La marcia su Roma
Alle 2 e 40 del mattino del 27 ottobre del 1922, a Milano, la notte non è ancora fredda, ma il cielo è molto coperto. Per le ore successive ci si aspettano forti piogge.
Mancano pochi minuti alle cinque della sera di sabato 27 giugno 1914. In una stanza dell’Hotel Bosna di Ilidze, vicino a Sarajevo, ricolma di opere d’arte di ogni tipo fatte arrivare dagli collezionisti della città, l’Arciduca Francesco Ferdinando sta finendo di scrivere una lettera.
Una serie che è anche un libro e che racconta, minuto per minuto, i giorni che hanno cambiato la storia del ‘900, o meglio, del Secolo breve.
Mancano pochi minuti alle cinque della sera di sabato 27 giugno 1914. In una stanza dell’Hotel Bosna di Ilidze, vicino a Sarajevo, ricolma di opere d’arte di ogni tipo fatte arrivare dagli collezionisti della città, l’Arciduca Francesco Ferdinando sta finendo di scrivere una lettera.
«Ero sicuro che avrei trovato il meglio», scrive l’erede al trono austroungarico parlando delle truppe che ha visto all’opera nell’esercitazione degli ultimi due giorni, «e le mie attese sono state ampiamente confermate. Lo farò sapere a sua maestà l’Imperatore», poi chiude: «Questo messaggio deve essere comunicato a tutti i soldati, nella loro lingua madre, immediatamente».
L’Arciduca finisce di scrivere e si accarezza i baffi. Rilegge, firma in calce e guarda fuori dalla finestra: il tempo non è dei migliori, piove da qualche giorno, il cielo è bigio e non fa affatto caldo. Poi si volta verso la moglie Sofia e le fa cenno di cominciare a prepararsi. Quella sera devono partecipare a un ricevimento e Sofia è molto felice per la notizia che suo figlio Max si è diplomato a pieni voti. Ma non sarà una serata piacevole, pensano entrambi. A differenza delle ultime sere questa volta sarà tutto molto formale.
Nel frattempo, a Cape Town, è quasi l’ora del tè e Jan Christiaan Smuts sta aspettando un ospite importante per discutere di un progetto di legge che sta facendo molto discutere e che, tra le altre cose, dovrebbe permettere finalmente alla comunità indiana di organizzare i matrimoni secondo le proprie usanze tradizionali. Smuts è un po’ impaziente, ma sa che il suo ospite, un avvocato indiano di nome Mohandas Karamchand Gandhi, difficilmente ritarderà.
Anche a Praga sono le cinque della sera. Al Café Louvre i clienti abituali arrivano uno dopo l’altro. Al suo solito tavolo il giornalista e scrittore Karel Čapek sta leggendo il giornale della sera, aspettando un’amica. La porta del bar emette l’ennesimo cigolio — succede ogni volta che qualcuno entra — Čapek si distrae dalla sua lettura e alza lo sguardo pensando di incrociare quello dell’amica, che è già in ritardo. Ma non è lei a entrare, è un uomo dai tratti spigolosi e lo la faccia stravolta. Si chiama Franz Kafka, è tornato da poco da un soggiorno a Berlino, non dorme da 48 ore e sta passando uno dei mesi più duri della sua vita.
A Ilidze, intanto, è calato il sole, i dignitari di Sarajevo sono arrivati all’Hotel Bosna e sono già tutti seduti a tavola. Il tempo pare essere migliorato e attraverso le finestre dell’albergo spalancate arriva la musica dell’orchestra. Sofia si annoia un po’, è l’unica donna al tavolo e cerca di distrarsi ascoltando le note di Danubio Blu. Tra gli invitati c’è anche il dottor Sunaric, il vice presidente del parlamento, che prima del viaggio in Bosnia della coppia li aveva messi in guardia: «l’umore dei bosniaci potrebbe non essere buono», aveva detto all’Arciduca, «c’è da stare attenti». Sofia, dopo due giorni passati tra scuole e ospedali, la pensa esattamente al contrario e si avvicina al dottore per dirglielo: «Dottore, alla fine si sbagliava», gli dice sorridendo, «le cose non vanno sempre come lei crede. Tutte le persone che ho incontrato mi hanno dimostrato il loro sincero affetto, erano sorridenti e cordiali. Siamo molto contenti di essere venuti». Il dottore, però, non ricambia con il sorriso. «Prego Dio, vostra Altezza, che domani sera quando vi rivedrò potrete ripetere le stesse parole che mi avete appena detto».
