Intorno alle 9 di sera di lunedì 5 giugno 1944, a Torino c’è ancora luce. Le giornate non hanno ancora cominciato ad accorciarsi. In uno degli uffici della sede della Stampa che si affaccia su via Roma, il direttore Concetto Pettinato, scelto direttamente da Benito Mussolini, sta decidendo il titolo per il suo editoriale sulla presa di Roma da parte del nemico alleato, avvenuta quello stesso pomeriggio. Deve mandare in stampa in fretta, e gli è venuto in mente un titolo forse un pochino troppo perentorio: Nervi a posto.
I minuti passano. Sono le 9 e 15, e mentre il direttore de La Stampa ancora ancora non è convinto de suo titolo, nella Francia occupata in molti ascoltano Radio Londra. Quella sera le trasmissioni cominciano con una manciata di versi che in Francia conoscono tutti: «Blessent mon cœur/ D’une langueur /Monotone». Sono tre versi tratti dalla prima strofa della Chanson d’automne, scritta da Paul Verlaine un’ottantina di anni prima, e seppur la riconoscano tutti, pochissimi sanno perché la stanno ascoltando proprio in quel momento.
Quei versi rappresentano un messaggio, un messaggio cifrato che deve arrivare alle orecchie di un certo Antoine — nome in codice di Philippe de Vomécourt, un ragazzo della Lorena che ha studiato a Londra — a capo della rete di maquisards detta dei Vetriloquistes. Antoine e i suoi uomini aspettano quel messaggio da settimane, eppure, in quei pochi secondi, un brivido percorre loro la schiena: ora è ufficiale, l’Operazione Overlord, l’invasione alleata della Francia programmata da mesi, partirà entro 48 ore.
Sono le dieci, ormai il buio è sceso ovunque in Europa. Mancano poche ore all’inizio dell’offensiva e il generale Dwight Eisenhower è decisamente nervoso. Si trova a Londra, a Camp Griffiss, il quartier generale alleato, dove nel pomeriggio ha incontrato i soldati e ha letto loro un comunicato: «Non accetteremo nient’altro che la vittoria», ha concluso, nascondendo la tensione. Quando ha salutato quei ragazzi sapeva che per molti di loro quelle erano le ultime ore di vita e ora, nel suo studio, rilegge le ultime righe di un messaggio che ha scritto la notte prima: «Se c’è qualcuno da rimproverare o da accusare per questo tentativo fallito, sono io e io solo».
Intorno alle undici di sera, dai porti dell’Inghilterra del sud, cinque flotte di navi d’assalto dell’esercito di sua maestà, Giorgio VI, partono verso la Francia. Il marconista John Gough, a bordo di uno dei destroyer che affronta il mare della Manica, guarda verso la Francia e osserva «le grigie colonne di imbarcazioni che trasportano truppe e mezzi da sbarco che si allungano verso l’orizzonte e oltre». Ha un sacco di paura, come tutti. Al suo fianco, al timone, c’è un ragazzo che ha compiuto da poco 30 anni. Da borghese è un attore, anche piuttosto bravo, ma in quel momento sta pensando a tutt’altro. Il suo nome è Alec Guinness, poco più di trent’anni dopo combatterà contro un altro Male, ma al cinema, nel ruolo di Obi-Wan Kenobi.
Nello stesso momento, in una delle migliaia di navi che si avvicinano alla Normandia, sdraiato in una delle decine di migliaia di cuccette, tra soldati che giocano a carte per ingannare il tempo e altri che leggono le lettere delle proprie ragazze per farsi coraggio, ce n’è uno che sta in silenzio e guarda il soffitto. Si chiama Jerome David e sta pensando a una ragazza che non lo ama più, Oona O’Neill. Appoggiato sul petto ha un plico di fogli ingialliti e fittamente annotati su cui sta lavorando già da un po’ e che, qualche anno dopo, confluiranno in un libro di successo, The Catcher in the Rye. I suoi compagni, per distrarlo, gli chiedono di unirsi a loro per bere un goccio: «C’mon, JD!», gli urlano, «smettila di pensare… ti fa male!».
È mezzanotte e mezza. La Manica è solcata da migliaia di navi e sorvolata da centinaia di aerei, tra quelli di trasporto truppe e i bombardieri. Di lì a pochi minuti una squadra di assalto di commandos britannici tocca il suolo francese, trasportati da sei silenziosi alianti in legno di balsa. Devono conquistare e mettere al sicuro il ponte di Bénouville, sull’Orne e in pochi minuti, grazie anche all’effetto sorpresa, la missione è compiuta. I commandos occupano i locali di un piccolo bar che si trova proprio all’inizio del ponte. Si chiama Café Gondreé, è il primo edificio liberato della Francia occupata e il proprietario, per festeggiare, offre a tutti dello champagne.
