L’ospite inatteso
«Senza la lievito il mosto non può diventare birra».
Il percorso che ha portato Yvan a fare della birra l’attività centrale della propria vita è stato complicato e inaspettato.
La produzione di birra in Belgio è in grande trasformazione, tra nuovi luppoli e cambiamento climatico.
Lungo la Senne che attraversa Bruxelles c’è un piccolo plesso industriale fatto di capannoni grigi, pozzanghere che riflettono il cielo nuvoloso e piccoli ciottoli di asfalto che entrano dentro le scarpe. Alla fine del viale centrale, circondato da fabbriche e depositi, c’è una struttura circondata da un cantiere. Al di là della porta centrale di ingresso l’odore polveroso di ruspe e calcinacci si trasforma in un profumo caldo e avvolgente di cereali tostati e dorati.
Ad accompagnarci c’è Yvan De Baets, un uomo biondino sulla cinquantina. «Benvenuti nel mio mondo» dice chiudendo la porta centrale dietro di sé e accogliendoci con un gesto ampio del braccio sinistro.
Contro ogni aspettativa suggerita dall’esterno, siamo appena entrati in uno dei birrifici più importanti di Bruxelles. Solo pochi anni fa questo gesto in questo posto sarebbe stato impossibile.
La passione di Yvan per la birra viene da lontano, dalle sue prime serate adolescenziali tra amici. Eppure il percorso che lo ha portato a far di questa bevanda l’attività centrale della propria vita è stato complicato e inaspettato. «Ho studiato scienze politiche e per anni ho lavorato come operatore sociale a Bruxelles» spiega con una voce profonda e calda. «In quegli anni la birra era un modo per divertirsi e per costruire o alimentare i rapporti umani. Coi colleghi, con gli amici, con semplici sconosciuti incontrati al bar. Erano gli anni neri della birra di Bruxelles».
Il Belgio ha una lunga tradizione birraria. La Chiesa Cattolica autorizzò alcune abbazie belghe a birrificare già nel XII secolo, contribuendo così a creare una cultura della birra che nel 2016 è stata inclusa nella lista delle eredità culturali intangibili dell’umanità.
Nonostante ciò, Il Novecento è stato un secolo nero per l’industria birraria belga, complici anche due conflitti mondiali in cui il Paese fu invaso dalla Germania e sottoposto a forti limitazioni, compresa quella dell’utilizzo di metallo e acciaio necessari alla produzione di birra. Bruxelles ha rappresentato bene questa tendenza. Tra gli anni Sessanta e Ottanta i birrifici di Bruxelles hanno iniziato a chiudere uno dietro l’altro. Erano varie decine a inizio secolo, poi poche decine, poi poche unità. Tra il 1988 e il 2005 l’unico birrificio rimasto in città era Cantillon, un marchio storico specializzato nella produzione di birre a fermentazione spontanea, come i lambic, le gueuze e le kriek.
«La birra racconta benissimo questa città» dice Eoghan Walsh, irlandese trapiantato a Bruxelles e fondatore del blog Brussels Beer City. «Era una città operaia, proletaria e industriale, piena di birrifici che davano lavoro ma anche soddisfazione del palato dopo i turni in fabbrica. Poi il mondo è cambiato, l’industria si è sgonfiata, gli operai hanno perso il lavoro e i birrifici hanno chiuso» spiega sorseggiando una birra alla spina in un pub. «Bruxelles si è poi gentrificata. Sono arrivati gli artisti e i turisti, la città si è trasformata. Ma le zone industriali sono rimaste relativamente economiche. Ed ecco quindi che i birrifici sono tornati, ma questa volta più cool: più giovani, alternativi, sostenibili».
Oggi a Bruxelles ci sono circa dieci birrifici. Se nel 1900 ogni cittadino belga beveva in media 200 litri di birra all’anno, oggi questa cifra si attesta a 84, dopo un minimo storico raggiunto intorno agli Anni Ottanta. Negli ultimi dieci anni il consumo di birra in Belgio è diminuito in modo lento ma costante.
«Ad un certo punto realizzai che quella passione che avevo fin da ragazzino avrebbe dovuto giocare un ruolo più importante nella mia vita. Iniziai a studiare birra: sia la degustazione che la produzione» spiega Yvan.
Bruxelles sembra una città, ma è più un alveare in cui le singole celle non sono quartieri, ma comuni autonomi. A sudovest della città, a pochi passi da Saint Gilles e dal palazzo di giustizia, c’è Anderlecht, dove sorge la sede storica di Cantillon.
