Ep. 1

Il welfare in azienda. E in cascina

Elisa Pozzi con le mucche della sua azienda agricola casearia Zipo - di Lidia Baratta
Dalle nostre serie Serie Giornalistiche
Il Welfare aziendale ha un futuro?

Dopo la pandemia, conciliare vita e lavoro è diventata una priorità. Che il welfare aziendale cerca di concretizzare.

Una persona lavora a pc e prende appunti
Elisa Pozzi con le mucche della sua azienda agricola casearia Zipo - di Lidia Baratta
Elisa Pozzi con le mucche della sua azienda agricola casearia Zipo - di Lidia Baratta

«Si dice che “la terra è bassa”. Nel senso che tu la terra non la puoi alzare. Per lavorarla e tirare su qualcosa, lo devi fare con la schiena piegata». Marcello Requiliani cammina fiero tra i vivai e i campi coltivati della sua Cascina Fraschina, l’azienda agricola biologica di Abbiategrasso, nel Parco del Ticino, che porta avanti insieme a Tommaso Montorfano e Claudio Vaccari. Tutti e tre trentenni, con studi di agraria ed enologia alle spalle, dal 2014 hanno deciso di prendere in gestione questi tredici ettari appena fuori Milano. Producono tutto biologico e, oltre agli ortaggi tradizionali, sono sempre alla ricerca di nuove coltivazioni, in modo da fornire non solo i privati, ma anche i ristoranti del milanese, compresi quelli stellati.

«Non sapevo cosa fare, ho trovato il mio posto nel mondo grazie a questa meraviglia», dice Marcello, guardando il verde intorno. «Ma è molto faticoso. La “terra è bassa”, appunto. E la manodopera in questo lavoro è fondamentale. Ecco perché il benessere dei nostri dipendenti è diventato una delle nostre principali preoccupazioni».

Cascina Fraschina è una delle cinque aziende agricole milanesi aderenti ad Agriwel, il progetto finanziato con 150mila euro tramite le Reti territoriali di conciliazione della Regione Lombardia, con l’obiettivo di diffondere il welfare aziendale e le pratiche di conciliazione tra vita e lavoro nel settore dell’agricoltura.

Un comparto, quello agricolo, noto alle cronache per le denunce di caporalato e la diffusione del lavoro nero, soprattutto tra gli stranieri, che in questo angolo d’Italia mostra invece tutto un altro volto.

Imprese piccole e micro, che di solito faticano a garantire benefit e sostegni per i propri dipendenti, sono state messe “in rete” per sperimentare piani di welfare troppo spesso associati solo alle grandi aziende o alle multinazionali.

C’è chi garantisce i rimborsi spese per il tragitto casa-lavoro, chi fornisce appartamenti a prezzi calmierati e chi mette a disposizione corsi di formazione e aggiornamento.

La Lombardia per il triennio 2020-2023 ha investito tre milioni di euro di risorse proprie per finanziare le reti di conciliazione vita-lavoro: vengono erogati tramite le Ats, le Agenzie di tutela della salute territoriali, e vengono destinati a soggetti pubblici e privati che costituiscono partenariati per favorire la conciliazione. La rete milanese all’interno della quale è nato Agriwel, ad esempio, conta 395 partecipanti, tra cui 44 soggetti pubblici, undici organizzazioni sindacali, 21 associazioni datoriali di categoria, 18 enti di formazione, 130 aziende profit e 171 enti non profit.

395 partecipanti
44 soggetti pubblici
11 organizzazioni sindacali
21 associazioni datoriali di categoria
18 enti di formazione
171 enti no profit
130 aziende profit

«Nel corso del 2017, a sostegno della conciliazione vita-lavoro e, in particolare, per il potenziamento di servizi rivolti all’infanzia e all’adolescenza, viene per la prima volta previsto l’utilizzo di risorse del Fondo Sociale Europeo (Fse) facenti capo all’asse 2, quello relativo all’inclusione sociale, attraverso due bandi», spiega Claudia Moneta, direttore generale Famiglia, solidarietà sociale, disabilità e pari opportunità della Regione Lombardia.