Mentre gli uomini del commando si passano la bottiglia di champagne al Café Gondreé, i tedeschi sono in allarme rosso. Hanno avvistato gli aerei e i paracadutisti, si preparano alla battaglia. Intanto, le 5000 navi alleate hanno gettato l’ancora a circa 15 miglia di distanza dalla costa francese. Cominciano i preparativi per lo sbarco.
Quella notte, tra il 5 e il 6 giugno del 1944, è una notte breve, per quasi tutti: J. D. Salinger continua ad accarezzare i suoi fogli e pensare a Oona, che esattamente un anno prima l’ha lasciato e si è sposata con un regista e attore sulla cresta dell’onda, di nome Charlie Chaplin. I paracadutisti americani e inglesi, a causa del forte vento, si ritrovano a decine di chilometri dai propri obiettivi originali, in territorio nemico. Alcuni toccano terra già cadaveri, altri restano impigliati nelle fronde degli alberi, altri ancora affogano nelle paludi per il peso degli armamenti, ma chi sopravvive inizia subito a combattere.
Quella notte Eisenhower, a Londra, non chiude occhio. Roosevelt, a qualche ora di fuso orario, legge il messaggio alla nazione, e Robert Capa prepara i rullini e controlla gli obiettivi. Il suo amico, Ernest Hemingway, ha 57 punti di sutura alla testa in conseguenza di un incidente in macchina proprio mentre tornava ubriaco da una festa a casa Capa, e ora ha un mal di testa infernale. A Berlino, Adolf Hitler è andato a letto tardi, verso le 4, se la dorme della grossa e ha lasciato detto di non voler essere svegliato prima delle 9. Il feldmaresciallo Erwin Rommel, invece, è in licenza ed è sdraiato mezzo brillo dopo aver festeggiato il 50esimo compleanno della moglie. È sicuro che non sarà quella la notte dello sbarco, c’è il mare troppo grosso.
Sono le 5 e 20 del mattino di martedì 6 giugno 1944. È l’alba, e mentre sulle spiagge della Normandia i B-17 alleati sganciano tonnellate di bombe e scatenano l’inferno, in un piccolo appartamento al numero 9 dell’impasse Florimont, nel 14esimo arrondissement di Parigi, un ragazzo di 23 anni si sveglia e, come tutte le mattine, si aggiusta i baffi. Quella non è casa sua, è casa di Jeanne Planche e di suo marito Marcel che lo stanno nascondendo dalle autorità da più di un mese. Il ragazzo, che suona molto bene la chitarra, in quelle settimane passate a casa di Jeanne e Marcel, senza acqua corrente e senza elettricità, abbozza parecchie canzoni. Una in particolare la dedica a Marcel e diverrà molto famosa una decina di anni dopo: si intitola Chanson pour l’Auvergnat. Il ragazzo si chiama Georges Brassens e ha l’accento de sud.
Alle 6 e mezza il tempo è bigio sulla Normandia, una leggera pioggia bagna le spiagge e il vento alza onde di quasi due metri. Le prime imbarcazioni cariche di uomini si avvicinano alle spiagge a fatica, i mezzi anfibi affondano quasi tutti, ribaltati dalle onde. I primi a sbarcare sono gli americani, i loro obiettivi si chiamano, in codice, Omaha beach e Utah beach. A Omaha è un massacro. Le difese tedesche hanno retto relativamente bene ai bombardamenti e investono gli assalitori con un ingente volume di fuoco di armi pesanti. A Utah va un po’ meglio: il caso, l’errore e il vento ha portato i mezzi da sbarco 1800 metri più a sud della destinazione prevista, portando i soldati in una zona meno coperta dai difensori e salvando molte vite.
Alle 7 del mattino, a Londra, il generale Eisenhower riceve il primo telegramma da oltre le linee nemiche: lo manda il maresciallo dell’aria Leigh-Mallory, che scrive soltanto quattro parole «Parachuting has gone well». Che è andata bene, forse, è po’ un’iperbole — tra i 24mila soldati paracadutati, i morti sono tantissimi, come anche i dispersi e i feriti — ma gli obiettivi sono stati raggiunti, e in guerra, in fondo, come sa bene sia il maresciallo Leigh-Mallory che il generale Eisenhower è solo quello che conta. E in quelle ore dovranno tenerlo a mente.
