Ep. 02

Cibo cattivo o cattiva informazione?

La cattiva informazione riguardo il cibo è dilagante. Ma di chi è la colpa?

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.
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Il mangiar bene

L’alimentazione ci ricorda che siamo corpo e che dobbiamo rapportarci con gli altri esseri viventi, con i territori, con le risorse naturali.

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«Aumento della richiesta di miele», «uso di additivi» e «moltiplicarsi di losche pratiche»: a mettere in correlazione questi tre fattori è la prima puntata di Rotten, docuserie prodotta da Netflix che, come recita la sua descrizione ufficiale, «analizza in profondità la catena alimentare, rivelando verità sgradevoli e portando alla luce le forze nascoste che plasmano il nostro cibo».

Niente complottismi; piuttosto, il racconto di una realtà che in genere rimane ben nascosta agli occhi del consumatore, ma della cui esistenza lo stesso consumatore può diventare un inconsapevole complice a causa di un fenomeno sotto alla luce dei riflettori ormai da tempo: il dilagare delle fake news.

Ascoltando attentamente quello che viene raccontato proprio nella prima puntata di Rotten è facile rendersene conto. «Il consumo di miele è cresciuto in tutto il mondo per due semplici ragioni», spiega Norberto Garcia, presidente dell’Organizzazione Internazionale Esportatori di Miele: «Perché la popolazione umana sta aumentando ed è cresciuta l’importanza dei prodotti più naturali. Il miele è un ingrediente che dà un valore aggiunto al prodotto perché gli conferisce una connotazione naturale. Perciò al nome miele si associa un valore aggiunto».

E in effetti basta una ricerca su Google utilizzando la chiave «miele proprietà» per incappare in espressioni a dir poco accattivanti come «straordinarie proprietà curative».

La voce narrante della stessa puntata di Rotten dice però anche che il nostro corpo processa il miele più o meno come lo zucchero comune. E in diversi casi chi racconta che il miele sarebbe un dolcificante migliore perché contiene fruttosio non ricorda anche che secondo gli esperti di nutrizione l’uso di questo zucchero (così come quello di alimenti, bevande e sciroppi di mais che lo contengono) dovrebbe essere limitato per ridurre il rischio di problemi seri come la sindrome metabolica.

Così quelli che in Rotten vengono definiti «i consumatori più esigenti» finiscono per cercare miele in tutte le salse – e di conseguenza i produttori alimentari lo usano per dolcificare numerosissimi cibi, dai prevedibili biscotti al meno ovvio prosciutto. «L’industria del miele», spiega Rotten, «è ottima per una cultura attenta al cibo».

Peccato che a fronte di una richiesta così abbondante non manchino i casi in cui si tenta di soddisfarla ricorrendo a stratagemmi illeciti come diluire il miele. E così siamo già arrivati a toccare due delle possibili conseguenze della cattiva informazione in ambito alimentare: eccedere con il consumo di alcuni nutrienti e ritrovarsi alle prese con una frode alimentare. I risvolti della diffusione di fake news nel campo dell’alimentazione possono però essere anche molti altri, inclusi allarmismi ingiustificati.

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Dal pollo all'olio di palma, le notizie che allarmano gli italiani

Prendiamo ad esempio quello che è successo in occasione della diffusione delle notizie riguardanti l’influenza aviaria. «Siamo l’unico Paese in cui si è smesso di mangiare carne avicola», ha sottolineato Franca Braga, responsabile del Centro studi alimentazione e salute di Altroconsumo, durante il suo intervento alla terza edizione del Festival del Giornalismo Alimentare di Torino.

In occasione dell’ultima edizione di NutriMi – evento di aggiornamento per i professionisti della nutrizione – l’esperto dell’Università «La Sapienza» Lorenzo Maria Donini ha invece ricordato il caso delle uova, ingiustamente accusate di aumentare il colesterolo, aggiungendo all’elenco dei cibi troppo spesso messi alla gogna anche i formaggi e il burro.

Gli esempi che si potrebbero fare sono molti altri, come quello delle carni lavorate, che subito dopo la pubblicazione del dossier dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sulla loro cancerogenicità sono state paragonate in modo a dir poco semplicistico al fumo di sigaretta. Oppure quello della pasta che non andrebbe mai mangiata di sera, uno dei puntelli chiave dell’antinutrizione.

Senza dimenticare il caso dell’olio di palma, che ad un certo punto è stato letteralmente identificato con l’acido palmitico e con i potenziali effetti del suo consumo; in realtà, ha spiegato Donini, non si è tenuto in considerazione che non sono la stessa cosa. E anche secondo Lluis Serra-Majem, esperto dell’International Foundation of Mediterranean Diet (IFMeD) che ha tenuto una lettura magistrale proprio durante l’ultima edizione di NutriMi, forse più che un problema di salute l’olio di palma rappresenta un problema di sostenibilità ambientale (portato meno spesso sotto alle luci dei riflettori).

Tutto ciò non significa che non sia vero che le uova contengono colesterolo, che burro e formaggi sono ricchi di grassi saturi, che l’eccesso di carni lavorate è associato al rischio di tumori e che la spropositata diffusione dell’uso dell’olio di palma pone qualche dubbio in tema di sicurezza alimentare e nutrizionale.

L’approccio e l’insistenza con cui vengono affrontate queste tematiche non sono però adeguate e non forniscono un buon servizio informativo al cittadino, così come la tendenza, evidenziata da Braga, ad affrontare meno spesso altri problemi non solo reali ma anche seri, come il fenomeno della resistenza agli antibiotici, l’esposizione agli interferenti endocrini e la presenza di acrilammide nel cibo.