Non accadrà.
Nel frattempo, a Praga, Čapek vede finalmente arrivare la sua amica e piega il giornale, Kafka è seduto a tre tavolini di distanza. Ha davanti un quaderno che sembra un diario, e sta leggendo in silenzio una storia che ha scritto un paio di notti prima. Parla di un confronto tra Dio e l’uomo, cita un angelo e non verrà mai pubblicato. Ma Kafka non è abbattuto perché quel racconto non funziona e nemmeno perché non voleva tornare a Praga. È inquieto perché sta vivendo una delle sue peggiori crisi esistenziali e non sa cosa scegliere: da una parte la vita, l’amore e la famiglia, incarnati nel suo fidanzamento con Felice Bauer di inizio del mese, dall’altra la scrittura.
Quella notte, mentre nell’hotel di Ilidze l’Arciduca e la principessa intrattengono gli ospiti, a Praga, Kafka non chiude occhio, a Cape Town, Gandhi vede finalmente uno sbocco alla sua protesta civile che dura da anni e, a Sarajevo, un gruppo di giovani serbo bosniaci si ritrova in una rinomata ma economica vineria della città. I loro nomi sono Danilo Ilić, Vaso Čubrilović, Nedeljko Čabrinović, Trifko Grabež, Gavrilo Princip, Muhamed Mehmedbašić e Cvjetko Popović. Un paio d’ore prima Ilić ha distribuito una pistola e una bomba a mano a testa, delle munizioni e una pillola di cianuro, per non farsi arrestare vivi. Ma le armi non bastano, Grabež e Čabrinović rimangono senza.
Quei ragazzi sono i membri di un’associazione nazionalista serba che si chiama La mano nera. A un certo punto uno dei più giovani si mette in piedi e prende la parola. È Gavrilo Princip, è scuro in volto e alza un calice di vino rosso — un ottimo rosso di Mostar consigliato loro dal cameriere — poi chiude il brindisi con queste parole: «Morte ai tiranni!».
Nello stesso momento, all’Hotel Bosna, il sommelier porta una bottiglia di rosso al tavolo di Francesco Ferdinando e della moglie Sofia. L’Arciduca lo assaggia e apprezza, poi chiede di che vino si tratta.
«Vostra Altezza, si tratta di un vino rosso molto pregiato, viene da Mostar», dice il sommelier.
«È veramente ottimo, ragazzo», gli risponde l’Arciduca asciugandosi i baffi dopo essersi portato il bicchiere alla bocca.
La mattina di domenica 28 giugno 1914, Sarajevo si sveglia sotto un bel sole, finalmente estivo, ma non per tutti la giornata è di festa. È il giorno di San Vito, una ricorrenza importante per i nazionalisti serbi, che sei secoli prima, nel 1389, avevano perso la battaglia di Blackbirds contro i turchi.
Sono le 8, Ilić, Grabež e Čabrinović si ritrovano al Caffé Turco e gli ultimi due sono molto nervosi. Ilić passa da sotto al tavolo una bomba a mano a Čabrinović, una pistola e delle munizioni a Grabež. Ora tutto il commando è armato, sono pronti ad agire.
Circa mezz’ora dopo, all’Hotel Bosna, Francesco Ferdinando detta al suo attendente due telegrammi. Il secondo, diretto ai tre figli, dice: «Mamma e papà stanno bene e non vedono l’ora di essere di nuovo tutti insieme giovedì». Poi congeda l’attendente, prende il braccio della moglie e si dirige con lei alla Cappella, a pregare.
Alle 9 e un quarto, dopo la preghiera, i due prendono un treno per Sarajevo, dove li aspetta una città addobbata a festa, con fiori e bandiere. Per i due è un giorno speciale: è il 14esimo anniversario del loro matrimonio, ma è anche un’occasione unica. Per la prima volta Sofia sarà autorizzata a viaggiare seduta nella macchina insieme al marito, cose che a Vienna le è vietata.
