Il termosifone, Putin, i tre 7 ottobre rossi sangue
È bello il parquet, ma è una seccatura.
Anche se ce ne siamo già dimenticati
Diario di un autore contemporaneo perso tra le variabili del nostro tempo
La terza domenica è il giorno dell’apertura della stagione di caccia, uomini armati uccidono animali inermi per gioco; uno stormo di uccelli viene risucchiato dal motore di un jet militare che come funzione principale ha quello di pavoneggiarsi in cielo durante cerimonie deserte, una bambina muore carbonizzata davanti alla sua famiglia che nulla può per salvarla, si parlerà quasi esclusivamente della disperazione del padre; l’infinita sequela di stupri e omicidi ai danni di donne e ragazze e bambine martoriate, torturate, umiliate, offese; l’abbandono, l’ignoranza, la completa assenza di cultura, di servizi basilari, farmacie autobus trasporti un campo da calcio, niente, la morte della civiltà, dell’educazione, l’ombra dei palazzi dei quartieri dormitorio che si proietta sulle piazze di spaccio, la fuga dello stato, il ritorno dello stato per un giorno a favore di telecamera, la fuga dello stato; scontri durante un corteo contro l’abolizione del reddito di cittadinanza, i poveri a casa pensano che i poveri in televisione gli stiano rubando dei soldi; la politica dei bonus e dei condoni e la campagna elettorale continua, i telegiornali che si lamentano della campagna elettorale continua ma propongono sondaggi sull’orientamento elettorale dei cittadini ogni sette giorni; si certifica quindi il defungere della politica dei fatti, come di fatto con l’ultimo festival nazionale si certifica il defungere del cinema italiano, e si certifica altresì, con vere e proprie foto di famiglia, l’ottima salute del familismo del cinema italiano come d’altronde quello della politica e, come dire, stanno tutti bene; la grande rivoluzione balletto di facce e nomi in tv, nulla di nuovo all’orizzonte, tutto di vecchio, si spostano i soggetti, non i contenuti, si spostano solo i soggetti; qualcuno cerca il canone della letteratura italiana, si guarda intorno e trova solo i suoi amici; l’impunità di un ministro della repubblica e dei suoi giochi finanziari privati; il suicidio di un imprenditore ad agosto di cui si parla davvero troppo poco; l’inarrestabile marea umana al largo delle coste della Sicilia, qualche parola utile da tenere a mente: accoglienza, smistamento, organizzazione, integrazione, lavoro, futuro, accoglienza, accoglienza, accoglienza.
Al raduno della Lega esseri umani se ne vanno in giro esibendo svastiche, scritte in cui si propone di cedere Lampedusa all’Africa, si inneggia all’antieuropeismo (dove europeismo altro non può essere che unione di popoli, non semplice ma pur sempre unione) in nome di un sovranismo che non hanno capito manco loro bene che cos’è. E siamo sempre nel 2023. Si parla ancora di autonomie, di indipendenza: del Veneto, dei popoli del Nord, di questi signorotti e signorotte con le facce coriacee e i fazzoletti al collo e gli occhi vitrei che vorrebbero proprio distaccarsi, espungersi da un insieme, convinti davvero di far già parte di qualcosa, di essere in una società e di poterla abbandonare, come se non fossero in realtà gli emarginati e gli esclusi che sono, convinti non si sa come e perché di essere un nucleo centrale di qualcosa, propulsori di economia e cultura e non di salamelle e vino a buon mercato, come se nei loro borghi e campagne e città questi esseri umani facessero davvero parte di un processo storico, come se non fossero solo apparizioni televisive da ritrovare una volta l’anno, epifanie di un’idea estinta, manifestazione celebrativa di quella Pontida che fu ormai trentatré anni fa (folkloristica e inutile anch’essa, adesso lo sappiamo), comparse, goliardi e festaioli senza davvero un granché da fare, un giorno di festa come tanti, e mi ricordano quel gruppo di amici che ogni anno si allarga sempre di più per celebrare il ragazzo di campagna di Renato Pozzetto e il famoso passaggio del treno, ma quest’ultimi almeno hanno il senso dell’umorismo dalla loro. Niente di tutto ciò è reale, mi dico, eppure tutto lo è: i panini, le camicie verdi, le bandiere, le scritte dall’ortografia claudicante e i cartoni di supporto alle sintassi sbilenche reperiti chissà dove; il vicepresidente del Consiglio dei Ministri che fa campagna elettorale contro il governo che vicepresiede, anche lui è reale. O è solo rappresentazione, ma di cosa, non si capisce più.
