Ep. 3

Educare all’inclusione

Esperienze dalla Repubblica Ceca e dalla Romania mostrano che la desegregazione funziona: dove si insegna insieme, tutta la società cresce.

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.
Dalle nostre serie Serie Giornalistiche
Tutti a scuola

Nonostante numerose sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo abbiano giudicato la segregazione scolastica dei bambini rom una violazione dei diritti umani, la segregazione sta aumentando in tutta Europa. Questo progetto transfrontaliero realizzato da Slow News, Okraj e Átlátszó Erdély, indaga le pratiche di desegregazione nella regione di Moravia-Slesia (Repubblica Ceca), Transilvania (Romania) e a […]

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.

Da ragazza, Aneta Suchá viveva con la sua famiglia di etnia Rom in una periferia chiamata Hrusov, a Ostrava, città nella Repubblica Ceca orientale, quasi al confine con la Polonia. Con grandi sacrifici, Aneta ha studiato pedagogia sociale all’Università Masaryk di Brno, a due ore di auto e tre di treno, 180 chilometri da casa, e oggi restituisce ai bambini della comunità Rom ciò che lei stessa ha ricevuto durante la sua formazione nel sistema scolastico ceco: offre loro una mano.

 

«Possono vedere e toccare cosa ho realizzato, come mi ha reso la vita più facile e che anche loro possono farcela» racconta, descrivendo due cose: l’uscita dai margini e dal circolo vizioso della povertà.

 

Il modello romanicentrico sembra poter funzionare: in Romania, a Timisoara, e Várad, nel sud dell’Ungheria, ci sono scuole dove i bambini Rom possono studiare in lingua romani dalla scuola materna fino al liceo. Non solo la lingua stessa, ma anche materie come matematica, lingua romena e letteratura: «Queste iniziative» ha raccontato Maria Coré, un’insegnante Rom romena, nel podcast Átlátszó Erdély, «permettono agli studenti di conoscere la propria storia e cultura nella lingua madre, cosa che li motiva di più e rafforza la loro identità». In Romania, in Ungheria e in Repubblica Ceca il modello di inclusione parte da una parola chiave: riconoscimento. Che ha basi legislative ma poi, come si dice in gergo, queste vanno messe a terra: localmente infatti, spiega Maria Coré «i tentativi di introdurre l’insegnamento in romani sono stati troppo sporadici e spesso si sono interrotti: in alcune scuole il corso era opzionale e di un’ora a settimana, ma poi è stato sospeso perché le direzioni scolastiche sostenevano che superava il budget o non c’erano abbastanza risorse».

 

La mancata inclusione sociale, spesso, è un freno all’inclusione legale: «In realtà», sottolinea Coré nel podcast, «leggi e programmi esistono, ma i genitori Rom spesso non li conoscono e le scuole non li comunicano». Eppure, in molte località del sud della Romania, «se oltre il 50% degli studenti è Rom dovrebbe essere automatico offrire nella “lista delle materie” anche corsi di lingua, storia e cultura Rom».

 

Dopo gli studi e la caduta del regime di Ceaucescu, nel 1994 Maria Coré ha accettato un incarico da insegnante a Eliseni, il suo villaggio natale, nella contea romena di Harghita. Qui Maria ha frequentato le scuole elementari, dove un ruolo determinante nella sua vocazione da insegnante è stato svolto dalla sua maestra, che lavorava a stretto contatto con la comunità rom locali organizzando «spettacoli teatrali, danze e canti» e coinvolgendo bambini e famiglie.

«La guardavo con grande ammirazione, è stata lei il mio modello» ma, al suo primo vero incarico, le sfide si sono subito presentate, in modo inaspettato: «Non sapevo cosa significasse insegnare a bambini Rom: solo tre su quindici avevano frequentato l’asilo». Le difficoltà sono enormi, i bambini «non sapevano sedersi al banco, non conoscevano i colori, non sapevano tenere in mano una matita», criticità individuali che si sono sommate a questioni più generali, quando la transizione post-comunista ha peggiorato una situazione socioeconomica già critica: «I genitori erano rimasti senza lavoro e l’istruzione aveva perso importanza. Per loro contava sopravvivere».

