Vita amara
«I consumatori stanno sempre più abbracciando un approccio del tipo meno è meglio quando devono scegliere bevande alcoliche».
«Senza la lievito il mosto non può diventare birra».
La produzione di birra in Belgio è in grande trasformazione, tra nuovi luppoli e cambiamento climatico.
Nei pochi metri che ci separano dal luogo in cui si trova la persona che vuole presentarci, Yvan rimane in silenzio. Cammina con passi sicuri ma solenni, schiena dritta come si stesse preparando a un incontro formale. Sale tre gradini grigi di ferro e dopo qualche passo monta su una piccola scala. Apre un portellone di vetro e acciaio.
«Eccola, lei è la persona più importante dell’azienda». Dal portellone viene un odore amaro e gradevole, dentro c’è un’ombra schiumosa di una strana sfumatura tra il giallo e il marrone.
«Lei è la mia lievito» dice con orgoglio negli occhi.
Il lievito è l’ingrediente che fa fermentare la birra, rendendola alcolica attraverso la metabolizzazione degli zuccheri contenuti nei cereali. I microrganismi del lievito sono però responsabili anche del sapore finale della birra nonché del suo corpo. «Senza la lievito il mosto non può diventare birra» ci spiega Yvan, continuando a parlare al femminile.
«Lei ha un profumo che mi ricorda casa. E poi è delicata. È un insieme di miliardi di organismi che vivono tutti insieme in un equilibrio sottile. Basta uno strumento pulito male per rovinarla. Guardala, guardala, è bellissima».
Una prima traccia di produzione di birra potrebbe risalire a circa il 7000 A.C., e proviene dalla Cina, mentre la prima traccia documentata dell’esistenza della birra proviene dai sumeri, risalente al 3700 A.C. I resti del birrificio più antico mai rinvenuto si trovano in Israele e risalgono a circa 13mila anni fa. Sembrerebbe che gli Europei producano birra da circa 5mila anni. Ma il viaggio che ha portato questa bevanda alcolica dalla Mezzaluna Fertile all’Europa Centrale non è chiarissimo.
Sappiamo ad esempio che i Sumeri bevevano varie tipologie di birra, che Greci e poi i Romani furono i primi europei a conoscere la birra, ma le preferivano di gran lunga il vino. Sappiamo anche che i barbari centroeuropei fermentavano a partire dal miele, e che i vichinghi chiamavano la birra “Aul”, da cui viene il termine “Ale”, che in inglese è ancora oggi sinonimo di “beer” e che in termini tecnici indica una birra ad alta fermentazione, cioè che fermenta a temperature più alte rispetto quelle a bassa fermentazione, le lager.
Nonostante le trasformazioni apportate dai popoli che progressivamente entrarono in contatto con questa bevanda, c’è un elemento comune che lega tutti i produttori di birra fino almeno al Medioevo inoltrato: la birrificazione è sempre stata un’attività prettamente femminile.
«Pensa che la parola “maltster” proviene da un termine declinato al femminile, perché mentre gli uomini cacciavano o lavoravano toccava alle donne cucinare. Sono state le donne a creare le ricette base sulle quali abbiamo elaborato la birra che conosciamo oggi». Ad esempio, l’impiego di luppolo nella produzione di birra è dovuto soprattutto agli studi di Ildegarda di Bingen, santa benedettina vissuta nel XII secolo e nominata dottore della Chiesa nel 2012. Prima di lei per amaricare e aromatizzare la birra si usava un mix di erbe chiamato gruit. Secondo la mitologia sumera esisteva anche una dea creatrice della birra, Ninkasi.
«Ovviamente però quando la birra è diventata un’arte, allora gli uomini si sono arrogati il diritto di essere protagonisti» dice Yvan. La scrittrice e antropologa Patty Hamrick ha spiegato alla versione americana dell’Huffington Post che tutte le iscrizioni relative alla produzione di birra ritrovate in babilonese sono declinate al femminile, con frasi che spesso hanno pronomi come “lei” o nomi propri di donna come soggetti.