Siamo qui; io pure sono qui; ma qui non saprei bene dove.
L’aria è intrisa di profumo d’erba, un intenso sapore di limone e marijuana, frizzante, entusiasmante, si aggrappa prima alle narici e poi alle papille gustative. Un odore che in California ritrovi ovunque: per strada, nei garage, in spiaggia, in metropolitana, tra i palazzi di Downtown, davanti a farmacie e negozi aperti 24/7, persino in autostrada ci siamo sorpresi, durante una coda, a sentire il solito odore d’erba, forte, frizzante, fresco, proprio quello. E poi per strada, sempre a Los Angeles, sempre in pieno centro, anche sull’Hollywood Boulevard, un’altra essenza costante: puzzo di piscio. Il più classico e pungente puzzo di piscio umano: le strade solcate di immani pisciate su cui stanno ancora stesi gli esseri: esseri umani che dormono, che vomitano, che si svegliano, che cantano, che smanettano con i cellulari, che bestemmiano, che scaracchiano, che si rigirano nella tenda di Quechua e che strisciano da un cartone all’altro e bevono e fumano e si fanno di ogni cosa edibile inalabile iniettabile; esseri umani biondi, mori, giovani, meno giovani, obesi, scheletrici, barbuti, rasati, rastafariani, unti, feriti, mutilati, escoriati o semplicemente sporchi; uomini e donne con problemi psichici, perlopiù, e non c’è un sistema di welfare che li segua, mi dico, e allora si perdono; donne e uomini che hanno inciampato una volta nella vita ed eccoli qua per terra, e non ci sono servizi sociali che possano aiutarli. Non c’è solidarietà, non è statalizzato il concetto, l’unione di un popolo, e non me lo spiego come mai siano così numerosi.
E nel frattempo, dall’altra parte della strada, gli occhi sgranati e simpatici, tutto lindo e pulito e fresco di carrozzeria, due fari a led tondi che ogni tanto fanno flap-flap come se avesse davvero bisogno di umettare i bulbi oculari, in bonaria attesa del rosso, c’è un drone su quattro ruote per le consegne a domicilio. Sembra un piccolo carrello della spesa, una carrozzina per bambini ipertecnologica, però senza la maniglia, chiuso per proteggere la merce che porta, un recipiente dotato di volontà e motore e a cui designer e programmatori hanno destinato una simulazione di umanità e tenerezza, gliele hanno pensate e progettate e realizzate e poi fatte indossare, e si vede. Scatta il verde, il drone avanza lentamente, innocuo, perfettamente cosciente della sua traiettoria; passa davanti alle auto che a loro volta aspettano che lui passi, incrocia gli altri pedoni, arriva sul marciapiede, prende lo scivolo che è stato edificato per abbattere le barriere architettoniche, passa accanto a un homeless senza gambe, adagiato su un supporto a rotelle pure lui, tre bandana in testa, un bastone per dragare la strada, i moncherini nascosti da un paio di ciclisti chiusi ricuciti non so come, ed eccoli lì, uomo e drone, entrambi su ruote, indifferenti l’uno all’altro, sono solo io quello a cui frega qualcosa di quest’accoppiata; poi il drone continua per il suo tragitto finché non arriva davanti alla distesa di senzatetto, tutti sdraiati sul marciapiede che il drone deve attraversare per poter consegnare quello che deve consegnare, e quindi il robot si ferma lì, perché non sa cosa fare; ha una consegna da effettuare, una task da portare a termine, un lavoro in quanto macchina guidata da una CPU che gli è stato assegnato, un vero lavoro da svolgere, la gente verrebbe pagata per fare quello che fa lui ma questa è un’altra storia, perché adesso una distesa di esseri umani che si crogiolano nella loro imperfezione putrescente è lì davanti a lui e lui non può andare da nessuna parte; lui che ispira la simpatia (ed empatia) che poteva suscitare un Wall-E, fermo di fronte all’umanità che rantola e marcisce, la pizza partita dal punto A che chissà se arriverà mai al punto B.
