Dalla scatoletta all’Honestly Good: perché rallentare anche in cucina (e come farlo)
«Fare la spesa capendo quello che compriamo, conoscere gli ingredienti, non avere paura di stare in cucina».
Il casu ‘e axridda non si prepara in nessun’altra parte del mondo. Solo qui, su questo territorio collinare alle pendici del Gennargentu, in Sardegna.
L’alimentazione ci ricorda che siamo corpo e che dobbiamo rapportarci con gli altri esseri viventi, con i territori, con le risorse naturali.
C’è una leggenda antica a Escalaplano, paesino di poco più di duemila anime nel Sud Sardegna: secoli fa, Amuai, una donna del posto, venne coinvolta in una feroce lotta con la strega Orgia per il possesso del territorio. Tutto era minacciato dalla malvagità della strega: uomini, cose, alberi e animali. Amuai trovò però un rimedio magico: l’argilla, elemento naturale estratto direttamente dalla terra, aveva lo straordinario potere di proteggere tutto il paese dal maleficio, e così Escalaplano fu salva. Con questa vecchia storia si racconta l’origine del casu ‘e axridda, il formaggio più antico e tipico del paese, che conserva proprietà, morbidezza e aromi grazie a una crosta di argilla modellata attorno alle forme.
Il casu ‘e axridda non si prepara in nessun’altra parte del mondo. Solo qui, su questo territorio collinare alle pendici del Gennargentu abitato sin dalla preistoria, i pastori lo conoscono e ne tramandano la ricetta di padre in figlio.
Uno dei suoi ultimi custodi è Stefano Lai, 46 anni. La sua sarebbe una storia come tante, in Sardegna: una famiglia da sempre legata alla pastorizia e all’agricoltura e un’infanzia trascorsa in campagna in mezzo a pecore e agnelli. Poi, da bambino, si trasferisce a Cagliari insieme ai genitori, madre insegnante e padre bancario. «Avevo appena dieci anni», racconta oggi Stefano, «ma quando avevo un minuto libero dalla scuola il mio pensiero dalla grande città sul mare correva al paese, ai pascoli, al gregge di mio nonno Salvatore».
Stefano, in quegli anni, ogni volta che può, torna a Escalaplano dal nonno, passa con lui i fine settimana, le vacanze di Natale e Pasqua, le estati. Troppo inesperto ancora per mungere o tosare, si accontenta di guardare i grandi che con gesti sicuri si dedicano ai lavori quotidiani. Fino al giorno in cui, finalmente, viene ammesso dentro il recinto della mungitura. È in quel momento, in mezzo ai pastori adulti, che Stefano decide che quella sarà la sua vita.
«A 16 anni ho lasciato la scuola e ho iniziato come teraccheddu, come servo pastore», ricorda.
«Qualche anno dopo, con i primi risparmi, ho comprato terra e un trattore: da qui, il mio piccolo capitale, potevo iniziare». Stefano rinuncia quindi alla scuola (prenderà il diploma di perito agrario qualche anno dopo), a un’esistenza cittadina, alla previsione di un lavoro tranquillo magari in ufficio, e sceglie la natura, il lavoro in campagna, gli animali. Oggi, trent’anni dopo quella scelta, gestisce una delle aziende più floride del paese e, oltre al gregge di pecore, è diventato anche “pastore di api”, con circa 700 alveari disseminati in tutta l’Isola, e ha messo in piedi anche una discreta produzione di sughero.
Il problema del prezzo che gli industriali pagano per il latte ovino, vertenza vecchia di decenni, lo sfiora appena: all’inizio del 2019, i pastori di tutta l’Isola hanno reso la questione nuovamente attuale con una clamorosa protesta versando migliaia di litri di latte in strada.
«Meglio buttarlo che venderlo sottocosto», hanno spiegato, meglio sprecare il frutto di lavoro e sacrifici che sottostare per l’ennesima volta alle spietate leggi di mercato che periodicamente deprezzano il latte.
Una protesta, che i media nazionali hanno chiamato “la guerra del latte” e che ha conquistato attenzione e solidarietà in Italia e in Europa, non certo nuova in Sardegna: da tempo il latte è acquistato dagli industriali a un prezzo variabile che dipende dal mercato del pecorino romano, uno dei pecorini DOP più venduti al mondo.
A gennaio 2019, il costo del Pecorino Romano è sceso a 5,80 euro al chilo contro gli 8,50 di un anno prima, e così anche il prezzo del latte che serve per produrlo è sceso da 85 a 60 centesimi al litro. Un compenso, protestano i pastori, che non copre neanche le spese del lavoro.
Per questo, ai primi di febbraio, alcuni allevatori hanno iniziato a rovesciare in terra i bidoni del latte. Le immagini di quel gesto, diffuse capillarmente via Whatsapp e sui social network, hanno presto contagiato i lavoratori di tutta l’Isola che si sono riuniti in un movimento spontaneo senza sigle e senza bandiere. Un mese dopo l’inizio delle manifestazioni i pastori hanno deciso di sospendere i gesti plateali e di sedersi a un tavolo per trattare con politici e industriali, e finalmente hanno conquistato un accordo per un prezzo minimo del latte ovino fissato a 75 centesimi al litro.