«L’avviso del 2017 era aperto all’intero territorio regionale, mentre quello del 2018 era dedicato alle “aree interne”, cioè territori che sono più a rischio di esclusione sociale, anche in ragione della maggiore difficoltà di accesso ai servizi da parte dei cittadini. Attraverso le risorse Fse, sono stati finanziati interventi per l’attivazione di servizi per il 2018 e il 2019. Obiettivo dell’avviso era l’aumento e il consolidamento di servizi per l’infanzia e l’adolescenza in ottica di maggiore flessibilità: sono stati infatti finanziati interventi, in particolare, per i periodi di chiusura della scuola», aggiunge Moneta. Grazie ai due avvisi, vengono così approvati 61 progetti, di cui sette nelle aree interne lombarde, per un ammontare di contributi pari a circa 5,6 milioni di euro.

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Marcello Requiliani di Cascina Fraschina, con Suma, uno dei dipendenti - di Lidia Baratta

Accanto ai bandi “Conciliazione” sostenuti dal Fse, la Regione ha poi continuato a finanziare anche con risorse proprie le Reti territoriali. In generale, prosegue Moneta, «gli interventi di conciliazione possono essere finanziati con diverse fonti di finanziamento (europee, nazionali e regionali) anche in relazione alle esigenze di assorbimento delle risorse di volta in volta disponibili. Attraverso il Fse, si è cercato quindi di differenziare gli interventi in modo da coprire diversi bisogni legati alla conciliazione».

Il progetto Agriwel, realizzato dal 2020 con i contributi regionali, ha come capofila l’Associazione Irene, insieme a Città Metropolitana di Milano, Confederazione italiana agricoltori, Cgil, Cisl e Uil. Dopo due esperimenti partiti nel 2016 per promuovere le iniziative di welfare aziendale di rete nel settore agricolo, negli ultimi anni si è arrivati già a sottoscrivere tre accordi territoriali. E un quarto è in procinto di essere firmato tra le imprese dell’altomilanese che hanno aderito al progetto.

 

«Il problema delle aziende agricole è che, se vuoi fare le cose in regola, la manodopera è molto costosa a fronte di fatturati non certo esplosivi. Quindi si fa una fatica incredibile» ammette Marcello Requiliani di Cascina Fraschina.

«Non appena l’associazione Irene ci ha proposto di partecipare ad Agriwel, abbiamo aderito. È stato bellissimo, perché finalmente ci ha dato la possibilità di garantire un sostegno ai nostri dipendenti, quasi tutti di origine straniera».

E così Marcello, Claudio e Tommaso hanno chiesto a ciascuno dei cinque dipendenti, di cui uno a tempo indeterminato, di cosa avessero più bisogno. «Se dev’essere qualcosa che punta al benessere del dipendente, non posso che andare da lui e chiedergli cosa serve», spiega Marcello. Una di loro, ad esempio, viveva un momento complicato dal punto di vista economico e si è deciso di darle un sostegno per il pagamento dell’affitto. «A Suma, che è il nostro responsabile della raccolta, invece abbiamo pagato la scuola guida per prendere la patente», dice Marcello. «Viene dalla Guinea Bissau, ha iniziato con l’apprendistato fino ad arrivare al contratto a tempo indeterminato. Da poco è riuscito a portare qui pure la moglie e aspettano un bambino. È il nostro più grande orgoglio. Gli mancava la patente, per lui era una spesa impegnativa. E così abbiamo sostenuto noi tutta la scuola guida per andare avanti e indietro da casa senza problemi».

 

E poi c’è «il Dembo», che arriva dal Gambia. «Per lui abbiamo spinto per la scuola di italiano. Una cosa utile per la sua vita in Italia e anche per renderlo più autonomo sul lavoro, visto che aveva problemi sulla lettura e sui numeri». Agli altri lavoratori, è stato erogato un rimborso per le spese dei viaggi casa-lavoro e per l’acquisto degli abbonamenti ai mezzi pubblici per raggiungere l’azienda.