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Tutta colpa del web?

Ogni mezzo di comunicazione ha sua fetta di responsabilità. Spesso, ad esempio, anche trasmissioni televisive che si mettono dalla parte del consumatore dichiarando di fare un’informazione trasparente e chiara fanno invece scelte discutibili in termini di ospiti e giocano sull’effetto della notizia; e, sempre in televisione, non mancano gli chef che si pongono come nutrizionisti senza averne titolo.

Probabilmente, però, oggi a contribuire fortemente alla diffusione della cattiva informazione in ambito alimentare è Internet. Come è infatti emerso proprio in occasione dell’ultima edizione di NutriMi, ben il 53% degli Italiani raccoglie informazioni sulla qualità dei prodotti utilizzando il web, dove spesso vengono utilizzati toni allarmistici, l’ultima ricerca in ordine di pubblicazione viene raccontata come se cancellasse anni di studi e di metanalisi, e la nutrizione è sulla bocca di tutti, incluse aziende del comparto alimentare che ne parlano in termini sbagliati, a volte cavalcando proprio l’onda della cattiva informazione per aggiudicarsi fette di mercato.

Prendiamo ad esempio il caso del glutine, la sostanza presente nel frumento e in altri cereali responsabile della celiachia. Il diffondersi delle false convinzioni secondo cui una dieta gluten free potrebbe far dimagrire o sarebbe più salutare ha contribuito al dilagare della scritta «senza glutine» sulla confezione di alimenti, come la carne, che di per sé non contengono questa sostanza; un fenomeno, questo, che oltre a spingere i consumatori ad acquistare un prodotto che altrimenti non avrebbero messo nel carrello – magari perché più caro rispetto a un altro con le stesse caratteristiche nutrizionali – può anche rafforzare in loro l’idea errata che «gluten free è meglio».

Fra le problematiche emerse durante il Festival del Giornalismo Alimentare c’è proprio la tendenza a mettere tutte le fonti sullo stesso piano, senza distinguere l’informazione giornalistica da altre forme di comunicazione (come quella operata dall’industria alimentare) e senza ricordare che ci si può trovare di fronte alla commistione tra pubblicità e informazione, che il problema del conflitto di interessi non riguarda solo giornalisti e blogger e che anche il packaging viene utilizzato come strumento di marketing.

D’altro canto, anche le istituzioni fanno la loro parte. «Siamo sempre a tranquillizzare a priori», ha osservato durante il Festival Maria Caramelli, direttrice sanitaria dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta portando come esempio il caso della cosiddetta «mucca pazza». «Si era detto che si sarebbe fermata in Francia, invece poi è arrivata in Italia».

Di fronte a smentite di questo tipo i cittadini si sentono traditi; per questo nonostante la reale sicurezza che contraddistingue il cibo italiano continuano a non fidarsi di quello che mangiano. «È un paradosso apparente», ha fatto eco a Caramelli Riccardo Quintili de «Il Salvagente». «Hanno visto un modo paternalista di rassicurare i consumatori che fa crollare tutto il castello [di carte]».

Meno sensazionalismi e più senso critico

Secondo Donini la priorità fondamentale dovrebbe essere un cambiamento nell’approccio comunicativo utilizzato. Nessun alimento dovrebbe essere demonizzato, nemmeno i grassi, che altrimenti rischiano (come è già successo) di essere sostituiti con gli zuccheri, con cui invece non si dovrebbe esagerare. «Bisogna parlare di approccio nutrizionale, di pattern alimentari. Non è il singolo nutriente a far male, ma è lo stile di vita complessivo (anche l’attività fisica!) a fare la differenza. Nella Piramide della Dieta Mediterranea ci sta tutto, anche le carni processate, ma con una frequenza diversa. Se facciamo un discorso «alimenti sì» e «alimenti no» non ne usciamo!».

Anche i Ministeri stanno cercando di utilizzare un approccio comunicativo più efficace, sfruttando i canali social per parlare di educazione alimentare e di politiche alimentari. Le sfide che le diverse tipologie di comunicatori si trovano di fronte non sono però di poco conto.

La necessità di contestualizzare le notizie che riguardano il cibo impedisce quasi sempre di assumere una posizione netta, rendendo difficile far apparire una notizia attraente agli occhi di un consumatore che vuole semplicemente sentirsi dire se un alimento fa bene o fa male.

Tuttavia, mettere da parte i sensazionalismi a favore di una comunicazione basata su evidenze scientifiche sembra l’unica soluzione possibile.

Fortunatamente non sempre dietro alla cattiva informazione c’è il dolo caratteristico delle bufale create ad arte. Tuttavia, anche quelli che sono errori giornalistici privi di malizia possono fare danni e la diffusione di notizie di scarsa qualità potrebbe essere deleteria.

In altre parole, quella alla cattiva informazione non dovrebbe diventare un’abitudine. Piuttosto, ci si dovrebbe abituare a una comunicazione che riesce ad accendere il senso critico degli utenti, che dovrebbero imparare sia come scegliere le fonti sia come interpretare le notizie mettendo in gioco quello stesso pregiudizio su cui spesso giocano le fake news.

Anche la cultura fa la sua parte, ma purtroppo è ormai chiaro che per sconfiggere questo fenomeno non è sufficiente diffondere con insistenza informazioni corrette, anzi: la dura realtà è che si tende a rinforzare le proprie convinzioni anche quando ci si trova di fronte a clamorose smentite. E quando c’è di mezzo il cibo, purtroppo, a rimetterci può esserci non solo il portafoglio ma anche la salute.

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