 

In Romania come in Italia, nel 1994 come oggi, iscrivere il proprio figlio a scuola non basta, è la frequenza a fare la differenza. Il metodo didattico, la creatività, diventano poi il primo vero strumento di lavoro: Maria Coré decise di dividere la classe in tre gruppi, bambini con difficoltà estreme, quelli più dotati e un gruppo intermedio e l’insegnamento è partito dalle basi: «Lavarsi le mani, tenere la matita, sedersi in silenzio, portare quaderni e materiali..» racconta. Le prime lezioni durano appena 30 minuti per abituare gradualmente gli scolari alla scuola e alle sue regole sociali. Nonostante le difficoltà iniziali, ottiene in breve tempo risultati significativi: «Tutti e quindici hanno completato i quattro anni di scuola elementare. È stata la mia prima e più difficile esperienza, ma anche la più importante».

Il bivio

La città di Krnov e il distretto di Poruba, a Ostrava, in Repubblica Ceca, dimostrano che la desegregazione delle comunità Rom non solo è possibile, ma anche vantaggiosa per tutti e l’educazione prescolare gioca un ruolo fondamentale in questo processo.

 

Il Centro familiare e comunitario Chaloupka, nel cuore di Ostrava, è un centro informale e funziona in modo simile a un normale gruppo per bambini: due educatrici si occupano di dodici bambini e, più volte alla settimana, anche una specialista li aiuta con il linguaggio: «Vengono da noi bambini in età prescolare provenienti perlopiù da famiglie benestanti e anche bambini rom».

 

Aneta Suchá, che da bambina frequentava il centro, oggi lavora come assistente sociale sul campo proprio a Chalopka e dove i suoi ricordi possono diventare buone pratiche di inclusione: andando oltre il sostegno degli insegnanti e dei compagni, è l’ambiente in cui ci si trova a fare la differenza. Asilo, alla scuola primaria e al liceo, Aneta è sempre stata in classi miste. L’alternativa erano le classi esclusive, popolate solo da bambini Rom provenienti da contesti svantaggiati: «Mia madre stessa finì in una scuola speciale segregata e decise che io e mio fratello non saremmo mai andati in una scuola elementare di quel tipo».

 

Eppure, secondo le stime del ministero dell’Istruzione ceco, oltre il 40% per cento dei bambini Rom della regione di Ostrava (più di 3000 alunni) frequenta l’istruzione obbligatoria in scuole segregate, istituti in cui gli alunni Rom costituiscono un terzo o più di tutti gli studenti, un isolamento scolastico che supera il cancello di scuola entrando nella vita reale: «I bambini che escono da queste scuole spesso non continuano negli studi secondari, non riescono a trovare lavoro, dipendono dai sussidi sociali e così via. L’istruzione segregata costa denaro ai comuni e porta a destabilizzazione e stagnazione delle famiglie Rom, delle città e dell’intera società» dice Karel Gargulák, esperto di istruzione dell’organizzazione analitica PAQ Research.

 

La segregazione scolastica è un peso per tutti: Anita, che ha lavorato due mesi in una scuola esclusiva per bambini Rom, dove «in quinta elementare gli alunni non sapevano firmare, in ottava imparavano come richiedere gli assegni familiari. Non c’era alcuna comunicazione con i genitori né motivazione negli studenti» anche perché la reputazione della scuola è pessima anche nella comunità Rom. Il tutto a costi enormi, anche economici, per l’amministrazione locale. «A causa del continuo calo della popolazione abbiamo dovuto ridurre il numero di scuole e l’amministrazione comunale ha deciso di chiudere la scuola elementare frequentata dalla maggior parte dei bambini rom provenienti da un’area socialmente esclusa. L’allora amministrazione di Krnov fu lungimirante e distribuì gli studenti in tutte le altre scuole modificando i distretti scolastici» ha raccontato il sindaco Tomas Hradil.