A una ventina di chilometri, a Zibido San Giacomo, la cascina agricola Zipo ha invece deciso di investire parte delle risorse del progetto Agriwel per ristrutturare una vecchia casa coloniale accanto all’azienda e ricavarne due appartamenti da mettere a disposizione dei dipendenti con un prezzo di affitto calmierato.

 

Un centinaio di vacche, un caseificio e uno spazio dedicato alla lavorazione del riso. A gestire tutto c’è Elisa Pozzi, 36 anni, che ha ereditato la proprietà dalla famiglia. I nonni, due dentisti di Milano appassionati d’arte, a fine anni Cinquanta si innamorano della casa di fine Quattrocento che svetta in mezzo alla campagna e decidono di acquistarla e trasferirsi lì.

 

Il resto è una storia che arriva fino alla laurea in agraria di Elisa e alla sua scelta di mettere su famiglia tra le pianure verdi lontane dalla città.

Alla Cascina Zipo i dipendenti sono due, entrambi con contratti a tempo indeterminato. Cristian, 43 anni, di origini rumene, arrivato in azienda sette anni fa, è addetto al caseificio. Ramsi, 46 anni, di origini algerine, è il mungitore dell’azienda. «Ho imparato qui a fare il formaggio», racconta Cristian, papà di due bambini, mentre mette ad asciugare le caciotte del mattino. «Ho fatto l’elettricista e l’aiuto cuoco. E quando sono rimasto disoccupato, sono arrivato qui in cascina come giardiniere. Osservando gli altri, poi ho imparato a fare le caciotte».

Da mesi alla cascina sono alla ricerca di un altro mungitore, ma non riescono a trovarlo. «Il problema principale è che questo non è solo un lavoro, è più uno stile di vita e di esistenza. Il dipendente deve esserne consapevole, ma proprio per questo è giusto che ci si prenda cura del suo benessere», dice Elisa. Perché se lavori con gli animali, ammette, «non ci sono orari». Si inizia verso le cinque con la mungitura, in caseificio si parte alle sette. Poi nel pomeriggio c’è la seconda mungitura verso le quattro e mezzo, cinque. «Ma se un animale si incastra, cade o non sta bene, non puoi prevederlo. Per cui è tutta un’incognita. Ecco perché grazie, al progetto Agriwel, abbiamo messo a disposizione dei nostri dipendenti una casa vicina all’azienda, dove vivere con le famiglie e i figli. In modo da rendere loro la vita più facile».

Oggi, tra le stalle, le cascine e la casa del Quattrocento che fece innamorare i nonni di Elisa, vivono tre famiglie e ben sei bambini. «La campagna si sta svuotando, così noi stiamo ridando vita alla cascina», dice Elisa sorridente.

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L’azienda agricola casearia Zipo, a Zibido San Giacomo (Mi) - di Lidia Baratta
Il welfare aziendale in agricoltura è diverso, non può essere paragonabile a quello degli altri settori».

Nell’ambito del progetto Agriwel, l’azienda Zipo offre ai dipendenti anche uno sportello di assistenza per le pratiche burocratiche. «Tutto quello che riguarda Inps, domande da fare online, Spid: ci mettiamo qui una o due volte a settimana e lo risolviamo insieme», spiega Elisa. «In pratica offriamo tutti quei servizi a latere che potrebbero appesantire giornate già di per sé pesanti. Compreso, ad esempio, il supporto ai figli per i compiti di scuola». E poi ci sono i corsi di aggiornamento professionale sul benessere animale e l’uso dei macchinari. «Questo è un settore in cui si sta tanto insieme», racconta Elisa. «Spesso quando c’è da fare la doppia lavorazione, si mangia insieme, facciamo le “pizzate”. Alla fine siamo una grande famiglia. Il welfare aziendale in agricoltura è diverso, non può essere paragonabile a quello degli altri settori».

 

L’aspetto vincente per lei, come per Marcello, Claudio e Tommaso, è stato «fare rete, mettersi insieme con le altre aziende e confrontarsi anche con quelle che offrono servizi diversi dai nostri. Siamo piccoli e da soli la voce è limitata. Così invece si condividono pratiche e iniziative e si prende spunto gli uni dagli altri».

