capacità organizzative. In molti contesti si è fatto ricorso ad agenzie per lo sviluppo che svolgono attività dirette alla promozione del territorio, che gestiscono la trasformazione delle aree e favoriscono la concertazione tra attori diversi. La pianificazione e la competenza in materia fiscale sono ancora una risorsa rilevante per le amministrazioni locali. Il problema è che spesso queste si trovano in una condizione di limitata autonomia fiscale e in alcuni casi usano proprio la leva della rigenerazione per fare cassa.
Nel corso della mia ricerca ho parlato con alcuni rappresentanti locali che sono stati molto espliciti su questo punto. In Belgio, in passato, c’è stato un forte esodo della classe media verso le aree suburbane e questo ha diminuito il prelievo fiscale. Ora, in nome della mixité, si sta cercando di attrarre la classe media e quella creativa con interventi pubblici e privati di trasformazione urbana, facendo, e qui cito le parole dell’intervistato, “gentrificazione attiva” con effetti critici nei quartieri abitati da nuclei familiari più vulnerabili. Il problema è che i grandi investitori internazionali sono molto mobili e quando decidono di investire in un contesto lo fanno perché ci sono le condizioni affinché sia redditizio. Se queste condizioni mancano si spostano dove trovano i vantaggi localizzativi più convenienti.
Quindi, tornando al ruolo della pianificazione urbana, in Europa abbiamo assistito da un lato ai cosiddetti progetti d’area e dall’altro a una generale flessibilizzazione degli strumenti. I primi sono piani urbanistici che disciplinano il consumo di suolo su porzioni limitate di territorio, quindi senza una visione di insieme. Questi piani sono flessibili, nel senso che sono aperti a una negoziazione nel tempo. I grandi progetti sono complesse operazioni immobiliari e finanziarie il cui sviluppo avviene in un arco temporale lungo. La pianificazione punta a semplificare le procedure ma anche ad agevolare i processi che spesso dipendono da calcoli legati alla gestione dei rischi finanziari. In questo scenario c’è una questione di fondo che riguarda proprio la capacità di catturare il valore prodotto e di redistribuirlo perché il rischio è che questo modo di operare porti a una concentrazione eccessiva.
Uno degli obiettivi delle politiche di coesione europea è quello di ridurre il divario economico e sociale tra diverse aree geografiche d'Europa. Stando a ciò che ha studiato, la competitività urbana ha aumentato le disuguaglianze all'interno delle città o dei territori che ha allo stesso tempo spinto verso la crescita economica? E in che modo?
Vorrei citare il lavoro di Federico Savini e di Manuel Aalbers che sostengono che la pianificazione e, in generale, il governo del territorio si sono decontestualizzati, cioè si sono staccati dai territori per ancorarsi a logiche globali.Quindi, lo spazio urbano prodotto è sempre più orientato a intercettare la domanda globale di investimenti, di spazi di consumo e residenziali. In questo quadro il tema delle disuguaglianze è cruciale, sia all’interno dei territori competitivi, ma anche tra i territori competitivi e quelli meno attrattivi.
La questione abitativa è una dimensione centrale per riflettere sul tema delle disuguaglianze. In tutte le capitali europee, ma anche in alcune città universitarie, c’è un grosso problema abitativo perché queste città continuano ad attrarre studenti, digital nomads, tirocinanti, che si trasferiscono in questi centri sia per l’offerta formativa ma anche per una serie di servizi legati al leisure o alle attività culturali. La conversione del patrimonio abitativo in locazioni turistiche aumenta la pressione sul mercato residenziale in affitto. Inoltre, l’offerta commerciale si fa sempre più orientata a intercettare una domanda di persone che, generalmente, hanno un potere di acquisto più alto. A questo possiamo aggiungere che la produzione di case viene spesso delegata al privato.
Il tema delle disuguaglianze, tuttavia, non si manifesta solo all’interno dei territori competitivi, ma anche tra questi e quelli esclusi dall’accesso alle risorse in quanto considerati poco attrattivi. Un tema centrale in Italia dove sono molti di più i centri piccoli e medi mentre le città attrattive sono un’eccezione.
Secondo lei per gli attori pubblici poter disporre dei fondi della politica di coesione Ue per sviluppare progetti di rigenerazione urbana su scala locale e iper locale li rende in grado di rispondere alle esigenze delle fasce più deboli della popolazione, anche in contesti dominati da grandi attori finanziari?
Prima ci siamo concentrati sul ruolo degli attori di governo che spesso si trovano in una condizione di limitata autonomia fiscale. In questo senso i fondi possono rappresentare una risorsa per sviluppare progetti di rigenerazione urbana su scala locale e ultra-locale e per riequilibrare il ruolo degli operatori privati. In generale, i fondi possono funzionare, ma dipende dalla volontà della politica di ragionare in un’ottica sistemica. Bisogna pensare a strategie di lungo periodo, che siano realmente attente alle necessità dei territori e degli abitanti. La chiave è la redistribuzione di quell’incremento di valore attraverso, ad esempio, la dotazione di servizi e l’infrastrutturazione. Per invertire la tendenza, l’azione di governo deve ancorarsi ai territori.
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