Sono le dieci in punto quando i cannoni della città di Sarajevo sparano 24 colpi a salve per salutare la coppia, Čabrinović ha una mano nella tasca e accarezza una granata. Dodici minuti dopo, appena si vede passare davanti l’auto su cui viaggia Francesco Ferdinando e la moglie Sofia, l’uomo fa un respiro e tira fuori la granata dalla tasca. La innesca e la lancia verso l’auto, ma il guidatore, che ha sentito il rumore dell’innesco e per riflesso ha accelerato, riesce a evitare l’ordigno, che rotola per strada. Mentre l’auto passa e la granata esplode sotto un’altra macchina del corteo, Čabrinović ha l’impressione che l’Arciduca gli lanci uno sguardo gelido di sfida. Poi l’Arciduca fa cenno ai suoi che il corteo deve procedere. «È solo un pazzo», dice, «andiamo avanti tranquillamente».
Subito dopo l’esplosione Čabrinović sa di aver fallito il bersaglio e di avere poco tempo. Non deve farsi prendere vivo, così gli altri ragazzi potranno completare quello in cui lui ha fallito. Non ci pensa due volte, ingoia la pillola di cianuro e si lancia nel fiume. Ma il fiume è praticamente a secco e il veleno non funziona a dovere, Čabrinović viene fermato da un barbiere, che lo stava inseguendo dal primo istante, e che lo consegna alla polizia. Ha rimediato solo una gran botta e un mal di pancia devastante. Ora verrà interrogato.
A Praga la notte non ha portato sollievo a Franz Kafka, che ovviamente non sa ancora nulla di quanto sta succedendo a Sarajevo, e continua a pensare a cosa fare con la sua ragazza Felice. A Cape Town, invece, Gandhi si è svegliato fiducioso: i colloqui con Smuts paiono andati bene, e la proposta di legge molto probabilmente passerà.
Mentre Čabrinović viene trascinato al commissariato dalla polizia, i suoi compari cercano di mantenere la lucidità e di continuare il piano. Secondo i programmi, se avesse fallito Čabrinović, sarebbe toccato a Cvjetko Popović, ma quest’ultimo, dopo aver udito la prima esplosione, ha sentito il cuore nel petto esplodergli, ha gettato le armi in un angolo nascosto di un vicolo e si è allontanato dalla scena. «Ho perso il coraggio», dirà poi al processo.
Due su tre hanno fallito, e se uno è libero, l’altro è nelle mani della polizia, nel frattempo il corteo continua il percorso e arriva al municipio, dove il sindaco li sta aspettando per tenere il suo discorso di benvenuto. L’Arciduca è teso, l’esplosione sul percorso l’ha scosso e, appena vede il sindaco, sbotta: «Signor Sindaco, uno viene qui in visita e viene ricevuto a bombe a mano? È inaccettabile». Poi, respira, si guarda intorno e, calmandosi un po’, aggiunge: «Va bene, potete continuare». Il sindaco non se lo fa ripetere e attacca con il discorso che si era preparato: «Vostra Altezza Reale e Imperiale», dice rivolgendo lo sguardo verso l’Arciduca, «Vostra Altezza», si gira verso Sofia e poi attacca: «I nostri cuori sono colmi di felicità».
È una scena un po’ surreale, ma dura poco, nel giro di due minuti il sindaco è già arrivato in fondo, e conclude: «Benvenuti! E lunga vita ai nostri ospiti!».
Sono circa le dieci e mezza. A Roma, nella sua casa di via Bosio, Luigi Pirandello è sveglio da almeno un paio d’ore e sta leggendo il giornale. È il suo compleanno — ne fa 47 — ed è depresso. Ma non tanto per l’età che avanza, quanto perché il successo che aveva sperato di ottenere con Il fu Mattia Pascal, il suo primo libro, non è arrivato: anche se è piaciuto molto ai lettori, i critici l’hanno accolto freddamente e lui non ne è affatto contento. In più, la moglie Maria Antonietta Portulano da cinque anni è impazzita e, tra crisi di gelosia e sfoghi di ogni tipo, gli sta rendendo la vita un inferno. Un destino che condivide con Franz Kafka, che intanto a Praga sta ancora cercando di decidere se scegliere l’amore o la letteratura. Anche se ancora non lo sa, in realtà non ha scelta.