Fare rete a livello territoriale per permettere la diffusione del welfare aziendale oltre gli uffici delle grandi città è anche la logica che guida le Alleanze locali per conciliazione lombarde.

Nella provincia bresciana, tra valli, montagne, piccoli comuni e microimprese, non sempre si riescono a garantire tutti quei servizi necessari ai lavoratori per incastrare al meglio turni di lavoro e vita privata. E se si cerca una soluzione nel privato, spesso ha costi notevoli che pesano sui bilanci familiari. Da qui l’idea di creare alleanze territoriali, finanziate con i fondi europei, per garantire una rete di welfare aziendale complementare alle politiche pubbliche.

Nel Programma operativo regionale 2014-2020, Regione Lombardia ha stanziato 2,5 milioni di euro a sostegno di progetti destinati a potenziare i servizi per l’infanzia e l’adolescenza, finanziati tramite il Fondo sociale europeo.

Di questi, oltre 606mila euro sono stati erogati in provincia di Brescia, di cui più di 259mila euro per le Alleanze per la conciliazione. Il territorio bresciano è stato suddiviso in tre aree, ciascuna gestita da un comune capofila: Brescia, Montichiari e Palazzolo sull’Oglio. Ogni ente a sua volta ha creato poi una rete con imprese, organizzazioni non profit e fondazioni della zona, costituendo un sistema di welfare territoriale condiviso declinato sui servizi e le esigenze del territorio. E a ogni comune è stata erogata una somma di poco più di 86mila euro, affiancati da forme di cofinanziamento.

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Uno scorcio dell’azienda agricola casearia Zipo, a Zibido San Giacomo (Mi) - di Lidia Baratta
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Le mucche dell’azienda agricola casearia Zipo, a Zibido San Giacomo (Mi) - di Lidia Baratta

Montichiari, poco più di 26mila abitanti, è quello che ha investito di più nell’alleanza, con oltre 91mila euro di cofinanziamento. Come ente capofila, ha riunito 90 comuni, per una popolazione complessiva di circa 440mila abitanti: un territorio complesso ed esteso che va dalla Valsabbia fino a toccare il lago di Garda e il confine con la bassa bresciana.

 

Le imprese aderenti all’alleanza sono 27, tra aziende private (sei), cooperative sociali, un’azienda socio sanitaria territoriale e diverse fondazioni che gestiscono residenze per anziani e asili nido. In totale, fanno circa 5.600 lavoratori potenziali destinatari, che possono fare domanda per ottenere voucher sociali finalizzati alla copertura parziale di spese diverse da effettuare nell’area dei 90 comuni. Nell’elenco dell’ultimo bando annuale ci sono voci che vanno dai servizi di cura a domicilio a quelli per l’infanzia, dalle attività pre e post scuola dei figli ai centri estivi, fino alle attività sportive, musicali e culturali dei bambini. I voucher coprono fino al 50 per cento delle spese che le famiglie sostengono, per un massimo di 1.600 euro annui. E la condizione reddituale non rappresenta un criterio d’accesso.
«Grazie alla formula dei voucher, possiamo garantire un sistema di conciliazione flessibile con un welfare “più leggero” rispetto a quello tradizionale, in grado di sostenere necessità e orari differenti, dalla cura degli anziani a quella dei figli, in un territorio diversificato in cui spesso ci si sposta da un comune all’altro per lavorare», spiega Gianpietro Pezzoli, dirigente del dipartimento dei servizi al cittadino del Comune di Montichiari. Negli uffici comunali a pochi passi dalle torri del castello Bonoris, sono state riunite le grandi aziende e le cooperative sociali della zona, caratterizzata da una forte presenza di associazioni del terzo settore. Dopo aver sentito tutti, si è scelto di puntare sulla erogazione dei voucher.

