Ep. 03

La cultura del cibo

Siamo quello che mangiamo suona come una litania. Eppure è proprio così: il cibo è uno specchio.

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.
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Il mangiar bene

L’alimentazione ci ricorda che siamo corpo e che dobbiamo rapportarci con gli altri esseri viventi, con i territori, con le risorse naturali.

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Diciamocelo: ormai quella del «siamo quello che mangiamo» suona quasi come una litania. Eppure è proprio così, e non solo nell’uso più comune che oggi sentiamo fare di questa celebre frase del filosofo tedesco Ludwig Feuerbach – sottolineare che ciò che mangiamo influenza il nostro stato di salute. Infatti se «siamo quello che mangiamo» è anche perché il cibo è uno specchio in cui si riflettono la cultura in cui siamo cresciuti e quella in cui viviamo.

A sostenerlo sono pensatori di tutto rispetto come Massimo Montanari, storico dell’alimentazione in forze all’Alma Mater Studiorum. In una delle sue opere, «Il cibo come cultura», Montanari sottolinea come «ogni atto legato al cibo porta con sé una storia ed esprime una cultura complessa», come il cibo sia cultura «quando si produce perché l’uomo ambisce a creare il proprio cibo», come lo sia quando lo si prepara «perché una volta acquisiti i prodotti base della sua alimentazione l’uomo li trasforma mediante la sua tecnologia» e come lo sia quando lo consumiamo perché lo scegliamo «con criteri legati sia alla dimensione nutrizionale, sia a valori simbolici».

Basta poco per trovare riscontri di tutto ciò nella vita di tutti i giorni: se ci troviamo di fronte a europei scandalizzati all’idea che il mercato comunitario si sia aperto al cibo a base di insetti, è sufficiente far ruotare il mappamondo per nemmeno mezzo giro e trovarsi in mezzo a paesi in cui mangiarli è normalissimo. O, anche rimanendo nei nostri confini nazionali, è sufficiente pensare a quanto può essere diverso un ricettario con preparazioni tipicamente lombarde da un libro di ricette rigorosamente napoletane.

Divisione o unione?

Certo, vista così potrebbe sembrare che anche il cibo sia lì pronto a indicare confini e separazioni. In realtà, così come diventa occasione di unione ogni volta che porta una famiglia a radunarsi attorno alla tavola dopo una lunga giornata che ha visto i suoi membri lontani a occuparsi ciascuno dei propri impegni, il cibo può diventare anche strumento di integrazione.

E mangiare quinoa può diventare ben più del vezzo di un glutinofobico che, illuminato dai consigli della starlette di turno convinta che il frumento sia il peggior nemico della linea e affascinato da questo pseudocereale dal nome e dalle origini esotiche, ha deciso che il comune riso carnaroli non è abbastanza cool per il suo palato pseudoinformato e che è il caso di sostituirlo con l’antico «semino d’oro degli Inca». Scegliere ingredienti tipici della cucina di altre culture può aiutarci a conoscerle, e portare la cucina di altre culture sulle nostre tavole e sui nostri buffet può trasformarsi in uno strumento di integrazione semplice ed efficace.

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Conoscenza e integrazione: così la cucina unisce davvero

Proprio il semino d’oro degli Inca è uno dei protagonisti di un recente articolo pubblicato da Matteo Lenardon su The Vision sul concetto di etica nell’alimentazione vegan. Sì, perché oltre ad essere gluten-free la quinoa sembra anche essere una delle fonti di proteine alternative alla carne preferite dai vegani. Partendo da una delle motivazioni per cui viene scelta un’alimentazione di questo tipo (in molti dichiarano che si tratta di una «scelta etica») Lenardon sottolinea come l’aumento della richiesta di quinoa da parte dei «consumatori etici» ne abbia fatto letteralmente decollare il prezzo, rendendolo non sostenibile per le popolazioni sudamericane che le coltivano. La conseguenza? Un crollo dei consumi proprio là dove le sue proprietà nutrizionali sono preziose per una popolazione malnutrita, che ora troverebbe invece più conveniente mangiare «l’hamburger di una multinazionale».

«Tanto delle nostre produzioni di quinoa va all’estero», mi ha confermato Roxana Rondan, chef peruviana che con l’Associazione Agape vuole promuovere la gastronomia del suo Paese in Italia, per la precisione a Torino. L’ho incontrata proprio nel capoluogo piemontese durante la terza edizione del Festival del Giornalismo Alimentare, per cui ha curato il ricco buffet allestito durante le pause concesse ai partecipanti per il pranzo, e le ho chiesto cosa pensasse di questa polemica montata sulla stampa italiana. «Penso che dobbiamo privilegiare sempre le materie che ci dà la natura, la terra. Prodotti dall’alto valore nutritivo. Se ci sono problemi politici, economici, un alimento può sostituire un altro, ma penso che debba regnare di più l’alimento ad alto valore nutritivo».

Il caso della quinoa dimostra come dietro a un ingrediente esotico si possano nascondere molto più di gusto e proprietà nutrizionali. E anche quello che si può fare portando la cucina etnica sulle nostre tavole va oltre alla possibilità di solleticare le nostre papille gustative e di soddisfare i nostri fabbisogni. È stata sempre Roxana a darmene prova, raccontandomi che promuovendo la gastronomia peruviana non intende solo lavorare ingredienti importati dal suo Paese d’origine qui, in Italia, ma vuole anche fare della sua cucina uno strumento di integrazione dando appoggio agli agricoltori locali.