Intanto, a Sarajevo, il 19enne Gavrilo Princip ha lasciato il suo posto previsto dal piano — sul ponte Laitener — e si è spostato lungo la strada principale, quella dei negozi e delle boutiques. Mancano pochi minuti alle 11, Princip ha una pistola nella giacca, sta cercando di capire cosa fare, mentre il corteo si sta muovendo. In quell’istante incontra per caso un amico, Mihailo Pusara, che gli chiede se ha sentito della bomba. Princip fa finta di nulla, ma intanto è visibilmente inquieto, si guarda intorno, aspetta un segno dai compari, non sa cosa fare.
A quel punto succede qualcosa di imprevisto. Il corteo del principe ereditario, l’Arciduca Francesco Ferdinando, sbaglia strada per un’incomprensione tra autisti e sbuca proprio davanti a Princip, ma deve fermarsi per invertire la marcia. Succede tutto in pochi istanti: l’autista inchioda, Gavrilo Princip interrompe istantaneamente il discorso con il suo amico, si gira verso la macchina — che ha proprio di fronte — tira fuori la pistola e spara due colpi. Il primo colpisce al collo l’erede al trono, il secondo ferisce all’addome la moglie. Nei concitati istanti che seguono i colpi nessuno sembra capire cosa sia successo, nemmeno i protagonisti. Sofia vede il sangue uscire dal collo del marito e urla: «Oh mio Dio! Che cosa ti è successo??!» per poi accasciarsi sulle ginocchia del marito. L’Arciduca, ferito e sanguinante, è l’unico che si è accorto che anche la moglie è stata ferita e le urla «Sofia! Sofia! Sofia! Non morire, Sopravvivi per i nostri figli!».
Nello stesso istante, al commissariato di polizia, un agente interroga Čabrinović, che ha un mal di pancia devastante dovuto al cianuro e chiede di essere lasciato in pace. Il poliziotto che lo interroga però non lo molla:
«Per conto di chi hai agito?», gli chiede urlando.
«Per conto della nostra organizzazione»
«Quale diavolo di organizzazione?»
«Vi dirò tutto più tardi»
«Hai dei complici? Chi sono?»
Čabrinović a quella domanda non può rispondere e prende tempo, rifiutandosi di aggiungere altro.
Iniziano a girare un po’ le voci, si dice che l’Arciduca e la principessa siano gravemente feriti, e anche che due preti si stanno dirigendo verso l’ospedale dove giacciono. Li hanno chiamati perché non c’è più niente da fare, e infatti, alle 11.31, poco dopo il loro arrivo, le campane iniziano a suonare a morto e i medici dichiarano il decesso dell’Arciduca Francesco Ferdinando e della moglie Sofia. Intanto, un passante salta addosso a Princip, che stava per puntarsi la pistola alla tempia e sparare, riesce a fermarlo e lo fa arrestare dalla polizia. Da quel momento la notizia della morte dell’erede dell’imperatore inizia a diffondersi con un telegramma dettato da Sarajevo e diretto a Vienna.
Tra i primi a venire a sapere la tragica notizia c’è l’Imperatore Francesco Giuseppe, il Kaiser Guglielmo II e Papa Pio X che, raggiunto da un telegramma cifrato nelle sue stanze in Vaticano, rimane talmente scioccato da farsi portare un bicchiere di cordiale all’istante.
In quelle stesse ore, a Rambouillet, un ragazzo che ha appena vent’anni e di nome fa Louis Ferdinand Destouches capisce che la guerra si avvicina e che lui sarà in prima fila. Solo dopo comincerà a scrivere, e si firmerà Céline. Nel mentre, a Londra, il piccolo Eric Arthur Blair ha appena compiuto 11 anni e inizia a scrivere una poesia che verrà pubblicata a ottobre sull’Henley and South Oxfordshire Standard. Inizia così:
«Oh! give me the strength of the Lion,
The wisdom of Reynard the Fox
And then I’ll hurl troops at the Germans
And give them the hardest of knocks.»
È una delle poche cose che Eric Blair pubblica con il suo vero nome, tutto il resto lo firmerà come George Orwell.
