I mercanti (delle soluzioni) di Venezia
Ticket d’accesso e Smart Control Room sono soluzioni contro l’iperturismo?
Il problema è l’iperturismo? O lo spopolamento? Oppure sono i soldi?
Venezia è unica.
Questa affermazione è una percezione condivisa da molte persone: studiosi, artisti, viaggiatori che nel corso dei secoli hanno visitato o studiato la città la pensano così. Il centro storico è costruito su più di cento isole che sono collegate tra loro da 438 ponti e tra le quali passano 176 canali: questi numeri variano a seconda delle fonti, e anche questo fa parte dell’unicità della città. Se la guardi su una mappa dall’alto Venezia sembra un pesce; non ha un mito fondativo ma ha un passato storico carico di fascino; Venezia popola racconti e immaginari romantici, fantasie e sogni; Venezia è unica anche perché ci sono un sacco di città nel mondo che vengono definite per la loro similitudine con Venezia: la Venezia del nord è un soprannome condiviso almeno da cinque città: Stoccolma, Amburgo, Bruges, Amsterdam, San Pietroburgo). Venezia è unica perché ha avuto una sua Legge speciale che ha portato circa 11 miliardi di euro. Venezia è unica perché è collegata alla terraferma da un ponte che prima non c’era.
È stato immaginato la prima volta nel 1820, poi realizzato nel 1846: originariamente era solo un ponte ferroviario. Durante il fascismo venne reso percorribile anche dalle automobili e fu chiamato Ponte Littorio. Oggi si chiama Ponte della Libertà. Venezia è unica perché la maggior parte delle persone che ci va non sa che anche la terraferma è Venezia. Venezia è unica perché la sua unicità è anche un’ottima operazione di marketing che Venezia e i veneziani – o, perlomeno, alcuni veneziani – hanno portato avanti da molto tempo. Venezia è unica è anche lo slogan del sito ufficiale per l’informazione e l’accoglienza turistica della città.
Se ci pensiamo bene, quando definiamo Venezia lo facciamo dal punto di vista dell’altro-da-Venezia: il nostro è uno sguardo coloniale sulla città. E in effetti le grandi assenti dal racconto su Venezia sembrano essere proprio le persone che abitano la città. Non quelle che la visitano, non quelle che ne consumano le attrazioni o gli eventi o gli spritz con il Select, ma le persone che ci risiedono e ci vivon.
Sembra non importare poi molto, quando si parla di Venezia, perché tanto tutti conoscono Venezia. Tutti vorrebbero andare a Venezia, tutti vogliono portarsi a casa un pezzetto di Venezia, un vetro di Murano, un giro in gondola, vedere piazza San Marco con l’acqua alta o fare in questa città unica una qualche altra esperienza, quanto più autentica possibile, qualunque cosa significhi “autentica”. Non solo: tutti vogliono salvare Venezia. Quel senso di fragilità che trasmette la città vista da fuori suscita da qualche secolo un afflato di protezione. Ma da cosa vogliono salvarla, esattamente?
Quando si cerca una soluzione c’è bisogno di capire bene qual è il problema. Ammesso che se ne possa individuare uno solo, isolarlo dal contesto e poi provare a risolverlo. Così, bisogna chiedersi: qual è, davvero, il problema di Venezia? È l’acqua alta? È il fatto che “affonda sotto il peso dei turisti” ed è, dunque, il cosiddetto overtourism? È il fatto che il suo patrimonio artistico è a rischio? È un insieme di tutti questi problemi? Oppure il suo problema è lo spopolamento?
La popolazione della città “antica”, o meglio, della “città d’acqua”, infatti, è in costante diminuzione.
Nel 2023 si è superata, in negativo, la soglia psicologica dei 50 mila abitanti. Quando divennero 49.999, fece notizia la foto del cartello con quel numero portato in manifestazione. Oggi lo stesso cartello si vede appeso a pochi passi da Il Santo Bevitore, un pub dove puoi ancora incontrare dei residenti veneziani e bere una birra insieme a loro.
Il confronto con la serie storica della porzione di territorio veneziano sulla terraferma (Venezia Mestre) è significativo: mentre la popolazione nel centro storico diminuisce, quella sulla terraferma aumenta fino al 1976 per poi stabilizzarsi, in sostanza, intorno alle 170mila unità.
Quando una città comincia a spopolarsi, quel che succede è simile a una spirale che sembra inarrestabile: se ci sono meno persone ci saranno meno servizi. È esattamente quello che sta succedendo a Venezia. Ma non dal 1997. Da qualche decennio. Per la precisione, dal 1950.
Se pensiamo che effettivamente questo sia un problema, allora dovremmo provare a individuarne le cause e trovare altri fenomeni a cui è collegato.
Ragionando in termini di capacità di accoglienza di un territorio circoscritto e ambito dai visitatori come quello della laguna veneziana diventa abbastanza evidente che il tema dell’abitare e quello del turismo si relazionino fra loro, al punto da far diventare i turisti dei concorrenti per i residenti: competono per lo spazio che si può occupare in città.