«Quello che vogliamo fare», mi ha spiegato, «è una cucina peruviana di qualità utilizzando – perché no? – i prodotti del Piemonte».

«Noi usiamo tanto come materia prima le patate di montagna. Il Perù è il paese delle patate, quindi per noi è importante trovare una patata di qualità. Qui non c’è un’importazione di patata, e noi ci affidiamo a quello che ci dà la terra del Piemonte, che sono patate di alta qualità». Ed è così che nascono piatti come le sue patate con crema di formaggio, perfetto esempio di integrazione: «Abbiamo studiato un’associazione tra formaggio del Piemonte e peperoncini che arrivano dalle Ande».

Il potere della gastronomia

A Torino Roxana gestisce un ristorante che è una vera e propria impresa di famiglia, La Rustica. «Si parla tanto di gastronomia peruviana, è di moda in tutto il mondo. Ma noi vogliamo anche occuparci di integrazione attraverso il cibo. Integrarsi vuol dire unire tante culture tutte insieme, e la gastronomia è un vettore che non fallisce mai. Per me integrarsi vuol dire che ci sediamo tutti a tavola, e tu puoi essere una persona con stabilità economica più bassa o più alta, ma quando è ora di mangiare siamo tutti uguali».

Oggi Roxana ha ottenuto la cittadinanza italiana, ma per tanti anni ha vissuto in Italia come una straniera. «Un giorno da piccola mi sono detta: non posso solo lavorare, devo avere una professione! E ho fatto quello che i miei genitori mi hanno trasmesso da bambina: il buon cibo e il buon mangiare. Da lì mi è nata la passione. Mi sono diplomata a Torino e mi sento orgogliosa di interpretare anche la cucina piemontese».

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Cucinare per conoscere e rispettare

Sempre a Torino c’è un altro progetto degno di nota, quello che Claudia Fraschini porta avanti nella sua Cookin’ Factory, uno spazio creativo dove oltre ai corsi di cucina, quelli di food styling e di food photography, le degustazioni a tema e le giornate trascorse con lo chef dalla spesa alla cena, trovano spazio anche eventi dedicati alla cucina etnica come strumento di conoscenza, di socializzazione e di integrazione.

«Ogni mese ospitiamo un evento su prenotazione», mi ha raccontato Claudia. «Ospitiamo un Paese che è rappresentato da un consolato qui a Torino o con cui abbiamo dei collegamenti consolari e cerchiamo di rappresentare, di quel Paese, la cucina tipica popolare, la cucina reale loro, delle loro abitudini». E per farlo si fanno aiutare da chi, da quel Paese, si è trasferito qui in Italia.

«Per farci aiutare a preparare dei piatti che li rappresentino», mi ha spiegato, «in maniera tale che le persone, venendo qui – che comunque è una scuola di cucina finalizzata alla conoscenza e alla divulgazione del cibo – possano avere un’esperienza diretta del cibo di un certo Paese, ma nel concreto». Senza, insomma, limitarsi ai piatti più noti ed esportati. «Uno decide di andare in Turchia, viene all’aperitivo turco e capisce che cosa mangerà in Turchia, che non è la riduttiva soluzione turistica. I classici esempi sono falafel e kebab, ma ci sono una miriade di altri piatti che diversamente, magari per diffidenza, non assaggeresti mai».

Così come raccontato da Roxana, anche per Claudia l’effetto è magico. «La differenza non c’è più. La cucina – e il cibo soprattutto – è quello che opera la magia più grande. Unisce tutti, perché intorno a un tavolo non ci sono più differenze, non ci sono più contestazioni, litigi. Le cene, i pranzi, sono stati sempre momenti in cui anche nelle famiglie si risolvevano le questioni. E questo è quello che ci stiamo perdendo in questo mondo un po’ tutto falso di Internet, dove il cibo è sempre rappresentato dentro una scatola e poi la gente va al supermercato e compra altre scatole. E per noi l’importante è togliere tutti da una scatola e metterli in un contesto umano dove il cibo è il più grande comunicatore».

La collaborazione con gli stranieri che vivono in Italia è fondamentale per mettere in piedi gli eventi organizzati da Claudia. «Cerchiamo di andare a fare la spesa con loro, nei loro posti. Per la Turchia siamo riusciti ad arrivare a un magazzino che rifornisce di prodotti turchi tutta l’Italia, quindi abbiamo comprato proprio prodotti tipici turchi. Per il Vietnam e il Mianmar siamo andati in un negozio vietnamita che vende solo roba vietnamita. A Torino c’è di tutto, il problema è che non sai come si chiamano gli ingredienti e quindi hai bisogno di qualcuno che ti dica: questa roba ci serve. Per noi è divertentissimo perché conosciamo degli ingredienti totalmente lontani dalla nostra immaginazione».

«È tutto un percorso che in realtà ci deve portare a pensare che tutti, ovunque nasciamo, il primo istinto che abbiamo è mangiare. Dove sei sei, ci saranno gli ingredienti più disparati ma sempre mangiare è. Conoscere quello che mangiamo a nord, sud, est, ovest del globo è curioso. È doveroso anche per poter rispettare le altre culture».

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