Arrivata la sera del 28 giugno 1914, la notizia della morte dell’Arciduca ha fatto il giro del mondo. Il Papa beve un cicchetto, il Kaiser piange la morte di un amico e l’Imperatore Cecco-Beppe quella di un nipote — che non adorava — e di un erede al trono; Kafka decide di mollare la fidanzata, Orwell comincia a scrivere, Céline capisce che partirà per il fronte e Gandhi si prepara a conquistare la prima vittoria politica della non violenza. Mentre in tutta la cristianità le campane suonano a morto, mentre nei gabinetti militari di mezza Europa si prepara quello che sarà il più violento conflitto di sempre, comincia improvvisamente il secolo breve.
***
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Una serie che è anche un libro e che racconta, minuto per minuto, i giorni che hanno cambiato la storia del ‘900, o meglio, del Secolo breve.
Alle 2 e 40 del mattino del 27 ottobre del 1922, a Milano, la notte non è ancora fredda, ma il cielo è molto coperto. Per le ore successive ci si aspettano forti piogge.
Cosa c’è di più letterario di un libro che annulla il tempo? O meglio: cosa c’è di più letterario di un libro che svela il tempo? Andrea Coccia ha scritto un’opera con un’idea semplicissima e stupefacente: prendiamo un giorno in cui un evento sta succedendo, ma non fermiamoci lì.
Mancano pochi minuti alle cinque della sera di sabato 27 giugno 1914. In una stanza dell’Hotel Bosna di Ilidze, vicino a Sarajevo, ricolma di opere d’arte di ogni tipo fatte arrivare dagli collezionisti della città, l’Arciduca Francesco Ferdinando sta finendo di scrivere una lettera.
Alle 2 e 40 del mattino del 27 ottobre del 1922, a Milano, la notte non è ancora fredda, ma il cielo è molto coperto. Per le ore successive ci si aspettano forti piogge.
«Ça avait débuté comme ça…», nella notte parigina, in un sottotetto al terzo piano di un palazzo anonimo al 98 di rue Lepic, a Montmartre, Louis Ferdinand Destouches rilegge febbrilmente un testo di una decina di pagine che ha buttato giù di getto qualche nottata prima, in gran segreto. È la notte del 28 ottobre del 1929 e sono ore che ci lavora.
Quando qualche minuto dopo rilegge la lettera, prima di firmare, senza accorgersene sorride compiaciuto della sua nuova carta intestata. In alto c’è stampato Les édition Denoël&Steele, il nome della sua casa editrice. E mentre lui, Robert Denoël, guarda il suo nome sulla carta intestata e sorride, non lo sa ancora che quel film non si farà mai.
Le giornate non hanno ancora cominciato ad accorciarsi. In uno degli uffici della sede della Stampa che si affaccia su via Roma, il direttore Concetto Pettinato, scelto direttamente da Benito Mussolini, sta decidendo il titolo per il suo editoriale sulla presa di Roma da parte del nemico alleato, avvenuta quello stesso pomeriggio.
Il 24 aprile è un martedì. E mentre alle 11 e 50 del mattino Orwell è a Stoccarda e cammina nelle macerie, a Milano, nell’ufficio di Corrado Franzi, direttore della filiale milanese della Banca Commerciale, suona il telefono. Dall’altra parte dell’apparecchio c’è un suo collega di Genova e quel che ha da dirgli è una cosa molto importante: la città è insorta.
A Londra sono le quattro e mezza del pomeriggio. Stanley Kubrick sta lavorando sodo. Ama avere tutto sotto controllo. Per questo scrive il soggetto, la sceneggiatura, dirige, monta e si preoccupa perfino della fase di lancio di tutti i suoi film.
La storia dell’attentato alla stazione di Bologna, minuto per minuto.
Per non dimenticare.
Vista dall’estero è un modello, un caso di studio e un vanto per la città di Milano, solo che vista da Milano praticamente non esiste
Quasi soltanto a parole, o in qualche report finanziato da progetti europei. Nella realtà le cose sono ancora molto indietro
È un progetto italiano finanziato dall’Europa, mette insieme AI, analisi dei dati e progettazione urbana ed è già a disposizione del Comune di Milano