Ep. 03

Il cotone OGM in Burkina Faso

L’industria del cotone del Burkina Faso vuole sfruttare l’innovazione scientifica per produrre cotone migliore.

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L’approccio laico alla questione degli organismi geneticamente modificati è una parte integrante della storia moderna del Burkina Faso. Negli ultimi anni della dittatura di Blaise Compaoré, che ha governato dall’ottobre 1987 all’ottobre 2014, in ampie zone del paese africano rinomate per la produzione del migliore cotone al mondo furono introdotte sementi geneticamente modificate.

Nel 2003 Monsanto fece partire il progetto BT Cotton in Burkina Faso tramite Sofitex, società pubblica burkinabé creata nel 1995 che deteneva quasi il monopolio del mercato cotonifero, e per anni nelle riunioni tra produttori di cotone e Monsanto si è sottaciuta la problematica principale del cotone BT (il seme di riferimento si chiama Bollgrad II ed è modificato geneticamente per resistere agli insetti): la pessima qualità. Tra il 2012 e il 2016 le aziende locali del mercato cotonifero hanno perso 48 miliardi di Franchi CFA (73 milioni di euro) in termini di mancati ricavi.

L’industria del cotone del Burkina Faso dalla seconda metà degli anni Novanta ha registrato una crescita più o meno costante, non senza qualche difficoltà: nel 1995 un invasione di bruchi decimò la produzione e lo stesso avvenne per colpa delle mosche bianche nel 1998, insetti che costrinsero i contadini a usare in modo indiscriminato pesticidi e prodotti dannosi, spesso inefficaci ai fini della protezione delle piante. Nei primi anni 2000 una nuova invasione di bruchi fu il pretesto per le autorità locali a incentivare contadini e produttori all’uso del cotone Monsanto BT. Fino a quel momento il principale produttore africano di cotone, il Burkina Faso, non garantiva solo una produzione tutto sommato consistente e in crescita nel tempo ma anche una fibra lucente e di alta qualità che conferiva ai filati un’unicità vellutata al tatto.

L’industria cotonifera burkinabé è caratterizzata dai piccoli proprietari organizzati in cooperative e associazioni che rivendono alla grande industria locale il proprio oro bianco: questo progetto africano di Monsanto rappresentava quindi una sfida per la stessa azienda americana, fino a quel momento concentratasi sulle grandi colture gm. Prima del suo insediamento in Burkina Faso Monsanto garantì ai produttori che un ettaro di coltivazione con cotone BT avrebbe prodotto dalle 4 alle 6 tonnellate di cotone ma la media tra il 2003 e il 2016 fu di 1,1 tonnellate per ettaro, di poco superiore alla resa del cotone non-OGM. Cotone, quest’ultimo, che si rivende a un prezzo anche triplo perché di qualità superiore. Nonostante questo nel 2015 i tre quarti della produzione cotonifera del paese era geneticamente modificata e le fiere agricole locali attraevano frotte di investitori curiosi dell’esperimento burkinabé: più volume, più prodotto, ma di qualità inferiore. Era questa l’equazione che illudeva tutti di far tornare i conti, il compromesso tra quantità e qualità che è oggi al centro del dibattito commerciale del capitalismo moderno.

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Per Monsanto sperimentare non era poi un grande problema: nel 2016 l’azienda ha registrato 13,5 miliardi di dollari di entrate, superiori al PIL dell’intero Burkina Faso, una cifra che rende benissimo l’idea di chi facesse la parte del leone e chi quella della zebra. Dopo la rivoluzione nonviolenta e popolare dell’ottobre 2014 e la detronizzazione di Compaoré molti membri dell’establishment locale, come l’ex-ministro dell’Agricoltura Saif Diallo, cominciarono ad ammettere il fallimento del progetto cotone BT Monsanto. Nel maggio 2016 il nuovo governo decise di eliminare completamente la produzione di cotone OGM mettendola progressivamente fuorilegge: nel primo anno le colture OGM si erano già ridotte della metà. Il colpo è stato duro da assorbire. Nel 2017 il Burkina Faso ha ceduto il ruolo di primo produttore di cotone africano al Mali a causa di una nuova parassitosi che ha rallentato la produzione: nel 2016 questa era stata di 1,31 milioni di balle di cotone, nel 2017 scese a 1,30 milioni di balle ma secondo EcoFin nella stagione 2018-2019 il paese dovrebbe riprendersi il ruolo di campione africano di produzione cotonifera. Se non ci saranno intoppi la produzione sarà di 1,4 milioni di balle di cotone biologico non geneticamente modificato. Come è successo?

