La guerra delle zanzare mutanti del Burkina Faso
Zanzare geneticamente modificate e geneticamente migliorate sono un pezzo della strategia del Burkina Faso per combattere la malaria.
La legalizzazione della cannabis è, per l’Africa, un’importante opportunità economica.
È possibile fare, e parlare, di ricerca scientifica in Africa? Decisamente sì. Senza stereotipi.
C’è un motto che, come un fumoso mantra, viene ripetuto da diversi mesi in diverse nazioni dell’Africa australe: «Legalize it!»
Martedì 18 settembre 2018 la Corte costituzionale del Sudafrica ha emesso una sentenza che, di fatto, ha aperto la strada alla liberalizzazione della coltivazione, del possesso e del consumo di dagga, la cannabis. Qualsiasi uso se ne faccia. La questione era stata sollevata in tre diversi procedimenti penali istituiti presso l’Alta Corte di Giustizia sudafricana: in tutti e tre i casi il tribunale aveva dichiarato che la legislazione che criminalizza l’uso, il possesso e l’acquisto di cannabis violava la Costituzione. In sostanza la giustizia sudafricana ha ravvisato una sostanziale violazione della privacy dei cittadini nella misura in cui l’uso, il possesso, l’acquisto e la coltivazione di cannabis avvengano in un’abitazione privata da parte di un adulto che ne fa uso personale.
Il governo locale si è appellato contro questa decisione ma ha anche sottolineato che se la Corte Costituzionale gli avesse dato torto la violazione della privacy non sarebbe circoscrivibile unicamente alle abitazioni private ma all’intera vita dei cittadini sudafricani perché il diritto alla privacy non finisce sull’uscio della proprietà privata. Questo non significa che “la cannabis in Sudafrica è ora libera” ma che la strada è segnata: il Parlamento sudafricano dovrà ora pronunciarsi e correggere i difetti costituzionali della legge sulle droghe ma fino a quando non lo farà – la Corte ha dato due anni di tempo – il buco legislativo creatosi permetterà a tutti gli adulti di coltivare, detenere o assumere cannabis. Questo non significa nemmeno che la polizia non potrà arrestare qualcuno trovatone in possesso: il poliziotto farà la sua valutazione ma sarà il giudice di prima istanza a decidere se il soggetto ne faceva uso personale o era pronto per venderla.
In realtà in Sudafrica, il 21 maggio scorso, ha aperto il primo dispensario di cannabis medica dell’intero continente: si trova a Durban ed è aperto solo ai cittadini sudafricani affetti da determinate patologie, cui viene prescritta l’assunzione di cannabis medica da parte di uno specialista.
Il caso del Sudafrica non è isolato e la strada che l’Africa sta intraprendendo in materia è certamente virtuosa. Il primo paese a legalizzare la cannabis e i suoi molteplici usi, in questo caso con una legge emanata dal governo, è stato il piccolo Lesotho: si tratta di un micro-regno di appena 2,1 milioni di abitanti, enclave proprio del Sudafrica, dove il 40% della popolazione vive con meno di 1 dollaro al giorno e dove la matekoane, come è chiamata la cannabis in lingua Sesotho, cresce letteralmente dappertutto. L’uso dell’erba in questo piccolo paese è parte integrante della cultura locale, nel XVI secolo veniva utilizzata come merce di scambio tra i Koena e i San per accordarsi sulle terre da occupare, e nel 2017 il Lesotho è diventata la prima nazione africana ad aprire alla possibilità di coltivare cannabis per uso medico.
In meno di un anno sono nate ben 5 aziende e il mercato è letteralmente esploso anche in termini di esportazione: quello della cannabis medica è un settore che sta letteralmente salvando l’economia del Lesotho, senza sbocchi sul mare e privo di risorse naturali. La prima azienda a raccogliere la sfida è stata la Verve Dynamics, sudafricana al 70% e canadese per il 30%, mentre altri investitori stranieri si sono gettati a capofitto in questo business investendo somme importanti: Supreme Cannabis, azienda canadese con sede a Toronto, ha investito 7,7 milioni di dollari per l’acquisizione di appena il 10% di Medigrow Lesotho, cifra che restituisce bene la misura delle grandi possibilità che questo settore offre sia agli investitori che alle casse del piccolo regno. Le tre aziende 100% straniere presenti sono una americana, una inglese e una canadese, paese quest’ultimo dal quale l’Italia si rifornisce di cannabis medica. Verve Dynamics, per comprendere la vastità e le linee di questo tipo di commercio, produce cannabis medica e industriale, prima esportata in Canada e poi importata in Italia.
