Latte, formaggio e economia: il casu ‘e axridda
Il casu ‘e axridda non si prepara in nessun’altra parte del mondo. Solo qui, su questo territorio collinare alle pendici del Gennargentu, in Sardegna.
C’è qualcuno che ha osato mettere in dubbio che la pasta sia nata nello stivale e ha pure ragione.
L’alimentazione ci ricorda che siamo corpo e che dobbiamo rapportarci con gli altri esseri viventi, con i territori, con le risorse naturali.
Ogni anno ogni italiano consuma 24 kg di pasta. Contrariamente a quanto sta accadendo in altre parti del mondo, la tendenza sembra essere alla diminuzione, complici le motivazioni più varie – come l’errata convinzione che faccia ingrassare “senza se e senza ma”, o che sia meglio mettere al bando il glutine anche se non si è celiaci. A trarne vantaggio sono cereali in chicchi e zuppe, sempre più preferiti dagli abitanti del belpaese, e – fra chi cerca un sostituto alla pasta “tradizionale” in un prodotto che ne abbia quantomeno la stessa forma – proposte gluten free o a base di ingredienti alternativi come quei “grani antichi” cui capita vengano attribuite proprietà salutistiche non sempre aderenti alla realtà.
In altre regioni del mondo il consumo di pasta sta invece aumentando. È quello che sta ad esempio succedendo in Africa, dove la pasta riscuote successo soprattutto per merito della sua facilità di conservazione e per come riesce a mantenere il suo sapore. Accade così che il volume di esportazioni di pasta all’estero superi oggi il 50% della produzione, per un totale di 1,9 milioni di tonnellate all’anno. E accade anche che, nonostante la tendenza al calo dei consumi, l’Italia non sembri minimamente intenzionata a ridurre la fermezza con cui rivendica l’italianità della pasta, che continua a rimanere uno dei cardini del tanto celebrato Made in Italy.
Eppure c’è qualcuno che ha osato mettere in dubbio che la pasta sia nata nello stivale. Qualcuno avrebbe addirittura osato dire che a inventare gli spaghetti sarebbero stati i Cinesi.
Si racconta infatti che a portare la pasta in Europa sia stato Marco Polo, di ritorno dalla Cina. La narrazione riporta addirittura un anno preciso: il 1295. Tuttavia, all’interno di un inventario di una nave redatto a Genova nel 1279 si parlerebbe già di pasta, a prova del fatto che quella su Marco Polo sarebbe solamente una leggenda.
Il fatto che già all’epoca la pasta facesse parte anche della tradizione culinaria cinese è probabilmente vero, ma esistono delle prove che le sue radici siano più antiche e che affondino nei territori bagnati dal Mediterraneo. Il commediografo greco Aristofane (450 a.C. circa – 385 a.C. circa) ne parla usando il termine laganon, mentre il poeta romano Orazio (65 a.C. – 8 a.C.) la chiama laganum – entrambe parole che richiamano agli orecchi le nostre moderne lagane, formato di pasta tipico delle regioni del Sud Italia. Anche gli Etruschi, probabilmente, facevano la pasta; lo testimonierebbero alcune decorazioni delle tombe di Cerveteri, che sembrano raccontare la produzione di qualcosa di simile a dei ravioli.
Le testimonianze proseguono fino ad almeno il I secolo d.C., per poi interrompersi. Non è possibile escludere che l’assenza di racconti successivi sulla pasta sia il semplice risultato della mancanza di interesse a parlarne, ma c’è anche chi la attribuisce a una vera e propria crisi nelle produzioni di grano, che avrebbero portato alla riduzione della produzione di pasta. Le sue tracce ricompaiono nel IX secolo, in Nord Africa, dove a produrla sarebbero stati gli Arabi. E sempre gli Arabi l’avrebbero riportata nel belpaese, in particolare in Sicilia, dove la produzione di pasta avrebbe trovato terreno fertile nelle abbondanti coltivazioni di grano locali e sarebbe fiorita con l’introduzione dei mulini. Qui, nei dintorni di Palermo, sarebbe nata una primordiale forma di spaghetti (la tria) e qui la produzione di pasta sarebbe diventata industriale già nel XII secolo, quando il prodotto finito veniva esportato verso l’attuale Sud Italia, la Sardegna, l’alto Tirreno e la Provenza.