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Montichiari, poco più di 26mila abitanti, in provincia di Brescia - di Lidia Baratta

«Non vengono finanziati i classici asili nido, ma le spese per il baby-sitting, i servizi di aiuto nei compiti o le scuole di musica», spiega Pezzoli. «Sono servizi che ti costruisci. Ciascuna famiglia, in base alle proprie necessità, si inventa grazie ai voucher le soluzioni di welfare più adatte a sé per meglio conciliare vita e lavoro. Ad esempio: se la scuola chiude alle 3, devo trovarmi qualcuno che si occupi di mio figlio fino alle 6, quando finisco il turno di lavoro. E devo trovarlo in un certo comune».

Anche perché non tutti i piccoli comuni del territorio garantiscono la presenza di un asilo nido. E un paracadute per la gestione dei bimbi sono spesso piccole associazioni e cooperative locali. «Quando abbiamo stilato il primo bando, nel 2015, targettizzare i servizi, scegliendo specifiche realtà, poteva essere una possibilità. Ma correvamo il rischio di disperdere risorse che non avrebbero dato una risposta adeguata alle esigenze delle famiglie. In questo modo, mettendo a disposizione i voucher, abbiamo scelto la via della personalizzazione del welfare», dice Pezzoli.

Lo strumento del voucher, di per sé non innovativo, tra queste valli fatte di piccoli comuni, zone montane e tanta campagna è stato invece la carta vincente. «Soprattutto perché qui la maggior parte delle persone si sposta da un comune all’altro per lavorare», dice Pezzoli. C’è chi si fa anche 40 chilometri ogni giorno per raggiungere la sede aziendale. C’è chi abita nella Valsabbia e lavora a Montichiari. «Se avessimo individuato delle singole strutture, non avremmo mai incrociato la sede giusta rispetto ai bisogni». Certo, ammette Pezzoli, «questo ci porta a non presidiare tanto la parte dell’innovazione, però così proviamo a intercettare le esigenze variegate dei lavoratori».

E ogni volta che si pubblica il bando annuale, con l’erogazione delle risorse a disposizione, «mettiamo intorno allo stesso tavolo gli attori aderenti all’alleanza per fare il punto della situazione e aggiornare i servizi in base alle esigenze emerse nei monitoraggi», spiega Eleonora Rocca, progettista dell’Alleanza per la conciliazione di Montichiari.

«Il voucher riesce a essere trasversale: ogni famiglia ha le sue necessità e diventa protagonista nella scelta della sua conciliazione. Il doposcuola lo cerco nel tragitto tra casa e lavoro che mi è più comodo. Sarebbe stato controproducente scegliere una singola struttura».
La colata continua dell’acciaieria di Feralpi Group, a Lonato del Garda (Brescia) - di Feralpi Group
La colata continua dell’acciaieria di Feralpi Group, a Lonato del Garda (Brescia) - di Feralpi Group

Una logica che si adatta anche ai diversi turni e ritmi delle imprese aderenti all’alleanza, che vanno dalle grandi realtà del settore metalmeccanico e metallurgico alle numerose cooperative sociali. «Il valore aggiunto dell’adesione all’Alleanza per la conciliazione è anzitutto la possibilità di fare rete con diverse realtà, dagli enti locali alle realtà profit e non profit, condividendo pratiche e suggerimenti», spiega Francesca Rubes, group HR training and development di Feralpi Group, una dei più grandi produttori d’acciaio d’Europa, che in quest’area conta oltre 1.700 dipendenti.

Il gruppo industriale, che ha già un programma di welfare aziendale con progetti che vanno dalla cura dell’alimentazione e dell’attività fisica fino al contrasto al fumo, ha aderito all’alleanza già nel 2015. Proprio perché, prosegue Rubes, «la logica del voucher consente di usare strumenti e servizi flessibili in funzione delle necessità delle singole famiglie».

Alla cooperativa La sorgente, una delle più grandi imprese sociali aderenti all’Allenza, il 98 per cento dei 300 dipendenti è costituito da donne. La maggior parte mamme, con una fascia d’età dai 30 ai 50 anni.

«I nostri dipendenti hanno stipendi piuttosto bassi e questa è sicuramente una buona occasione per avere un po’ di recupero sul budget familiare» spiega Daniela Turk, amministratore delegato della coop.

