Il welfare aziendale a forma di videogioco
La storia di una startup che vuole spingere i dipendenti delle aziende ad avere uno stile di vita sano. Un progetto nato e cresciuto in Sardegna, anche grazie al Fondo europeo di sviluppo regionale
In Veneto i fondi di coesione Ue vengono usati per promuovere benessere e formazione delle lavoratrici e, al tempo stesso, anche per valorizzare il commercio di vicinato. Un progetto dal triplice valore, che però ha trovato qualche difficoltà nel farsi conoscere
Dopo la pandemia, conciliare vita e lavoro è diventata una priorità. Che il welfare aziendale cerca di concretizzare.
Buoni da 200 euro per il welfare aziendale, da spendere per la mensa scolastica, l’asilo o il centro diurno per i genitori anziani. Ma a patto di seguire almeno un corso di formazione di 12 ore. Su questo “scambio” è nato il portale online Conciliarete, creato dall’Ente bilaterale Veneto-Friuli Venezia Giulia e finanziato tra il 2020 e il 2021 con quasi 400mila euro, di cui 199.651 euro provenienti dal Fondo sociale europeo (programmazione 2014-2020) su un bando della Regione Veneto.
Il progetto ha le sue radici nel 2014. Quando ancora in pochi parlavano di welfare aziendale, l’Ente bilaterale regionale e inter-regionale del commercio, servizi e turismo del Veneto e del Friuli Venezia Giulia (riconosciuto da Confesercenti e dai sindacati Filcams Cgil, Fisascat Cisl e UilTucs) creò WelfareNet, una piattaforma che raccoglie, mappa e mette in rete tutti i soggetti che erogano servizi di welfare sul territorio. Non solo welfare aziendale, ma anche welfare contrattuale e territoriale: quindi servizi per la famiglia, il tempo libero, la salute, la formazione e anche la spesa alimentare o per la casa. Una «rete di reti», insomma, creata anche grazie all’affiancamento della società di consulenza Innova srl, specializzata in servizi di welfare 4.0. Partita prima dalle province di Padova e Rovigo, la piattaforma è stata poi estesa a tutta la regione Veneto.
«Su quella esperienza poggia Conciliarete», spiega Marco Palazzo, direttore dell’Ente bilaterale. «L’obiettivo del progetto era quello di sensibilizzare anche le imprese piccole e piccolissime, cioè la grande maggioranza in quest’area, sulle tematiche del welfare aziendale, promuovendo nello stesso tempo il welfare territoriale e valorizzando i servizi virtuosi del territorio».
L’idea di una rete per la conciliazione, Conciliarete appunto, è nata quando la Regione Veneto, nel 2020, ha diffuso il bando “Il Veneto delle donne” con tre linee di intervento: la prima per la formazione delle donne disoccupate (in modo da aiutarle a trovare un lavoro), la seconda per la formazione delle donne occupate (per aggiornare le competenze delle lavoratrici) e la terza per la creazione di un unico progetto che garantisse una forma semplice e automatizzata di erogazione di buoni di conciliazione vita-lavoro alle donne impegnate nei percorsi di formazione.
Da qui si è accesa la lampadina. «Forti dell’esperienza di WelfareNet, abbiamo presentato il nostro progetto che prevedeva questo scambio: alle donne disoccupate o lavoratrici, con Isee fino a 40mila euro, che partecipavano ai percorsi di formazione erogati dalla Regione, veniva data la possibilità di usufruire di buoni di conciliazione da 200 euro al mese, fino a un massimo di 2mila euro», spiega Palazzo. Il buono si poteva ottenere a fronte di almeno 12 ore di corso al mese, per un massimo di dieci mesi. E le tipologie di buono disponibili erano quattro: cura e assistenza di figli e nipoti minori di 14 anni, assistenza di anziani con più di 75 anni, assistenza disabili, copertura dei costi per gli spazi di coworking.
«La logica era non solo “se ti formi ti premio”, ma dare anche alle donne che non avevano tempo per partecipare ai corsi di formazione, a causa degli impegni familiari, il buono per pagare l’asilo, la piscina o l’assistenza per i genitori anziani, in modo da permettere loro di avere tempo per aggiornarsi o crearsi nuove competenze utili, nel caso delle disoccupate, per trovare un’occupazione».
In questo modo, anche le piccole imprese che non offrivano un sistema di formazione per i dipendenti, tantomeno un piano di welfare aziendale, potevano vedere coinvolte le proprie lavoratrici in percorsi di aggiornamento. Tutto senza il minimo sforzo da parte dell’azienda.
Il progetto è stato finanziato, oltre che dal Fondo Sociale Europeo, anche con 139mila del Fondo di rotazione, più circa 59mila di fondi della Regione Veneto.
I corsi di formazione, dal web marketing all’inglese, sono stati erogati, in maniera gratuita, attraverso gli enti di formazione locali accreditati con la Regione. A loro volta, poi, gli enti fornivano alle partecipanti una attestazione di fine corso, attraverso la quale era possibile ottenere i buoni di conciliazione da spendere nei servizi elencati sul portale WelfareNet. Bastava registrarsi sul sito Conciliarete, caricare i documenti in formato digitale, le fatture e inviare la richiesta di rimborso.
«Abbiamo informatizzato tutto», spiega Palazzo. «Non c’era bisogno di presentare la fattura cartacea, come accadeva in passato. Bastava caricare la fattura digitale e in meno di una settimana si otteneva il rimborso sul proprio conto corrente. Le solite lungaggini burocratiche in questo caso erano state del tutto o quasi annullate».