In una delle vetrine della Libreria MarcoPolo, nel quartiere Dorsoduro, c’è un led che indica il numero dei posti letto per turisti: sono più di cinquantamila. Significa che a Venezia ci sono più posti letto per turisti che residenti. Il dato è preso dal geoportale del Comune di Venezia, finanziato con fondi strutturali dell’Unione Europea.
Nella libreria ci sono molti libri di una casa editrice veneziana che si chiama wetlands. Uno di questi si intitola Il giocattolo del mondo. Il libro è del 2021. Lo ha scritto Robert C. Davis, professore emerito di storia italiana alla Ohio State University. Specializzato nella storia del Mediterraneo premoderno e nel Rinascimento italiano, da più di trent’anni Davis studia la storia sociale di Venezia. Nel 2004 aveva pubblicato uno studio intitolato Venice, the tourist maze, scritto in collaborazione con l’antropologo Garry R. Marvin. Il giocattolo del mondo è l’evoluzione di quello studio.
Davis racconta che il rapporto fra Venezia e gli stranieri da ospitare per qualche ragione inizia molto presto: già nel 1200 i pellegrini che volevano andare in Terrasanta si fermavano a Venezia e a volte ci restavano per giorni, settimane, anche mesi prima di partire: qualcosa poteva andare storto, il mare poteva non essere a favore oppure i capitani delle navi potevano essere d’accordo con locandieri e altri veneziani che avevano interesse a trattenere queste persone per ragioni economiche. In questo periodo storico accadono cose peculiari. Il ponte con la terraferma non esisteva. Venezia si raggiungeva solo dal mare. L’effetto scenico doveva essere impressionante. I letterati dell’epoca iniziarono a scrivere resoconti di viaggio. Per evitare che gli approfittatori truffassero i pellegrini e questo danneggiasse la città, vennero inventate e istituzionalizzate quelle che oggi chiamiamo guide turistiche: dovevano avere una licenza, lavorare in coppia, parlare almeno due lingue straniere, dimostrare di conoscere la città e la sua storia. Si chiamavano tolomazi e vennero istituzionalizzati nel 1229 dal Senato. Le licenze venivano rilasciate in numero limitato.
Il lavoro dei tolomazi era legato anche alla fornitura di un alloggio: c’erano venti osterie pubbliche, che offrivano posti letto per circa 800 persone.
Già a metà del 1500 la domanda di alloggi superava la disponibilità ricettiva delle osterie che avevano l’autorizzazione a operare. Ma i privati si erano dati da fare: nel 1530 le autorità veneziane si lamentavano che “vi sono tra 5000 e 6000 case che ospitano stranieri, una cosa che appare incredibile, ma in verità sono in grande numero e si moltiplicano ogni giorno”. Forse era un’esagerazione, ma c’è un documento ufficiale del 1780 che sembrerebbe dar ragione a queste cifre, censendo quaranta osterie ufficiali e quasi duemila privati che offrivano stanze.
Se i viaggi dei pellegrini erano finiti, infatti, era arrivato il Grand Tour: i ricchi rampolli europei, visitavano Venezia nel loro percorso di accrescimento personale, spinti dai vari resoconti e da quell’idea che Venezia fosse e fosse sempre stata unica e da vedere. I veneziani si diedero da fare: nel 1600 Venezia era già “ben rifornita di hotel, guide, mense, gondole a noleggio e case di tolleranza”.
Insomma, “I veneziani sono storicamente legati al turismo in modo intimo, forse più intimo di chiunque altro”, dice il professor Davis. In effetti, sin dal Medioevo hanno sviluppato un rapporto unico con i visitatori, un legame difficile se non impossibile da spezzare, che oggi si è trasformato in una dinamica più complessa e problematica, in scala, a causa del turismo di massa così come lo conosciamo.
Se guardiamo i dati recenti relativi al turismo vediamo che si passa da 3,71 milioni di turisti nel 2010 a 4,5 milioni di arrtnel 2013, fino a 5,7 milioni nel 2019. Un incremento del 50% in nove anni. Poi c’è stato il Covid: nel 2020 solamente 1,3 milioni persone hanno raggiunto Venezia per visitarla (a causa delle restrizioni e nonostante le restrizioni). Nel 2023, però, si è toccato nuovamente il picco: 5,7 milioni di turisti. E il 2024 sembra in linea con la crescita ante-covid.
Questo numero di visitatori fa sì che ci sia un’offerta di posti letto sempre più importante. Se non consideriamo gli hotel, ci sono almeno 10.883 locazioni brevi attive su piattaforme come Airbnb, oggi. Quasi due terzi (il 64%) dei posti letto dell’offerta ricettiva di Venezia – Murano – Burano è in strutture non alberghiere: locazioni turistiche, ostelli, case religiose, bed and breakfast e simili. La maggioranza di queste (78%) sono case o appartamenti. Stanze private (21%) o condivise (una percentuale minima) completano l’offerta. Il 56% delle offerte ha un letto (singolo o matrimoniale); il 31% ne ha due, il 3% ne ha tre.