La produzione è aumentata ulteriormente nel XVII secolo, con l’invenzione del torchio meccanico e la diffusione della gramola (utilizzata per rendere la pasta morbida e omogenea). Nel frattempo i siti di produzione si erano estesi alla Campania e alla Liguria, ma solo con il calo dei prezzi associato all’introduzione di queste innovazioni tecnologiche i consumi aumentarono. Le produzioni napoletane hanno superato quelle siciliane, quelle liguri sono sensibilmente diminuite e ne sono fiorite di nuove in Emilia-Romagna e nel Centro-Sud.
Sembra che fino a prima dell’invenzione della forchetta così come la conosciamo oggi i nobili non gradissero consumare la pasta, che, venduta agli angoli di strada su semplici pezzi di carta, doveva essere mangiata con le mani. Superata questa settecentesca questione di etichetta, oggi ci ritroviamo alle prese con altre etichette – quelle stampate sulle confezioni di pasta. Il problema nasce dagli ingredienti con cui viene prodotta la pasta (grano, acqua e sale, a volte uova) o, meglio, dalla loro origine.
A preoccupare gli italiani è in particolare la provenienza del grano. Infatti anche se l’Unione Europea è il principale esportatore di questo cereale, l’Italia resta un forte importatore. Il fatto non dovrebbe stupire: la produzione nazionale di grano tenero non arriva a soddisfare la metà del fabbisogno interno. Non stupisce nemmeno più di tanto che in quanto grande importatore, l’Italia senta vivo il problema dell’origine del grano con cui è fatta la pasta. Le preoccupazioni sono arrivate a tal punto da spingere l’allora Mipaaf (il Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali) e il Mise (il Ministero dello Sviluppo Economico) a introdurre l’obbligo di indicare nell’etichetta della pasta proprio l’origine del grano.
Non che l’Unione Europea non ci avesse pensato affatto; infatti secondo il Regolamento 1169 del 2011 (quello che stabilisce quali informazioni devono essere obbligatoriamente riportate sulle etichette degli alimenti) sarebbe quantomeno necessario indicare se l’ingrediente primario (cioè quello che rappresenta più del 50% dell’alimento) proviene da un luogo diverso rispetto a quello del prodotto etichettato (in questo caso la pasta), ma questo principio non è stato ancora attuato. Per questo l’iniziativa di Mipaaf e Mise è stata accolta con entusiasmo. Coldiretti ne ha parlato come della fine di quello che ha definito “inganno dei prodotti importati, spacciati per nazionali, in una situazione in cui un pacco di pasta su tre è fatto con grano straniero”. E stando alla stessa Coldiretti anche il 96% dei consumatori sarebbe d’accordo con questa iniziativa.
Secondo l’associazione in assenza di una chiara indicazione di origine mancherebbe la possibilità di conoscere “un elemento di scelta determinante per le caratteristiche qualitative” della pasta. Non per tutti, però, il nocciolo della questione sarebbe la minore qualità del grano importato. «Io sono assolutamente d’accordo [con l’indicazione dell’origine del grano in etichetta], ma non perché penso che il grano di una nazione sia migliore rispetto a quello di un’altra, ma semplicemente perché credo che sia fondamentale che nei confronti del consumatore ci sia la massima trasparenza», mi ha confessato Cristina Bowerman, chef stellata di Glass Hostaria, ristorante nel cuore di Trastevere. L’ho incontrata in uno dei suoi locali a piazza dell’Emporio a Roma, Romeo Chef & Baker, in occasione della presentazione di “I primi d’Italia”, il festival nazionale dei primi piatti che ha animato Foligno durante le ultime giornate di settembre. «Io come consumatore ne ho il diritto per qualsiasi ragione al mondo», ha proseguito. «Potrei volerlo sapere perché sono curiosa – non ha importanza. Però io devo sapere da dove proviene ogni ingrediente che metto nella mia bocca».
Che la qualità della pasta non dipenda dall’origine del grano è stato dimostrato anche da test comparativi che nel corso degli anni si sono trovati a premiare pasta prodotta con miscele di grano italiano e grano importato. In effetti, quest’ultimo ha in media caratteristiche migliori dal punto di vista delle performance del prodotto finito, in particolare una maggiore percentuale di glutine e l’ottima tenacia conferita all’impasto.