Per anni il governo del Lesotho ha semplicemente chiuso un occhio, spesso anche due, nei confronti del mercato nero dell’erba – sia per uso medico che ricreativo – e la legalizzazione della cannabis medica rappresenta semplicemente la volontà di far fruttare un prodotto tipico locale fino ad oggi commerciato nell’oscurità. Il 70% della cannabis prodotta in Lesotho finiva, per ovvie ragioni geografiche, in Sudafrica e se il Parlamento sudafricano dovesse cogliere l’opportunità concessa dall’Alta Corte il mercato nero non farebbe altro, semplicemente, emergere.
C’è poi anche il caso dello Zimbabwe, altrettanto interessante. Fino a maggio il possesso, la coltivazione e l’uso di mbanje, il termine in lingua Shona per la cannabis, era punito con 12 anni di reclusione ma la “seconda Repubblica”, come il nuovo governo definisce lo Zimbabwe post-Mugabe, deve distinguersi dall’Era precedente e soprattutto attirare investimenti e capitali stranieri. Il governo di Harare ha così deciso di aprire anch’esso all’industria della cannabis medica: sul mercato nero la mbanje ha un prezzo che al dettaglio oscilla tra i 50 centesimi e il dollaro al grammo e la prima idea del governo per battere cassa al settore della cannabis riguarda le licenze. Avviare un’industria di produzione di cannabis medica in Zimbabwe costa attualmente ben 50.000 dollari ogni cinque anni, un costo che per ora ha scoraggiato gli investitori stranieri del settore e che in un certo senso rappresenta l’immaturità dell’amministrazione locale nella capacità di attirare capitali stranieri.
Ma questo non significa che non ci sia un grande interesse nel rivedere le politiche sulle licenze e, in generale, le politiche sulle droghe: chi scrive ha partecipato alla prima riunione del comitato interministeriale del nuovo governo dello Zimbabwe, ZIC/OSSIC (Zimbabwe Investment Center / One Stop Shop Investment Centre), guidato da Petina Gappah, avvocato e scrittrice di fama mondiale rientrata nel Paese dopo un esilio di fatto durato quasi un ventennio. La riunione si è tenuta ad Harare lo scorso 13 settembre: il primo scambio di opinioni che ho avuto con Gappah ha riguardato proprio la cannabis medica.
«È un settore sul quale vogliamo puntare moltissimo» mi ha spiegato Gappah «sia guardando al mercato interno che alle possibilità di esportazione». Sicuramente, è l’opinione di chi scrive, le opportunità sono enormi: «L’idea è quella di creare una filiera di cannabis medica selezionando sementi locali e arrivando, nel giro di un anno, a commercializzare un prodotto di altissima qualità, pronto per l’esportazione verso l’Unione Europea». Quando ho spiegato che, attualmente, in Italia la cannabis medica è prodotta dall’Esercito nello stabilimento farmaceutico-militare di Firenze e che la produzione interna basta a coprire appena due mesi su dodici Gappah ha mostrato grande interesse. Quando ho spiegato che il Bedrocan, il principale farmaco a base di infiorescenze di cannabis in vendita in Europa, prodotto in Olanda, ha un costo in farmacia che in Italia arriva anche a 35/40 euro al grammo l’intero comitato ha cominciato ad eccitarsi. La stessa Gappah appariva elettrica all’idea di poter avviare un commercio intercontinentale su un prodotto che, nelle più rosee ambizioni delle autorità zimbabweane, localmente non supererebbe i 2 dollari al grammo, intesi come costi lordi di produzione in loco.
La questione, dicevamo, riguarda due aspetti fondamentali per un trading di sostanze così delicate e per uso sanitario: l’immaturità dell’amministrazione locale e l’assenza assoluta di know-how in materia di cannabis medica. Aspetti che, tuttavia, sono facilmente superabili affidandosi ai professionisti del settore. I membri dello ZIC/OSSIC erano convinti che la vastità delle terre dell’ex “granaio d’Africa”, così veniva chiamato lo Zimbabwe dei tempi d’oro nel settore agricolo, fosse per loro la principale garanzia di attrazione di investitori stranieri nel settore della cannabis medica e non è stato semplice far inquadrare il problema dalla giusta prospettiva, ovvero che la rigidità dei protocolli medico-sanitari e farmacologici europei (e italiani) impediscono la coltivazione di cannabis medica in terra, molto semplicemente perché sarebbe troppo soggetta sia al clima che alle contaminazioni. La cannabis medica – se la volontà è venderla in Europa – va prodotta in serra, in ambienti protetti e controllati, e questo implica necessariamente il superamento della logica economica delle licenze, carissime e scoraggianti.
Va tuttavia sottolineato, e forse premiato, lo slancio positivo che lo Zimbabwe sta attuando per aprirsi al mondo: la cannabis medica rappresenta solo un simbolo ma è un simbolo di speranza, anzitutto per i milioni di malati in tutto il mondo che grazie alla cannabis non curano ma alleviano e attenuano l’incidenza di patologie come la SLA, il glaucoma, l’asma e diverse tipologie di cancro.
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