Alle 7 e 10, a Omaha beach, il sergente Sheppard, usando uno degli unici due tank Sherman che sono arrivati indenni alla spiaggia, si avvicina a una postazione anticarro tedesca che in quel momento sta puntando il tiro sui suoi compagni. È sulla torretta quando dà l’ordine di sparare. Un colpo solo, e la postazione nemica è distrutta. I suoi compagni, che probabilmente stavano solo aspettando l’esplosione del colpo nemico, iniziano per la prima volta a credere che si può fare. Intanto, a Los Angeles sono ancora le dieci di sera del 5 giugno, e Thomas Mann si mette a letto senza nemmeno sapere che a migliaia di chilometri più a est una delle battaglie più importante del secolo si sta svolgendo.
Alle 9 del mattino, su tutte le spiagge la battaglia infuria ancora. A Omaha beach gli americani prendono la prima casamatta tedesca. In sua difesa c’è la 352esima divisione di fanteria della Wehrmacht che comincia a sentire l’urto dell’offensiva americana. Dal ponte del cacciatorpediniere Plunkett, un uomo osserva la carneficina. Ha cinquant’anni, qualche ora dopo scenderà con una troupe militare per filmare la battaglia, il suo nome è John Ford e da borghese è uno dei più grandi registi del western americano.
Un quarto d’ora dopo, alle 9 e un quarto, a Berlino Hitler si sveglia e viene subito informato della situazione. Nello stesso momento, dal quartiere generale di Londra, Eisenhower fa diramare il primo comunicato sull’Operazione Overlord: «Sotto il comando del generale Eisenhower, le forze navali alleate, supportate da una copertura aerea imponente, hanno dato il via allo sbarco di uomini e mezzi alleati nella costa nord della Francia».
Su una di quelle imbarcazioni che assaltano la spiaggia di Omaha sballottate dalle onde c’è anche Robert Capa, con al collo la sua macchina fotografica, smanioso di arrivare il più vicino possibile alla guerra. Quando il ponte si apre, lui scende con gli altri, con l’acqua alla cintola e le pallottole che sfrecciano dovunque, pronto a scattare.
Alle dieci, a Omaha beach lo spettacolo è allucinante. Gli ufficiali raggruppano i soldati e cercano di aprirsi la strada per non restare in balia del nemico. Il colonnello Taylor è a colloquio con alcuni dei suoi ufficiali e dice: «Ci sono due tipi di uomini che resteranno su questa spiaggia: i morti e quelli che stanno aspettando di morire. Noi vediamo di uscire da questo inferno». Sulla stessa spiaggia, in quel momento, al riparo in una buca, c’è J.D. Salinger. Ha gli occhi chiusi e una paura che non proverà mai più nella sua vita. Per farsi coraggio si tocca la tasca interna della giubba, dove tiene il suo prezioso manoscritto. Nello stesso momento, in Germania, Rommel decide di annullare il suo incontro con Hitler e di ritornare subito in Francia a guidare i suoi uomini.
Intorno alle 11 del mattino, l’imbarcazione comandata da un giovane luogotenente di nome Robert Anderson, si mette sulla rotta della spiaggia. Di fianco a lui c’è Ernest Hemingway, che fino a quel momento aveva assistito alla battaglia guardandola dal mare con un binocolo. Gli è stato assolutamente stato vietato, per motivi di sicurezza, di sbarcare. Hemingway ha ancora un mal di testa devastante e cerca di calmarlo bevendo del brandy, ma non cambia nulla. A un certo punto, due colpi dalla spiaggia sfiorano l’imbarcazione, riempiendola d’acqua. I soldati intanto pregano o leggono le lettere di mogli e fidanzate per farsi coraggio, mentre Hemingway, col suo proverbiale sangue freddo, si accorge che c’è un problema. «Bob» urla diretto al luogotenente Anderson, «siamo troppo lontani sulla destra, la chiesa è laggiù, guarda! Viriamo a sinistra, il settore Dog Green è laggiù!».
Anderson capisce al volo e grida al suo timoniere di virare, subito, e di toglierli da quell’inferno prima che di diventare tutti carne da macello.