«Gestiamo servizi residenziali organizzati su turni di lavoro fino alle cinque del pomeriggio, ma c’è anche chi fa i turni notturni. L’esigenza maggiore è la gestione dei figli quando le scuole e gli asili sono chiusi».

Ma anche dove ci sono fondi messi a disposizione e progettualità cucite sulle esigenze del territorio, i numeri dei lavoratori che usufruiscono dei servizi non sempre sono alti. Coloro che dal 2015 a oggi hanno richiesto i voucher erogati dall’Alleanza sono 780 su un potenziale complessivo di 5.600 lavoratori, per 450mila euro allocate, di cui 325mila di finanziamenti europei. I lavoratori della Feralpi che hanno fatto richiesta di rimborso ad oggi sono 44. Quelli della cooperativa La sorgente solo dieci.

Il pulpito di controllo dell’acciaieria di Feralpi Group, a Lonato del Garda (Brescia) - di Feralpi Group
Il pulpito di controllo dell’acciaieria di Feralpi Group, a Lonato del Garda (Brescia) - di Feralpi Group

«Quelli che ne hanno usufruito una volta poi sono gli stessi che rifanno la domanda», dice Turk. «Ma ci siamo chiesti come mai così pochi. Forse non lo abbiamo comunicato abbastanza bene? O forse c’è anche una parte amministrativa che rappresenta un ostacolo?». Perché, per ottenere l’erogazione del voucher, ovviamente bisogna presentare le fatture, ma spesso servizi come quello della baby-sitter si muovono in una zona grigia di informalità. E in effetti tra i servizi più richiesti ci sono centri estivi e corsi musicali, che invece sono più facili da rendicontare. In ogni caso, aggiunge Turk, «stiamo incaricando proprio una persona nella cooperativa che si occuperà specificamente del welfare aziendale. Ci siamo accorti che anche su altre agevolazioni l’adesione è bassa e stiamo cercando di capire perché. La comunicazione deve essere vicina, semplice e di facile utilizzo».

Il problema è che, nelle piccole e medie realtà che costituiscono l’ossatura economica e sociale italiana, spesso è difficile anche trovare qualcuno che si occupi solo del welfare aziendale per la ricerca di soluzioni adatte al benessere dei lavoratori. E il risultato è che i servizi integrativi nei contratti si sono diffusi “a macchia di leopardo”, concentrati soprattutto nelle grandi e medie aziende del Nord, nelle multinazionali e in alcuni specifici settori. In primis, i servizi e l’industria.

Basta guardare i dati del Ministero del lavoro, aggiornati a gennaio 2022. Su 6.379 contratti aziendali e territoriali attivi, 3.889 prevedono misure di welfare aziendale. E su oltre 1,4 milioni di lavoratori beneficiari, più di 888mila sono nei servizi e circa 492mila nell’industria. Mentre quelli del settore agricolo sono meno di 2mila.

Il 75 per cento dei contratti è concentrato nel Nord Italia, il 47 per cento in aziende con meno di 50 dipendenti e il 37 per cento in quelle con organici oltre la soglia dei cento.

«In un certo senso, il welfare aziendale replica le dinamiche di frammentazione e disuguaglianza del sistema economico e produttivo italiano tra grande impresa e piccola impresa, autonomi e dipendenti, Nord e Sud, e anche tra settori», spiega Valentino Santoni, ricercatore del Laboratorio Percorsi di secondo welfare. «Nell’edilizia e nell’agricoltura, ad esempio, in cui sono molto diffusi i contratti stagionali, il welfare aziendale è assolutamente marginale. A meno che non si formino alleanze o progetti, magari sostenuti da risorse regionali ed europee, che mettono in rete gli attori del territorio e creano nuove opportunità».

Il 75 per cento dei contratti è concentrato nel Nord Italia, il 47 per cento in aziende con meno di 50 dipendenti e il 37 per cento in quelle con organici oltre la soglia dei cento.

A volte può essere un ente pubblico a farsi promotore, come per le Reti di conciliazione lombarde. Altre volte la spinta parte da un’impresa, da un’associazione datoriale o dai sindacati. «Le strade del welfare aziendale territoriale – dice Santoni – sono la soluzione per favorire la diffusione del welfare nelle realtà più piccole e nei settori meno coperti».

