Ep. 2

Milano è una trappola di calore, e sarà sempre peggio

Lo è per tanti motivi, ma soprattutto per scelte urbanistiche e politiche. Le cose potrebbero migliorare, ma non sta succedendo

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Nel 2023, più di 45.000 persone sono morte in Europa a causa del caldo, con i Paesi del sud in cima alla lista. Tuttavia, esistono soluzioni adattive disponibili.

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Brutti segnali e panchine bollenti

Il 2 agosto 2024, sulle pagine del quotidiano online Milano Today, appare un articolo intitolato “A Milano temperature da paura”. All’interno del pezzo vengono citati due esempi clamorosi: i gradini della statua di Vittorio Emanuele II, al centro di piazza Duomo, e le panchine di piazza San Babila. I primi avrebbero superato i 60 °C, le seconde i 50 °C. 

 

Le panchine ustionanti sicuramente fanno paura, ma sono solo un dettaglio del quadro più ampio e ancora più spaventoso: le nostre città stanno diventando sempre più invivibili a causa del caldo estremo.

 

I dati e le ricerche sul tema degli ultimi anni lo dicono in maniera inequivocabile: la temperatura delle città dell’Europa meridionale sta aumentando. Questo effetto è legato alle cosiddette isole di calore urbano (urban heat island in inglese), zone di calore estremo provocate dalla eccessiva urbanizzazione, dall’uso di asfalto e cemento e dalla mancanza di alberi e di verde. 

 

In un’isola di calore urbana si possono riscontrare temperature più alte anche fino a 8 °C rispetto a quelle dei territori extra urbani e le conseguenze sulle persone che in città ci vivono, ci studiano e ci lavorano possono essere molto gravi. Per le fasce più deboli, sia demografiche che sociali, ovvero anziani, bambini, poveri e alcune categorie di lavoratori, il pericolo è ancora più alto..

Non accadrà domani. Sta succedendo ora.

Malgrado la sensazione diffusa di un’estate segnata da piogge e “più fresca” degli anni precedenti, secondo i dati pubblicati a fine settembre, l’estate 2024 a Milano è stata la più calda dal 2003. Nel comunicato dell’Osservatorio Meteorologico Milano Duomo ETS si legge: «Con 26,4 °C di media l’estate 2024 supera infatti di ben 1,7 °C la media CLINO (CLimatological NOrmal, periodo di riferimento utilizzato dall’Organizzazione Meteorologica Mondiale, ndr) dello stesso periodo 1991-2020 e addirittura di 3,2 °C quella 1961-1990». 

 

Sempre secondo i dati dell’Osservatorio milanese, il pericolo è alto: «Considerando l’indice Humidex (utilizzato per valutare il livello di discomfort termoigrometrico, in presenza di temperature elevate e alti tassi di umidità), nell’estate 2024 sono state registrate 96 ore con Humidex maggiore o uguale a 40 °C, soglia considerata di “pericolo” per l’uomo». Oltre quella soglia, il pericolo potrebbe diventare mortale

Secondo uno studio effettuato su oltre 800 città europee e pubblicato su The Lancet Planetary Health nel marzo del 2023, l’impatto del calore estremo sulla aspettativa di vita della popolazione che vive nei centri urbani surriscaldati è molto alto. Soprattutto per le fasce più deboli.

 

La stima per la città di Milano, nella fascia di età over 85, quella naturalmente più esposta a tutte le patologie che il calore estremo genera, acutizza o rende croniche, è una variazione calcolabile in circa 500 morti all’anno. Ma a soffrire sono anche i bambini sotto i dieci anni, gli anziani tra i 65 e gli 80 anni, i lavoratori esposti al sole diretto durante le ore più calde della giornata, le persone senza fissa dimora, ma anche tutti coloro che vivono in condizioni di povertà energetica e non hanno il privilegio di avere l’aria condizionata.

 

Torniamo un momento alle panchine di piazza San Babila, quelle piastre ustionanti da cui siamo partiti. Alla luce di tutto ciò che abbiamo detto fin qui, e in particolare di quest’ultimo report che abbiamo citato, è un punto di osservazione interessante.