Non tutti però sono fortunati come Hemingway — anche se lui quel trattamento di favore lo vede come una castrazione — uno tra tutti: Robert Capa. Quella mattina il fotografo ungherese è arrivato insieme ai soldati americani, scattando parecchie fotografie dello sbarco, e ora si trova nel bel mezzo degli scontri. Forse la vicinanza con il pericolo e la morte lo fa pensare al suo amore, Gerda Taro, morta sette anni prima in Spagna travolta da un tank. Più probabilmente, nel pieno della battaglia, non sta pensando a niente se non a scattare foto e a rimanere vivo.
È mezzogiorno e si continua a combattere ovunque. Simon Fraser, che gli amici di infanzia di Inverness chiamano Shimi, è il 15esimo lord di Lovat. Ora, a un migliaio di chilometri da casa, è a capo di un commando di berretti verdi britannici ed è molto preoccupato. Hanno l’ordine di arrivare al ponte di Benouville, per rinforzare la posizione tenuta dal maggiore Howard e dai suoi uomini. Fraser e i suoi però sono ancora bloccati a Sword beach, punto di sbarco delle truppe britanniche. A un certo punto, sotto il fuoco incrociato, in un delirio di pallottole, Fraser si gira verso il soldato Bill Millin, suonatore di cornamusa, e gli ordina di ricominciare a suonare e di guidare gli uomini al di là delle dune. Di fronte a quell’ordine Millin sgrana gli occhi e, balbettando incredulo, cerca di spiegare al suo lord che le regole dell’esercito di sua Maestà non lo permettono, sperando che il suo comandante capisca che sarebbe un suicidio. Lord Lovat, ricambiando lo sguardo ma raddoppiandone l’intensità, non si perde d’animo e ammette: sì, quelle sono le regole dell’esercito inglese, ma loro — che diavolo! — sono scozzesi.
Più o meno nello stesso momento, alla Camera dei Comuni, a Londra, Winston Churchill prende la parola: «Devo annunciare alla Camera che la prima serie di sbarchi massicci sul continente europeo è cominciata, che la maggior parte delle batterie lungo la costa sono state prese e che tutto sta andando secondo i piani».
Passano le ore, e le truppe alleate avanzano. Lentamente, ma avanzano. Le spiagge somigliano a macelli, con i cadaveri dei soldati sparsi ovunque, alcuni corpi rimbalzano Alle 15 e 40 Hitler prende finalmente la decisione di mandare dei rinforzi in Normandia, ma ormai sembrerebbe troppo tardi.
Alle sei, a Juno Beach, si arrende una guarnigione tedesca. Negli stessi minuti, gli uomini del secondo battaglione prendono il punto Daimler, conquistano i quattro pezzi di artiglieria e catturano settanta soldati tedeschi. Verso le 8, da Londra, il generale de Gaulle diffonde via radio grazie alla BBC un messaggio ai francesi: «La bataille suprême est engagée», ovvero «la battaglia suprema è cominciata».
Quando il sole cala, intorno alle 9, in Normandia ci sono quasi 170mila uomini tra americani, britannici e canadesi e il comando alleato è relativamente ottimista. Le perdite si attestano a circa 10mila uomini — tra morti, dispersi e feriti — molto meno di quanto Churchill aveva detto alla moglie prima di addormentarsi. I rinforzi di truppe, di mezzi e di munizioni arrivano puntualmente e i tedeschi stanno arretrando. Hemingway, intanto, fa rotta verso l’Inghilterra. Lo stesso percorso che fanno i preziosi rullini di Robert Capa, che poche ore dopo, per l’ingenuo errore di un maldestro sviluppatore, verranno quasi interamente distrutti. Solo undici scatti si salvano e passano direttamente alla storia, poche ore dopo, sulle pagine del Time.
Quando negli Stati Uniti arriva la sera, Roosevelt legge un altro messaggio alla nazione: «Concittadini: la notte scorsa, mentre vi parlavo della caduta di Roma, sapevo che in quel preciso momento le truppe degli Stati Uniti d’America e dei nostri alleati stavano attraversano la Manica in un’altra grandiosa operazione. Fino a questo momento è andato tutto per il meglio. Ma adesso, in queste ore drammatiche, vi chiedo di unirvi a me e pregare…». In quegli stessi istanti, mentre Winston Churchill dorme, mentre gli americani pregano e qualcuno in Germania comincia a pensare che forse non sono così imbattibili le legioni nazifasciste, Ernest Hemingway, a Londra, non riesce a prendere sonno. La guerra sta andando avanti e lui ha ancora un mal di testa tremendo, ma non gli passerà per un bel po’.
La foto di copertina è di pubblico dominio e qui puoi trovare l’originale.
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