La sede del birrificio, piccola, buia e in legno, assomiglia più a un tempio che non a un impianto produttivo. Ci sono capannelli di appassionati in fila che vengono da tutto il mondo per visitarla. Frank ad esempio viene dal Regno Unito. Nello stesso giorno in cui il suo Paese esce dall’Unione Europea, il Parlamento intona Auld Lang Syne e le piazze di Bruxelles si illuminano dei colori della Union Jack, lui è venuto in città per bere la birra lambic più famosa al mondo. John e Liam invece sono venuti dal Canada per provare a migliorare la birra che producono insieme a casa propria.
Danielle French lavora qui da poco più di due anni. Con passi sicuri mostra il processo produttivo che la famiglia Cantillon ripete fedelmente uguale a se stesso fin dal 1900, anno in cui fu fondata l’azienda. Con una gestualità ben consolidata indica i macchinari, la loro funzione, il ruolo dei batteri e dei lieviti selvaggi e la magia con cui gli umani possano utilizzare le caratteristiche naturali della fauna di microrganismi per dar vita a un prodotto raro e prezioso. Racconta di una birra che fermenta da sola, che fa dell’acidità il proprio marchio di fabbrica e che grazie alle botti in rovere o castagno impiegate per l’invecchiamento acquisisce un sapore non replicabile.
Ma bastano due sole parole per trasformare la sicurezza in sé in dubbio e costernazione: climate change.
«La birrificazione di una birra a fermentazione spontanea può essere realizzata solo con una temperatura esterna vicina agli zero gradi, e comunque compresa tra i -5 e i 5 gradi» spiega Danielle. «Il problema è che il riscaldamento globale, qui, ha accorciato e mitigato gli inverni, riducendo il periodo in cui è possibile produrre». Cantillon ha sempre birrificato nel periodo che da fine ottobre andava fino a dicembre, e poi dalla metà di gennaio fino a fine febbraio. Ora i cambiamenti climatici stanno accorciando il periodo utile alla produzione.
Tra l’ottobre del 2015 e il dicembre 2019 i periodi in cui si è registrata una temperatura compresa nell’intervallo utile di produzione sono stati pochi. Al caldo eccessivo di fine 2015 hanno fatto seguito dei mesi freddi tra gennaio e metà marzo del 2016. Nel 2017 Cantillon ha birrificato a metà ottobre, mentre nel 2019 ha dovuto aspettare metà novembre per avere le giuste temperature. «Ad oggi siamo riusciti a mantenere la produzione costante grazie ad un lavoro molto più intenso, poiché concentrato in un minor lasso temporale. Ma se gli inverni continueranno così, prima o poi dovremo cedere e tagliare la produzione» dice Danielle.
Il metodo produttivo è allo stesso tempo il punto di forza e debolezza di Cantillon. Trattandosi di una piccola nicchia del mercato della birra, l’azienda è riuscita a sopravvivere alla crisi dei birrifici di Bruxelles, potendo fare affidamento su pochi clienti molto affezionati e slegati dalle recenti mode luppolate del settore. Ma ora impedisce al birrificio di far fronte alle sfide imposte dal clima che si trasforma.
«Noi abbiamo bisogno di spazio e di tempo. Lo scriviamo dappertutto, anche sulle pareti: “il tempo non rispetta ciò che è fatto senza di lui”. Ed è vero, noi produciamo poco e lentamente, abbiamo bisogno di spazi precisi e dei microrganismi che si insediano naturalmente nel nostro edificio» conclude Danielle.
«C’è una cosa che negli anni ho capito e che vorrei trasmettere alle altre persone. E cioè che la birra è un essere vivente. Ha una forte dipendenza dall’ambiente esterno, tende a modificarsi, a invecchiare fino a morire. E poi se la sai ascoltare, riesce a parlarti» spiega Eoghan Walsh, seduto in un pub in legno accanto alla Borsa di Bruxelles. «Se io ad esempio inizio a usare dei malti, dei frumenti, dei luppoli, dell’acqua e dei lieviti che vengono dal mio quartiere, allora quella birra avrà il sapore del mio quartiere. Se invece un birraio seleziona ingredienti che vengono da molti posti diversi, allora probabilmente quella birra avrà il sapore di quel birraio».
«In definitiva, la birra ti parla del luogo da cui viene e delle persone da cui viene fatta. È solo che devi imparare ad ascoltarla».
