Sono le 10.24 e l’uomo misterioso con la valigia se n’è andato da qualche minuto, salito in macchina davanti alla stazione e sparito nel nulla. Intanto l’autista Agide Melloni è quasi in stazione con il suo collega, il suo turno inizia tra poco, mentre il treno per Basilea sta per partire con dentro Roberto Castaldo e i suoi colleghi. Nel breve arco di un istante il semaforo del binario diventa verde e il capotreno fischia con forza nel suo fischietto per dare l’ordine. Roberto sente il fischio e si gira, vede il segnale verde e fa per alzare il braccio in direzione del suo collega in fondo al treno. Ma non fa in tempo, perché ormai sono le 10 e 25 e quella che un istante prima era una stazione, ora è un campo di battaglia. Dentro la valigia misteriosa dello sconosciuto c’erano 23 chili di esplosivo. La detonazione ha letteralmente distrutto l’intera sala d’attesa della stazione, ha travolto il treno straordinario Ancona Basilea, ha sbriciolato gran parte del ristorante e ha fatto crollare la pensilina del primo binario, travolgendo anche dei taxi nel parcheggio antistante la stazione. Il boato si è sentito per tutta la città, così come da ogni angolo di Bologna si può scorgere il terrificante fungo di fumo nero che si è alzato dalla stazione e che ora la avvolge per intero, come un mantello, rendendo la scena straziante.
Per due minuti c’è solo silenzio.
Quando la polvere cala sulla stazione, o su quel ne rimane, decine di persone sono già morte sul colpo, mente diverse centinaia sono ferite. Sono morte Rita, Nilla e Franca, insieme alle altre tre colleghe, Euridia, Mirella e Katia e la maggior parte dei clienti del ristorante. È morto Iwao, travolto dall’esplosione insieme al suo taccuino. È morta Angela, la bambina di meno di quattro anni che Iwao guardava scappare dalla madre, ed è morta anche la madre, Maria Fresu, la più vicina all’ordigno al momento dell’esplosione, il cui corpo si è polverizzato. Roberto è sotto shock, ma è ancora vivo, così come Sergio, le cui ferite però sono gravissime. L’autista Agide Melloni invece è incolume, non era ancora arrivato in stazione con il suo collega, ma appena sente il boato e lo spostamento d’aria, prima ancora di capire cosa è successo, si mette a correre. Quando arriva nel parcheggio, tutto intorno al suo autobus, il numero 37, c’è uno spettacolo che non dimenticherà mai più: corpi fatti a pezzi, calcinacci, travi, carcasse di taxi, superstiti che corrono alla cieca, qualcuno con i vestiti ancora in fiamme, qualcuno senza braccia o gambe.
Sono le 10 e 27 e la prima ambulanza arriva sul posto. All’opera ci sono già decine di persone , tra polizia, militari, vigili del fuoco, ferrovieri, ma soprattutto gente comune, gente che era nelle vicinanze, che lavora negli uffici e nei negozi dei dintorni e che sono subito accorsi. Nel frattempo arrivano anche operai di un cantiere poco lontano, la maggior parte resta sul posto a spostare detriti, ad assistere feriti, a iniziare a spostare cadaveri.
Qualcuno torna al cantiere con un compito: tornare al più presto indietro con altri uomini, ma soprattutto con le ruspe e i camion. Il lavoro che gli aspetta è immane.
Il primo lancio dell’Ansa è delle 10.47 e dice così : «Una violenta esplosione ha fatto crollare parte della stazione centrale di Bologna, ci sono morti e feriti». Nel frattempo i primi cronisti sono arrivati. Tra loro c’è anche Maria Bagnoli, redattrice RAI nella sede di via Alessandrini. Si rende subito conto, come tutti, che quella che ha di fronte è una tragedia. Vede gente che fugge, due ragazze piene di sangue che piangono e urlano «Siamo vive», poi vede un telefono ancora attaccato al muro, si avvicina e compone il numero della redazione. Quando le rispondono, la prima cosa che riesce a dire è «È un macello».
Poco distante c’è anche l’inviato di Repubblica, Marco Marozzi, assunto solo il giorno prima. Un uomo si aggira frastornato e intriso di polvere dalla testa ai piedi, urla i nomi di due donne, ma nessuno gli risponde.
Sono le 11 e ormai è chiaro che è le dimensioni della tragedia sono immani. La prima teoria che si passano i presenti di bocca in bocca, e che arriva anche a qualche giornalista, è che si sia trattato dell’esplosione di una caldaia. Ma in pochi ci credono veramente. Qualcuno inizia a notare l’odore persistente di polvere pirica, altri che nessuna caldaia può spazzare via 50 metri di stazione in calcestruzzo. Il piazzale della stazione è un via vai continuo. Uno dei più attivi tra i soccorritori è Agide Melloni, che rendendosi conto della strabordante quantità dei feriti rispetto alla disponibilità delle ambulanze decide che il miglior modo per essere utile è salire sul suo autobus e svuotarlo di ogni cosa, trasformandolo in qualcosa di molto simile a un carro per trasportare i cadaveri.
Nella prima corsa verso l’obitorio ne porta 8, in quella dopo 12, ma è solo l’inizio.
Sandro Pertini, nel frattempo, di pipe ne ha fumate già il doppio del normale. È ancora a Selva di Val Gardena, ma è attaccato al telefono. Riceve gli aggiornamenti da Bologna ed è molto scosso. Ha già fatto approntare un elicottero perché lo porti il prima possibile a Bologna, vuole essere sul posto. Intanto, i telefoni smettono di funzionare per sovraccarico delle linee. Una delle ultime telefonate che partono dalla stazione è di un lavoratore dell’Ufficio Postale, che chiama a casa per tranquillizzare i genitori, ma soprattutto il fratello, che giusto il giorno prima era partito proprio da quella stazione per tornare a casa, a Pavana. Si chiama Francesco Guccini, e se non fosse stato per un calo di voce che gli ha fatto annullare un concerto e anticipare il viaggio di un giorno, in quel momento, forse, sarebbe d’altra parte del telefono, tra le macerie.
Più o meno in quel momento, in Nuova Zelanda, i Cure finiscono il loro concerto dopo due giri di bis.
Sono circa le 18 quando Pertini arriva sul luogo della tragedia. «Non ci sono parole… Non ci sono parole per esprimere quello che sento», sono le prime parole che dice, arrivato all’Ospedale. Poi, alla stazione, sollecitato da un giornalista, sbotta: «Come vuole che abbia reagito, quando ho visto quei due bambini sdraiati con le braccia aperte, e che adesso forse sono morti…». Più o meno nello stesso momento, a Mosca, il pugile italiano Patrizio Oliva batte ai punti il russo Serik Konakbayev e si aggiudica l’oro olimpico nella categoria pesi superleggeri.
Chissà se al momento di alzare le braccia, con la medaglia al collo, Oliva sa già che cosa è successo a Bologna poche ore prima.
In ogni caso, ha un’espressione triste.
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La fotografia originale la puoi trovare qui.