«Sono solidale con la lotta dei pastori», ha spiegato Stefano Lai a Slow News. «Non potrei non esserlo, dato che è il mio mondo. Ma è una vertenza che va avanti da troppo ed è arrivato il momento di soluzioni definitive: in economia si dovrebbe proporre il prezzo di un bene e poi valutare la risposta di chi lo acquista, in questo caso invece succede il contrario, con il mercato che obbliga i produttori a una cifra precisa. È disumano pensare che un intero comparto possa vivere con compensi così bassi ed è offensivo che si imponga dall’alto un prezzo a chi quel bene lo produce. Ad ogni modo è un tema complesso: ci sono tantissime realtà diverse e variegate tra loro».
Stefano ha unito la sua voce al coro delle proteste ed era accanto agli allevatori quando hanno deciso di non conferire il latte agli industriali e versarlo in strada. Non è convinto, però, dello slogan che accompagna le manifestazioni: dal Nord a Sud della Sardegna nelle ultime settimane in tanti hanno appeso alle finestre un lenzuolo, uno striscione con scritto “Siamo tutti pastori”.
Non ne è convinto perché questa storia, come molte altre dei nostri tempi complessi, passa anche attraverso le scelte personali:
«Moltissimi si mostrano solidali, però al momento di scegliere al supermercato comprano formaggi economici che danneggiano i produttori locali. La situazione non è semplice, buoni da una parte e cattivi dall’altra: tutti abbiamo una responsabilità se oggi i lavoratori delle campagne non possono vivere della loro fatica. Tornando a mio nonno, con il suo lavoro ha vissuto dignitosamente e ha permesso ai figli di crescere, studiare. Perché oggi non è più possibile?».
La soluzione Stefano l’ha trovata e messa in pratica nel suo quotidiano, ed è quella della leggenda di cui parlavamo all’inizio: un formaggio unico in Sardegna e unico al mondo, prodotto solo a Escalaplano con una ricetta antichissima. E soprattutto di altissima qualità.
«Ho scelto di non vendere il latte delle mie pecore, ma di produrre con la mia azienda solo il cas’e axridda, che si prepara con latte crudo scaldato a 35 gradi e pasta cruda, e dopo due mesi dalla preparazione viene ricoperto da olio di lentisco e argilla. Se il latte non avesse una carica batterica bassissima, che è indice di qualità, non si potrebbe lavorare a basse temperature. Le mie pecore, come la maggior parte dei tre milioni di pecore che si allevano in Sardegna, vivono all’aperto, si spostano da un pascolo all’altro e si cibano di erba e macchia mediterranea, non certo di mangimi chimici: ciò significa che il latte delle pecore sarde è un latte eccellente».
A livello industriale, però, certi parametri passano in secondo piano rispetto a grasso, caseina e altre caratteristiche: tra questi c’è il Cla, un acido grasso polinsaturo che sembra poter aiutare a tenere sotto controllo i livelli di colesterolo.
La maggior parte delle dodicimila aziende agropastorali sarde vende il latte ai caseifici che producono il Pecorino Romano, acquistato soprattutto sulla piazza statunitense, quando invece potrebbe realizzare formaggi con valori nutrizionali unici e un’alta concentrazione di Cla.
«I pastori sono oggi sul mercato con prodotti che nessuno vuole migliorare», prosegue Lai, «c’è stato negli ultimi decenni un appiattimento sulle tendenze commerciali, in particolare sul Pecorino Romano. Se invece si producessero più formaggi con caratteristiche qualitative diverse credo che potremo davvero liberarci dalla schiavitù delle leggi di mercato».
Il latte delle 220 pecore dell’azienda Lai viene utilizzato quasi interamente per il casu ‘e axridda, ma scoprire quanto formaggio produce e qual è il suo costo è impossibile: «Preferisco mantenere il segreto, ma ho un cliente solo, un gruppo di acquisto di 800 soci che ogni anno compra tutta la mia scorta». Stefano Lai, come altri pastori sardi che hanno scelto una via alternativa rispetto ai diktat del mercato, si è dunque liberato da obblighi e imposizioni dall’alto: produce e vende il suo formaggio a un prezzo congruo, considerata la qualità e la non riproducibilità.
Tanti pastori sardi, oggi, potrebbero seguire la stessa strada: valorizzare le piccole produzioni tradizionali rispetto ai grandi marchi commerciali, trasformare le aziende di famiglia in imprese pronte per il mercato globale, combinare una straordinaria conoscenza della natura, del territorio, del ciclo della vita con le nuove tecnologie. Diventare insomma protagonista di un’economia che che, se da un lato privilegia il tutto e subito, dall’altro ricerca costantemente eccellenza, valore, unicità.
[1] Il prezzo del Pecorino Romano DOP ha una sua pagina web di riferimento sul sito del CLAL
[2] L’axridda sul sito della Fondazione Slow Food
[3] L’acido linoleico coniugato (Cla) sul sito di Humanitas.
[4] Il pecorino CLA e il colesterolo, il parere del prof. Enzo Spisni
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