Ma di cosa inizia a parlare la birra se il clima tutt’intorno si trasforma? Una ricerca scientifica pubblicata da Nature Plants nel 2018 ha stimato che nell’arco di ottant’anni i cambiamenti climatici porteranno a una forte modifica del mercato della birra. I ricercatori hanno dimostrato che in corrispondenza di eventi climatici estremi la produzione di materie prime necessarie alla produzione di birra diminuisce. In particolare, il Belgio è annoverato tra i Paesi che maggiormente soffriranno della mancanza di orzo poiché fa grande affidamento sulle importazioni.
La ricerca ipotizza che in futuro la birra verrà prodotta in quantità minori e a prezzi maggiori. Nello scenario peggiore, Paesi come Polonia, Repubblica Ceca, Belgio, Canada e Irlanda potrebbero vedere il prezzo medio della birra aumentare di una percentuale compresa tra il 93% e il 377%.
Sono solo ipotesi e previsioni, ma serie, ben documentate e analizzate scientificamente.
«La modifica del clima e della ciclicità delle stagioni avrà sicuramente un impatto sulla produzione di birra. È difficile prevedere come, ma oltre a bere di meno e a un costo più alto probabilmente berremo meno luppolato e con sapori che non conosciamo, perché risultato di soluzioni ancora inesplorate. Nuovi ingredienti, nuove tecniche produttive» dice Eoghan.
Anche Yvan racconta delle proprie preoccupazioni mentre cammina nel proprio birrificio. «La birra ha un forte legame con la terra, e quando la terra soffre, soffre anche la birra. Sono piuttosto certo che i nostri nipoti non conosceranno la birra per come la conosciamo noi, perché i malti e i luppoli stanno cambiando e le qualità storiche moriranno».
Il luppolo è una pianta rampicante i cui fiori verdi vengono utilizzati dai birrai per aromatizzare, amaricare e insaporire la birra. Nell’ultimo decennio il mercato globale della birra si è espanso molto, e ha aumentato notevolmente l’impiego di luppolo a freddo per enfatizzarne la componente aromatica e conquistare fette più ampie di clientela. Il mercato del luppolo ha avuto un forte aumento della domanda, rendendo paesi quali Stati Uniti e Germania attori centrali di un business divenuto molto profittevole in pochi anni.
Secondo Hop Growers of America, la no-profit che unisce i produttori di luppolo statunitensi, il prezzo della materia prima è schizzato dai circa due dollari per pound (cioè circa 454 grammi) del 2004 ai più di quattro dollari del 2008. Dopo un breve periodo di diminuzione, nel 2011 il prezzo ha ripreso a crescere senza sosta.
Tuttavia il luppolo è una pianta che richiede attenzioni. Nonostante resista bene a temperature anche molto rigide, ha bisogno di grandi quantitativi di acqua: fino a 10 litri al giorno per singola pianta. Siccità e aumento delle temperature ne faranno ben presto diminuire la produzione. Inoltre negli Stati Uniti, di gran lunga il maggior produttore di luppolo al mondo immediatamente dopo la Germania, ai contadini sono stati imposti dei limiti di utilizzo d’acqua che hanno avuto un impatto negativo sulla produzione.
«Il luppolo costa sempre di più perché ne è aumentata la domanda, visto che rende il prodotto più pop» spiega Yvan. «Ma a breve ne diminuirà anche l’offerta, e i prezzi saliranno ulteriormente. Si arriverà ad avere birre luppolate che costeranno come l’oro» conclude.
La produzione di birra in Belgio è in grande trasformazione, tra nuovi luppoli e cambiamento climatico.
«Senza la lievito il mosto non può diventare birra».
Il percorso che ha portato Yvan a fare della birra l’attività centrale della propria vita è stato complicato e inaspettato.
«Senza la lievito il mosto non può diventare birra».
«I consumatori stanno sempre più abbracciando un approccio del tipo meno è meglio quando devono scegliere bevande alcoliche».
Questo episodio potrà sembrare merce per appassionati ma, in realtà, tratta di politica. Quella molto spiccola.
In Africa, la cannabis fu introdotta all’inizio del XVI secolo dall’Asia meridionale e, da allora, la sua cultura si è diffusa in tutte le sottoregioni.
Il Piano Mattei è una mezza paginetta molto vaga con cinque aree tematiche di intervento nei prossimi anni.
La crisi del debito africano può vanificare ogni sforzo per la transizione energetica globale.