D’altra parte, non è completamente corretto parlare di pasta e di grano come se i due termini fossero sinonimi: la pasta si fa con la semola o con la farina, quindi tra grano e pasta c’è di mezzo quanto meno il mulino. E non si può non tener conto dell’abilità di chi trasforma quella semola o quella farina nel prodotto finito, miscelando gli ingredienti, lavorandoli e occupandosi dell’essiccazione – un processo che influenza anche la tenuta in cottura. «Da nessun’altra parte la pasta secca viene trattata come qui in Italia», ci ha spiegato chef Bowerman, sottolineando come per lei la vera pasta italiana sia proprio la pasta secca. Una visione, la sua, totalmente opposta rispetto a quella con cui si è più volta trovata a confronto. «Spesso e volentieri la pasta viene identificata con la pasta fresca, specialmente all’estero. Ma mentre è possibile trovare il miglior raviolo ricotta e spinaci anche all’estero, da nessun’altra parte la pasta secca viene fatta come viene trattata qui».
La qualità della pasta, insomma, non dipende solo dall’origine della materia prima. Ciò, però, non nega a priori che ci possa essere un buon motivo per voler sapere da dove arriva il grano con cui è fatta la pasta che finisce sulle nostre tavole. Come ci ha detto chef Bowerman, può essere interpretato come un semplice diritto del consumatore. Oppure, come suggerito ancora una volta da Coldiretti in occasione dell’arrivo della nuova regola stabilita da Mipaaf e Mise, per avere la possibilità di scegliere di sostenere le realtà produttive nazionali e il lavoro e l’economia del territorio acquistando prodotti italiani al 100%.
La situazione sembra chiara: il resto del mondo può dire quello che vuole, ma sembra che la pasta così come la intendiamo oggi sia un prodotto mediterraneo. E che il contributo dato alla sua nascita dal territorio che oggi chiamiamo Italia è stato assolutamente fondamentale. Ma la vera pasta italiana è secca, come ritiene chef Bowerman, o quella fresca, come probabilmente ci direbbe una sfoglina bolognese?
Per molti secoli la pasta è stata pasta fresca. L’arrivo di quella secca è merito degli Arabi, che iniziarono a esporla al calore dopo la preparazione per far evaporare l’acqua al suo interno e permetterne, così, una più lunga conservazione. Tutto ciò accadeva nel IX secolo, ma la pasta fresca è rimasta la tipologia più prodotta fino al XIX secolo, quando la pasta è diventata un vero e proprio prodotto industriale e poter essere conservata a lungo una necessità più pressante.
Se, come abbiamo detto, a fare la qualità della pasta non sono solo gli ingredienti ma anche la sua lavorazione, l’abilità dimostrata dagli italiani nel trovare soluzioni per essiccarla non può che fare della pasta secca vera pasta italiana. Quel quarto di sangue emiliano che scorre nelle mie vene, unito ai ricordi di quelle distese di ravioli fatti in casa sul tavolo della cucina della nonna, non può però farmi dimenticare che ci vuole grande abilità anche per racchiudere tanta delizia in una pasta fresca ripiena. Che sia fresca o secca, per me la pasta è italiana in tutte le sue magnifiche variazioni, espressione delle altrettanto numerose e magnifiche variazioni di questo paese e dei suoi abitanti.
L’alimentazione ci ricorda che siamo corpo e che dobbiamo rapportarci con gli altri esseri viventi, con i territori, con le risorse naturali.
Il casu ‘e axridda non si prepara in nessun’altra parte del mondo. Solo qui, su questo territorio collinare alle pendici del Gennargentu, in Sardegna.
«Fare la spesa capendo quello che compriamo, conoscere gli ingredienti, non avere paura di stare in cucina».
La cattiva informazione riguardo il cibo è dilagante. Ma di chi è la colpa?
Siamo quello che mangiamo suona come una litania. Eppure è proprio così: il cibo è uno specchio.
C’è qualcuno che ha osato mettere in dubbio che la pasta sia nata nello stivale e ha pure ragione.
Il casu ‘e axridda non si prepara in nessun’altra parte del mondo. Solo qui, su questo territorio collinare alle pendici del Gennargentu, in Sardegna.
Da Sanremo a Magenta, fotografando con un aggeggio strano che converte, inventando, le tue foto rendendole digital-retrò.
Michela Murgia ha smosso le coscienze italiane ricordando a tante donne che possono non stare zitte.