Le reazioni a questo fenomeno delle persone residenti o che a Venezia vivono temporaneamente per varie ragioni – come gli studenti – sono di esasperazione e fastidio. “La mia ragazza viveva a Venezia”, ci racconta Mattia, giornalista, “e quando andavo a trovarla, letteralmente, spingeva via quelle che chiamava le mandrie di turisti”.
“Signora! Si tolga. Insomma!”, grida malamente una ragazza che lavora su uno dei vaporetti attivi come mezzo di trasporto pubblico nella città. La signora in questione è una turista che si sta scattando un selfie, incurante del fatto che le persone devono scendere e salire alla fermata. Scene di questo tipo sono all’ordine del giorno.
Venezia non è Disneyland è il nome di un account su Instagram che ha più di 126mila follower e che propone le cose più fastidiose che fanno i turisti a Venezia, trovando spesso grande riscontro fra le persone che non vedono l’ora di biasimare i comportamenti negativi degli altri.
Ma anche questo fenomeno andrebbe messo in prospettiva storica: i veneziani si sono sempre lamentati di come si comportano i visitatori, soprattutto gli stranieri (ma non solo). Davis ricorda che questo fastidio ha radici secolari e inizia proprio quando iniziano le visite di massa, quando arrivano i pellegrini, quando arrivano gli stranieri, quando gli stranieri vogliono proporre soluzioni per salvare la Venezia che vedono loro e che amano loro. E c’è il rischio concreto che il biasimo diventi fastidio per alcuni tipi di turisti. Quelli che non sono alto-spendenti. Il rapporto ambivalente tra i cittadini e i visitatori di Venezia è radicato nel tempo e ha creato il substrato perfetto per il vero problema.
Il Lido è diverso dal resto di Venezia, a cominciare dal fatto che ci sono le automobili.
Abbiamo appuntamento – pochi giorni prima dell’inizio della Mostra del Cinema, uno dei tanti eventi che Venezia ospita – con Clara Zanardi, che lavora per la casa editrice wetlands, e con Paola Somma, architetto e urbanista, autrice di Non è città per poveri, altro libro dal titolo particolarmente riuscito e fondamentale per comprendere le dinamiche di cui stiamo parlando.
“Sono un’antropologa urbana”, ci racconta Zanardi, “e abito a Venezia da più o meno quindici anni. Mi occupo di raccontare e studiare la storia e la società veneziana. Con un gruppo di persone, ho fondato con un gruppo di persone una casa editrice che si chiama wetlands e che ha come obiettivo proprio quello di diffondere delle narrazioni diverse, più approfondite, più contestualizzate di della Venezia contemporanea e della Venezia del passato”.
Le dinamiche del presente e quelle del passato sembrano simili, come ci ha spiegato Davis. “Ma la presenza di una piattaforma come Airbnb”, dice Zanardi, “ha accelerato e ampliato la scala del fenomeno”.
Manca un dato, in effetti, fra quelli che abbiamo considerato. Quello dei soldi. Se proviamo a calcolare sul portale AIRDna il potenziale di guadagno a Venezia di un appartamento con un letto matrimoniale e un bagno per due ospiti, la stima è di un tasso di occupazione del 71% nell’anno (cioè, più o meno 259 giorni occupati), con una rendita annua stimata in 51.300 euro lordi. Che, con la cedolare secca – se affitti un solo appartamento in locazione breve è pari al 21%, se ne affitti più d’uno diventa pari al 26% – e tolte le spese di gestione – garantisce circa 31mila euro netti l’anno.
“La piattaforma Airbnb”, continua Zanardi, “ha portato proprio il turista in ogni luogo della città. Ha messo sul mercato gran parte del patrimonio abitativo veneziano e l’ha fatto con una forza dirompente che è quella della differenza di reddito che garantisce. Affittare con affitto breve a Venezia un appartamento permette di avere un ritorno sull’investimento che non ha eguali. Quindi oggi è l’investimento più sensato che che puoi fare è questa ha creato un’economia della rendita. Di fatto la diffusione di Airbnb ha consentito una propagazione per tutte le classi sociali e per tutta la cittadinanza veneziana di una dipendenza da rendite su proprietà immobiliari: Airbnb rende tutto molto più facile è molto più comune”.
Questo significa una cosa sola: se hai una proprietà immobiliare a Venezia ti conviene, semplicemente, affittarla a breve termine, non a una persona residente o per un’attività. Il che comporta erosione progressiva di spazi per le persone che a Venezia risiedono. Ecco perché il problema residenziale e quello del turismo sono connessi.
E hanno un nome ben preciso: i soldi. Perché, dice Paola Somma, “C’è stato un esodo selettivo. Dopo il 1950, quando la città aveva 150mila abitanti, è iniziata la diminuzione progressiva. Non è che, statisticamente, andasse via il 10% di popolazione di ogni gruppo, di ogni classe”.
Andavano via solo gruppi di determinati cittadini. I poveri.
Questa inchiesta a puntate è stata prodotta grazie al supporto di Journalism Fund Europe.
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Soluzioni per contrastare lo spopolamento
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