Il ruolo delle istituzioni

A Ostrava, nel 2015, l’amministrazione locale cercava un modo per mantenere a costi inferiori una scuola frequentata principalmente da alunni Rom, il cui numero era in calo. La cittadina di Poruba offrì alcuni spazi e l’amministrazione risolse il problema con una dedizione brillante e l’attenzione ai particolari: lavorando sulla mappa del distretto, furono ridisegnate le zone scolastiche in modo che i bambini Rom potessero raggiungere le nuove scuole a piedi dalla propria abitazione. Scelsero un livello di dettaglio tale da considerare persino gli ingressi dei singoli edifici ma dovettero scontrarsi con i pregiudizi della comunità non-Rom e con la (molto umana) difficoltà ad accettare il cambiamento: «Fu una grande battaglia, durò sei mesi» ha raccontato Milan Gregor, a capo del dipartimento scolastico di Ostrava, che ricorda che «l’allora vicesindaco Petr Zábojník non ebbe problemi ad andare sul campo, parlare con la gente apertamente e convincerli che tutto sarebbe andato bene».

 

Maria Coré è perentoria: «Hai mai sentito parlare di ‘insegnanti Rom’?». Il primo ostacolo, ne abbiamo parlato nel primo episodio di questa serie, riguarda il pregiudizio etnico, che forse sarebbe più corretto chiamare stigma perché essere Rom, per alcuni, è un marchio di infamia: nel raccontare la sua esperienza, la maestra Maria Coré lo dice chiaramente: «C’è stato chi ha detto: “Come può una zingara insegnare a mio figlio?”».

 

Lo stigma è il minimo comun denominatore nella relazione Rom-resto del mondo: da un’analisi di PAQ Research per l’ufficio del governo della Repubblica Ceca del 2019 risulta che i genitori dei bambini non-Rom sono disposti ad accettare compagni di classe Rom ma poi, in poco tempo, trasferiscono i propri figli in un’altra scuola. E questo non è un problema solo per l’inclusione di questi alunni ma per l’intera società intesa in senso ampio: «Il distretto scolastico si sta spopolando e lottiamo per ogni studente», ha raccontato la vicesindaca di Poruba.

 

L’inclusione passa anche attraverso l’impegno dei singoli insegnanti: Karel Handlíř, preside di una scuola elementare di Krnov, ricorda le difficoltà di adattamento dei suoi alunni Rom, il senso di fallimento e la frustrazione fino a quando non ha spostato l’attenzione sui bisogni degli studenti: le difficoltà delle famiglie, con i genitori incapaci di aiutare i figli, e l’assenza di uno spazio adeguato per lo studio erano difficilmente affrontabili senza operatori professionisti, attività pomeridiane doposcuola, politiche sociali e abitative più ampie.

 

A Krnov, la scuola elementare e un’associazione locale aprirono il doposcuola in un’area marginalizzata, un luogo che sostituì l’ambiente domestico per i compiti e lo studio, anche con un tutor, così da arrivare a partecipare pienamente alle lezioni. Un’assistente sociale si occupava di assicurare che i bambini frequentassero regolarmente il doposcuola.

 

Successivamente, il sistema è stato esteso a tutte le scuole della città e a tutti gli studenti, non solo a quelli Rom e ha incluso anche l’educazione prescolare. Ogni tre mesi sono previsti incontri informali insegnanti-genitori, iniziative che l’anno scorso hanno aiutato la scuola a guadagnare la fiducia dei genitori Rom. La maggior parte delle misure adottate a Krnov sono state finanziate con fondi europei, ma anche la città ha contribuito, con l’assunzione di pedagoghi sociali, assistenti educativi la rete di servizi sociali. La collaborazione con le organizzazioni non profit è stata fondamentale.

 

In Romania, racconta Maria Coré, un elemento determinante per migliorare la frequenza scolastica è stato il ruolo dei mediatori scolastici. Quando furono introdotti, nel 2005, la situazione è cambiata radicalmente: «Se un bambino non era in classe alle 9, il mediatore andava a prenderlo a casa e lo portava a scuola» e questo ha fatto aumentare la frequenza e migliorare il contatto scuola-famiglia.

 

I risultati si vedono sempre: quando le amministrazioni tagliano i mediatori, dice Maria Coré, la dispersione scolastica aumenta mentre a Krnov oggi i genitori Rom mandano automaticamente i loro figli a scuola e i centri di età prescolare sono stati chiusi perché ormai superati dai fatti: sia a Krnov che a Poruba, in Repubblica Ceca, è diminuito il numero di alunni che non completano l’obbligo scolastico, un segno che la desegregazione funziona.

Questa inchiesta a puntate è stata prodotta grazie al supporto di Journalism Fund Europe. Le foto sono di Erik Nikolic.

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