E non si tratta dell’unica peculiarità del progetto. Un’altraè che questi buoni dovevano essere obbligatoriamente spesi in attività commerciali e servizi del territorio. Niente piattaforme di e-commerce, grande distribuzione o centri commerciali. «Volevamo promuovere il commercio di vicinato», dice Palazzo. «I buoni dovevano essere usati nelle attività locali. Il che ha un triplo valore. Perché da una parte erogo questi buoni che aiutano il benessere delle lavoratrici, che per di più si formano, e dall’altro sostengono il tessuto economico del territorio. Dal welfare aziendale al welfare territoriale, appunto», aggiunge.
La mappa dei servizi presente sulla piattaforma permette di trovare asili nido, centri estivi, palestre, piscine, spazi di coworking, negozi, bar e ristoranti. Con la possibilità di ricercare e selezionare le attività che ad esempio hanno un fasciatoio o uno spazio giochi per i bambini, non presentano barriere architettoniche o accettano voucher sociali. «La novità rispetto ai classici provider di welfare aziendale – dice Palazzo -è che si tratta di una rete di servizi pubblico-privata. Il nostro obiettivo è anche quello di dare valore al ruolo del pubblico nei servizi, facendo comunicare tra loro tutti i soggetti». Si trovano così, sullo stesso portale, sia i nidi privati sia le scuole materne pubbliche, le imprese, i comuni, gli enti bilaterali e quelli del terzo settore. Ma anche scuole di musica e di inglese, centri estivi e librerie.
Ognuna di queste attività è identificata sulla mappa con un colore diverso e valutata con un ranking a elefantini, un sistema a punteggio creato dall’Ente bilaterale in collaborazione con l’Università di Padova su oltre 70 indicatori di benessere generale che permettono di far emergere tutti quei servizi aggiuntivi che aiutano a rispondere meglio alle esigenze dei singoli e delle famiglie. «Più elefantini si hanno, più le attività sono visibili sulla mappa, innescando quindi una concorrenza virtuosa», dice Palazzo.
«Se per esempio c’è un bar che ha il fasciatoio e il bar a fianco non ce l’ha e vede che tutte le mamme col passeggino vanno nell’altro bar a fianco, anche questo bar comprerà il fasciatoio per attirare clienti. A quel punto il territorio si ritrova due bar che hanno il fasciatoio. Il territorio così si arricchisce di attività sempre più adeguate alle esigenze delle persone», spiega.
Ma anche il migliore dei progetti, se non viene comunicato bene, rischia di attecchire poco. «Le donne che hanno aderito a Conciliarete sono state circa 1.500, un numero molto basso rispetto ai 7.755 potenziali destinatari», racconta Palazzo. «Su 210mila euro a disposizione, infatti, abbiamo speso circa 58mila euro, meno del 28 per cento. Sono rimasti molti soldi non spesi».
La difficoltà, spiega Palazzo, «è stata che poche persone sapevano, in fase di iscrizione ai corsi di formazione, che avrebbero potuto avere accesso anche ai buoni di conciliazione. Finito il progetto, abbiamo inviato una email ai potenziali destinatari per capire perché non avevano fatto richiesta e il risultato è stato che il 50 per cento ha detto che non ne era a conoscenza. Abbiamo verificato in effetti che solo una quindicina di enti di formazione sui 60 coinvolti effettivamente informava le donne che seguivano i corsi sulla possibilità dei buoni di welfare».
Oltre il 94 per cento dei buoni erogati è stato utilizzato per la copertura di servizi per i minori, con un importo medio di 528,38 euro. Ma in base al questionario inviato a tutti i potenziali destinatari del bando subito dopo la conclusione del progetto, viene fuori che il 55 per cento non era a conoscenza dell’esistenza dei buoni di Conciliarete. E quando si chiedeva, a chi li aveva utilizzati, come fosse venuto a conoscenza dei buoni, solo il 23 per cento rispondeva di averlo saputo tramite la Regione Veneto.
Il progetto ora si è concluso. Ma la piattaforma WelfareNet è rimasta. E il potenziale dello schema di Conciliarete, colmate le lacune di comunicazione emerse, potrebbe rivelarsi di grande impatto. «La capillarità dei servizi è l’arma vincente», dice Palazzo. «Il problema principale della maggior parte delle piattaforme e dei provider di welfare aziendale è il fatto che hanno grosse convenzioni nazionali, però poi quando il lavoratore ha bisogno della ludoteca o del nido in paese non riesce a coprire il costo». E il territorio non ne beneficia.
Con WelfareNet e Conciliarete, invece, accade il contrario. E, infatti, intorno a questa esperienza, ne sono nate di simili. Il Comune di Cittadella, in provincia di Padova, ad esempio, col supporto di Innova srl, ha coinvolto venti imprese che hanno messo a disposizione dei propri lavoratori dei buoni da spendere nelle attività commerciali e artigianali del territorio. Mentre a Conegliano, nel trevigiano, è nata la piattaforma Tre Cuori, che eroga buoni di welfare da spendere preferibilmente sul territorio, senza chiedere alcuna commissione ai soggetti fornitori.
«Quando siamo partiti – riprende Palazzo – temevamo che il fatto che i buoni non potessero essere spesi sulle grandi piattaforme o nella grande distribuzione rappresentasse un ostacolo ulteriore per le lavoratrici. Invece, quando ci chiedevano il perché di questo divieto e noi spiegavamo che volevamo valorizzare il commercio di vicinato, abbiamo sempre trovato una comprensione totale. Le persone hanno capito immediatamente che era giusto fare così, che era un valore aggiunto anche per loro. C’è stata una totale adesione ai valori del progetto. Perché se i servizi chiudono, chiude la città».
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