È un episodio di cronaca di poco conto, in fondo, ma è rimbalzato per un paio di giorni nelle home di tutte le testate giornalistiche: un tizio senza fissa dimora dal presunto nome di Arshdeep Singh (è lo stesso nome di un giocatore di cricket indiano e forse un nome molto comune in generale, e chissà che non sia un «Mi chiamo Luther Blissett», mi chiedo) vuole comprare del crack, perché si fa di crack, però come tanti tossici non ha soldi a disposizione, e allora se ne va al Quarticciolo, o forse è lì in zona perché alloggia non molto lontano (e io immagino che Arshdeep viva o abbia vissuto in uno di quegli appartamenti da trenta metri quadri in cui stanno stipati 15/20 venditori di rose e immigrati clandestini), dietro la Palmiro Togliatti, verso la piazza di spaccio, e siccome appunto non ha soldi pensa bene di scippare una signora di novant’anni, trascinandola a terra perché è così che di solito finisce uno scippo, e però la gente che c’è lì intorno si accorge del crimine, dell’odioso scippo contro una signora anziana (odioso possiamo dirlo, credo), forse attratta dalle urla della vecchina che è rovinata per terra a causa degli strattoni di Arshdeep che vuole prenderle la borsetta per andare a comprare il benedetto crack, e allora un gruppo di persone circonda il malcapitato Arshdeep, e siccome Arshdeep è uno scippatore di novantenni in cerca di crack in un quartiere in cui la gente va evidentemente a comprare il crack o in cui il crack è disponibile per le strade, giovinastri e passanti che convivono ogni giorno con eventi di questo genere cominciano a corcarlo di botte (lo picchiano, lo stendono, letteralmente lo coricano), e quindi si aggiunge anche un maestro di arti marziali che potrebbe sferrare, immagino io, dei colpi mortali ma che gliene appoggia un paio come se Arshdeep fosse un sacco per gli allenamenti, morbidi, controllando la potenza dei colpi, e intanto un’altra signora affacciata da un balcone riprende tutto con il cellulare e sacramenta perché Arshdeep mannaggia viene picchiato a ridosso della macchina della figlia, li mortacci nostra, e un ragazzo gli ammolla due colpi di casco un po’ brutali, va detto, e il nipote della signora novantenne scippata a un certo punto si manifesta anche lui e allora lo devono tenere in quattro perché te-sfonno-pezzodemmerda, e poi arrivano i carabinieri e si portano via Arshdeep tra Manfredonia e Ugento e Arshdeep si prende un daspo urbano e nelle home delle principali testate giornalistiche dopo qualche ora spunta la faccia di Arshdeep vittima di violenza, Arshdeep il linciato con gli occhi e la faccia da cane bastonato, cioè di uno che l’hanno picchiato perché è vero che l’hanno picchiato e io non so quanto sia vero però che è stato linciato (linciare che nel Devoto-Oli è uccidere con un linciaggio), Arshdeep che gli hanno spaccato il setto nasale ma che tutto sommato ha retto bene alle botte e voleva comprare del crack e allora ha scippato una signora di novant’anni trascinandola a terra al Quarticciolo laggiù dietro la Palmiro Togliatti, tra gli sfasciacarrozze della Palmiro Togliatti e le piazze di spaccio della Palmiro Togliatti e i maestri e gli allievi di MMA della Palmiro Togliatti, dove vivere è una lotta e andare in palestra è prioritario, e intanto il mondo delle news si chiede chissà come mai ad Arshdeep l’hanno preso a legnate.
Voi siete qui. Io pure.
Diario di un autore contemporaneo perso tra le variabili del nostro tempo
È bello il parquet, ma è una seccatura.
Un po’ come in quella canzone di Giorgio Gaber.
E adesso guardo un po’ meno Twitch, un po’ meno serie e film, sempre meno televisione – diciamo che ho gli occhi stanchi, mettiamola così.
È bello il parquet, ma è una seccatura.
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