«Io credo che il gusto e il tocco femminile nella birrificazione siano non solo percepibili, ma che rappresentino un valore aggiunto. E infatti io ho assunto una mastra birraia. È una questione di sensibilità diverse che si riflettono poi nel prodotto» spiega Yvan.
La mastra birraia in questione si chiama Beth McKenzie, è statunitense e ha poco meno di 30 anni. È arrivata in Belgio dopo uno studio approfondito della birrificazione negli Stati Uniti prima e in Germania poi. «Per me la birra ha tanti aspetti diversi. La si può bere tra amici mentre si ride, o da soli mentre si guarda un film. Oppure la puoi degustare al buio, concentrandoti sulle proprietà organolettiche più nascoste. È una specie di enigma che ogni volta devi decifrare» ci racconta.
«Non mi sono mai sentita discriminata in quanto donna nel mondo della birrificazione, però è una rarità trovarne una» dice Beth. A suo modo di vedere è una questione di differenze generazionali. «La mia è la prima generazione in cui una donna può farsi strada come mastra birraia senza troppi pregiudizi. Ma non era così fino a quindici o venti anni fa».
Non esistono dei dati ufficiali relativi alla presenza femminile nel mondo della birrificazione. Tuttavia, uno studio dell’Università di Stanford ha dimostrato che solo il 20% dei birrifici aperti nel 2014 negli Stati Uniti aveva almeno una donna tra i fondatori, mentre solo il 2% era completamente gestito da donne. Di tutti i birrifici analizzati dalla ricerca, solo il 4% aveva una donna a capo della produzione. In Belgio la prima mastra birraia trappista è arrivata nel 2013.
L’associazione Pink Boots Society è una no profit dedicata alla promozione delle donne nel mondo della produzione di birra. Laura Ulrich, una delle sue fondatrici, spiega che il passaggio della donna da attore attivo a completa assente nel settore birraio è avvenuto a partire dal XVI secolo, quando le leggi sul commercio internazionale tagliarono fuori le donne dalle attività più remunerative. «La buona notizia è che, nonostante le donne siano ancora sottorappresentate, le nuove generazioni sono sempre più consapevoli dell’importanza di un equilibrio di genere» ci spiega Laura.
La prevalenza maschile non si concretizza solo nell’aspetto della produzione di birra. «Sono soprattutto uomini quelli che scrivono di birra, che degustano e criticano la birra, che investono nella birra, che aprono pub o beershop. È tutto l’indotto ad essere fallocentrico» spiega Eoghan Walsh. «E poi il problema vero è nel consumo. Per decenni abbiamo visto e pubblicizzato la birra come un prodotto solo ed esclusivamente per uomini e che per le donne era disdicevole consumare. Ma è ovviamente una stronzata».
Secondo Walsh, nonostante ci sia un trend crescente nella presenza femminile nel settore, il machismo è ancora un grande problema. «Basta guardare il marketing. Molte birre hanno ancora etichette provocanti, pubblicità con tette enormi o donne sensuali e ammiccanti, oppure nomi con doppi sensi a sfondo sessuale. Ma questa cosa non succede col vino, ad esempio. È una questione culturale che sarà difficile sconfiggere perché rappresenta bene la mentalità europea».
Anche se lentamente, la presenza femminile nel settore sta aumentando. La Pink Boots Society, ad esempio, è partita nel 2007 come lista di circa 60 mastre birraie nel mondo: oggi è arrivata a contare più di 2500 iscritte e circa 100 branche regionali. Nel 2019 è riuscita ad offrire 46 borse di studio per aspiranti mastre birraie.
La produzione di birra in Belgio è in grande trasformazione, tra nuovi luppoli e cambiamento climatico.
«I consumatori stanno sempre più abbracciando un approccio del tipo meno è meglio quando devono scegliere bevande alcoliche».
Il percorso che ha portato Yvan a fare della birra l’attività centrale della propria vita è stato complicato e inaspettato.
«Senza la lievito il mosto non può diventare birra».
«I consumatori stanno sempre più abbracciando un approccio del tipo meno è meglio quando devono scegliere bevande alcoliche».
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