E le formule che stanno emergendo sono diverse. Ci sono le reti formate da attori pubblici, imprese e terzo settore, come il progetto Agriwel. Ci sono le reti di imprese che firmano tra loro accordi che hanno il welfare al centro, come la Rete Giano, nata tra otto aziende del distretto industriale di Correggio (Reggio Emilia). E poi ci sono le contrattazioni territoriali di secondo livello, che includono i servizi di welfare, nate su proposta dei sindacati locali e delle associazioni di categoria. Come è stato fatto ad esempio nel distretto della concia di Arzignano (Vicenza) o per le piccole e medie imprese metalmeccaniche della bergamasca, su iniziativa di Confapi.

«Attraverso queste formule è possibile coinvolgere anche le micro e piccole imprese, allargandosi al territorio e favorendo il dialogo tra attori differenti che a volte in queste occasioni si confrontano per la prima volta», dice Valentino Santoni.

 

«Spesso un singolo progetto, che parte mettendo a sistema risorse regionali o europee, può innescare circoli virtuosi di sviluppo che possono tradursi in accordi strutturali e che contaminano a loro volta altre realtà del territorio.

Come sta accadendo nel caso di Agriwel. Ma come è accaduto anche in Piemonte, attraverso la strategia We.Ca.Re.. Con We.Ca.Re., la Regione Piemonte ha impiegato le risorse dei Piani operativi regionali del Fondo sociale europeo e del Fondo europeo di sviluppo regionale, per un totale di 20 milioni di euro, allo scopo di innovare il welfare territoriale. Tra gli interventi previsti ci sono stati alcuni bandi proprio dedicati al welfare aziendale e alla costruzione di reti tra imprese e attori del territorio per incentivare la diffusione di misure e servizi dedicati ai dipendenti».

 

Marcello Requiliani, uno dei tre soci dell’azienda agricola Cascina Fraschina - di Lidia Baratta
Marcello Requiliani, uno dei tre soci dell’azienda agricola Cascina Fraschina - di Lidia Baratta

La strada è ancora lunga per superare la diffusione “a macchia di leopardo”. Ma dopo la pandemia, il welfare aziendale non solo è cresciuto a sorpresa ma ha anche ritrovato un certo interesse da parte delle istituzioni. Secondo i dati del Ministero del lavoro, la percentuale di contratti con forme di welfare aziendale è cresciuta dal 52, per cento del dicembre 2019 al 57 per cento dello stesso mese del 2020. Non solo: sulla base delle cifre fornite da Edenred Italia, tra i principali provider del settore, nel 2020 in media le imprese hanno messo a disposizione di ogni dipendente 850 euro di welfare aziendale, solo dieci euro in meno del 2019 nonostante la crisi economica legata al Covid.

Alcune novità arrivano anche dal cosiddetto Family Act, il disegno di legge delega approvato dal governo Draghi che introduce una serie di misure a sostegno delle famiglie, prevedendo anche incentivi per i datori di lavoro che introducono misure di flessibilità organizzativa, oltre al rifinanziamento del Fondo per incentivare la contrattazione di secondo livello destinata alla conciliazione tra vita professionale e privata.

«A differenza dei congedi familiari e parentali, il welfare aziendale riesce a fornire una risposta alle persone senza tenerle lontano dal luogo di lavoro ma favorendo l’accesso ai servizi», spiega Valentino Santoni. «E questo può essere cruciale soprattutto per le donne che, a causa di carichi di cura poco bilanciati, hanno spesso carriere lavorative discontinue e precarie».

Anche il Piano nazionale di ripresa e resilienza potrà essere, a sua volta, un volano per la diffusione del welfare ben oltre il perimetro delle grandi aziende. Nelle linee guida per l’attribuzione dei punteggi dei bandi destinati alle imprese, il welfare e le azioni dedicate alla conciliazione vita-lavoro garantiranno infatti punti in più nelle graduatorie.

Vedremo come andrà a finire da qui al 2026, ma sembra già un buon inizio.
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