Il governo del Burkina Faso, nell’ultimo anno, ha stanziato 16 miliardi di Franchi CFA per facilitare l’accesso a fertilizzanti e insetticidi, permettendo anche ai coltivatori di beneficiare di un’assicurazione agricola per attutire l’impatto economico delle calamità naturali. Inoltre ha inoltre avviato diversi progetti per l’istituzione di nuovi bacini di irrigazione e migliorato la gestione dei terreni agricoli installando e realizzando barriere permeabili in pietra, che permettono un migliore deflusso dell’acqua.

Le principali problematiche del cotone non-OGM sono la sua volubilità e la sua fragilità e sono i numeri degli ultimi 3 anni a raccontarlo: nel 2015, durante l’era del cotone BT, la produzione era stata di 1,1 milioni di balle, nel 2016, durante il periodo ibrido OGM e non-OGM, era cresciuta a 1,31 milioni di balle, scesa nel 2017 a 1,30 milioni. La crescita per il 2018, secondo il Dipartimento per l’Agricoltura degli Stati Uniti, è stimata in un +7,69%: 1,4 milioni di balle. Mai così alta nella storia del Burkina Faso e dell’Alto Volta (come si chiamava il paese prima della rivoluzione di Thomas Sankara). Ma non è detto che nel 2020 andrà lo stesso così bene e questo, nel mondo della crescita senza fine, è il vero problema: rendere una commodity il cotone a livello mondiale, senza garanzie sulla produzione, è oggi praticamente impossibile e questo si ripercuote sugli investimenti.

Ma il futuro del mercato cotonifero non è fatto solo di incognite ma anche di certezze: in breve Burkina Faso è riuscito a risollevare il mercato del suo principale prodotto di esportazione uscendo dalla produzione geneticamente modificata, una retromarcia che a molti può suonare stonata ma che in realtà è più sensata di quanto non si pensi. La qualità delle sementi, il know-how decennale, la competitività sul mercato locale, gli investimenti ragionati, le nuove tecnologie e grandi dosi di entusiasmo, un elemento questo che non può essere trascurato, sono tutti fattori che stanno contribuendo alla ripresa di un settore messo in ginocchio da tecnologie di pessima qualità e, probabilmente, dall’avidità delle istituzioni dell’era Compaoré.

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Secondo Monsanto il problema non è il seme Bollgrad II: l’azienda sta testando lo stesso ogm in Sudan e in Sud Africa, paesi caratterizzati da coltivazioni su larga scala, con risultati definiti “soddisfacenti” ma in altre zone dell’Africa, come in Ghana, Uganda e Nigeria dove le piantagioni di cotone rientrano in un’economia di piccola produzione, l’esperienza del Burkina Faso ha reso più cauto l’entusiasmo iniziale. Monsanto ha speso molti soldi per rifondare gli agricoltori danneggiati dal prodotto di scarsa qualità, circa 3 miliardi di dollari nelle prime due stagioni, ma l’obiettivo non è mai sembrato essere migliorare il prodotto quanto più conservare il grande laboratorio a cielo aperto che era il Burkina Faso.

L’approccio burkinabé agli OGM andrebbe preso da esempio: si tratta infatti di un approccio non ideologico ma improntato alla praticità e al risultato, sulla base delle evidenze scientifiche da un lato e, dall’altro, delle necessità commerciali. La qualità del cotone è determinata dalla lunghezza della fibra (il fiocco): più è lunga più è alta la qualità e le fibre del cotone Monsanto erano mediamente più corte di 2-3 millimetri rispetto al cotone tradizionale. La scommessa OGM contro la malaria, come abbiamo raccontato la scorsa settimana, è coraggiosa tanto quanto lo è stata la scommessa di uscire dal mercato OGM del cotone: sarà interessante osservarne i risultati.

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