 

Dopo lunghi lavori coincisi con la costruzione della quarta linea della metropolitana, nel luglio del 2024 — un mese prima dell’articolo di Milano Today — piazza San Babila è stata riaperta al pubblico nella sua nuova veste. Si tratta di circa 6000 mq, resi interamente pedonali e ricoperti di cubetti di granito in continuità con largo Toscanini. A chi ci passa non può sfuggire un dettaglio: non c’è nessun tipo di ombra o di riparo dal sole. Gli unici 3 alberi sono in Largo Toscanini, isolati l’uno dall’altro: sembrano nascere dal cemento. 

 

Non è stata una dimenticanza. Dalle immagini dei render del progetto, pubblicato nel maggio del 2020, è evidente che di alberi non ne sono mai stati previsti.

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Progetto di rinnovamento urbano delle zone Verziere e San Babila, Milano 2020

Sappiamo cosa bisogna fare, ma sembriamo incapaci di farlo

«Oltre a piazza San Babila, le posso citare due esempi dello stesso tipo: Largo Augusto e Piazza Castello». A parlare è Carlo Monguzzi, storico consigliere comunale dei Verdi e anima dell’ambientalismo milanese. «Tutte e tre sono progetti di rifacimento», continua. «Significa che non bisognava rimuovere l’asfalto apposta. Era già stato sventrato tutto per i lavori della metropolitana. E allora perché hanno usato cemento e fastidioso calcestre che si alza col vento quando c’erano tutte le possibilità di mettere aiuole e alberi adatti?»

 

Già, perché? Perché, nel 2024, si può ancora inaugurare una piazza di 6000 mq senza alberi? A cosa è servito aver speso 1 milione e 300mila euro di cui 670mila provenienti dall’Unione Europea per trovare le soluzioni se poi queste soluzioni non vengono applicate? 

 

«Si tratta di amministratori che ormai fanno solo comunicati stampa, che curano la loro immagine, chiacchierano tanto ma di azioni non ne fanno», continua Monguzzi. «La cosa che a me fa più senso è che le cose che diciamo noi ambientalisti ci sono nel programma con cui ci siamo presentati agli elettori e che è stato votato. Solo che poi non sono state fatte. È incredibile vero?». 

 

«Questo è il tempio del greenwashing», conclude, «tante belle parole e di concreto assolutamente niente».

 

Il tema di una amministrazione che dice, annuncia, promette, ma che poi sembra non fare mai veramente, è un tema che ricorre e che ci hanno riferito tutte le persone che abbiamo intervistato per questa inchiesta. 

 

Tra di loro c’è Elena Granata, professoressa di Urbanistica al Politecnico di Milano, che mette a fuoco il problema così: «Oggi c’è un gap tra le tantissime informazioni che sappiamo, e che provengono da una pluralità di fonti che producono dati molto localizzati su come sta cambiando l’impatto del clima sulle città, e la capacità di decidere, pianificare e trasformare le città da parte delle amministrazioni», spiega.. «In mezzo, in quel gap», continua «c’è la difficoltà delle amministrazione di mettere a terra dati e soluzioni, ma soprattutto c’è la mancanza di volontà, una cosa molto complicata da gestire». 

 

Granata punta il dito su una contraddizione: «Il problema di Milano», spiega, «è che i suoli liberi, quelli che potremmo sfruttare per la mitigazione della crisi climatica, sono esattamente gli stessi che producono rendita. C’è un conflitto intorno alle stesse aree, che sono sempre meno. Diciamo di volerle destinare alla gestione del rischio climatico, ma nella realtà sembra che non si possa fare altro che consacrarle all’altare del consumo di suolo e della densificazione. Questo è quello che sta accadendo: sappiamo cosa fare ma\ non abbiamo la forza politica, economica e culturale per farlo».

Questa inchiesta a puntate è stata prodotta grazie al supporto di Journalism Fund Europe.

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