Stenti: si è inceppata la “giusta” transizione
Centinaia di milioni di euro per aiutare il Sulcis sono bloccati dall’inefficienza della Regione Sardegna. E non è la prima volta.
Il Sulcis, che ha già un reddito pro capite bassissimo, sta iniziando a spegnere tutto. Ma se muore anche la centrale è davvero finita?
In tempi di transizione verde, il Sulcis Iglesiente è una terra in crisi. Arriverà la rivoluzione grazie al Just Transition Fund o morirà l’economia di un territorio? Matteo Scannavini prova a rispondere
È la notte del 28 febbraio 2023. Quattro uomini si arrampicano su una ciminiera e improvvisano un accampamento. Sono i lavoratori della Portovesme srl, il produttore di piombo zinco gestito dal gruppo Glencore nel Sulcis Iglesiente, in protesta contro la chiusura degli impianti per il caro energia. “Avremmo meritato attenzione anche senza dover stare quattro giorni a 100 metri di altezza, in condizioni assolutamente precarie” racconta Francesco (nome di fantasia per tutelare la sua identità, ndr), uno degli operai saliti in cima all’impianto Kss, in rappresentanza dei circa 1250 colleghi.
Grazie alla protesta plateale, in marzo viene aperto un nuovo negoziato tra governo, Glencore e i sindacati, che non trova un accordo sul prezzo dell’energia: a fine aprile, gli impianti della linea piombo e della fonderia di San Gavino chiudono.
Ora, racconta Francesco, mentre si valuta un piano di riconversione per passare alla produzione di litio, nichel e manganese da batterie esauste, gli operai si turnano con un sistema di cassa integrazione a rotazione nei pochi impianti ancora aperti. “Abbiamo spalmato i lavoratori degli impianti fermi sugli impianti in marcia, con delle grosse difficoltà” spiega Francesco. “Però siamo riusciti a fare una cosa straordinaria: garantire metà mese di lavoro a tutti, più o meno”.
Il caso Portovesme srl è solo l’ultimo capitolo del dramma occupazionale del Sulcis Iglesiente (l’area ovest della provincia di Sud Sardegna), che oggi si trova al centro di una tempesta perfetta: la pandemia, l’inflazione e la crisi energetica, ancor più dannosa per l’industria energivora locale, si sono aggiunte a un decennio da migliaia di perdite di posti di lavoro dovute allo stop della filiera dell’alluminio e dell’attività estrattiva delle miniere carbonifere. Inoltre, l’abbandono definitivo del carbone, previsto a fine 2025 dal Piano nazionale integrato per l’energia e il clima, porterà presto alla chiusura della centrale termoelettrica Enel Grazia Deledda, con perdite stimate tra 400 a 1200 posti di lavoro in meno tra diretti e indotto.
“Il Sulcis, che ha già un reddito pro capite bassissimo, sta iniziando a spegnere tutto. Se muore anche la centrale è davvero finita” commenta Marco Pisu, operatore della Sicoi, ditta d’appalto dell’Enel Grazia Deledda. “Adesso sta arrivando l’acqua alta dentro lo stabilimento della Portovesme srl, però prima o poi arriverà anche qua”. Marco, come tutti i lavoratori dell’indotto, sarà ancora più esposto dei dipendenti Enel alle conseguenze della chiusura, eppure si definisce uno dei “fortunati”. “Ho 36 anni di contributi, 57 anni, mi mancano circa 7 anni [alla pensione]. Tra una una cosa e l’altra, riesco anche viaggiare. Ma qua ci sono moltissimi giovani per cui bisogna trovare una soluzione”.
Per territori già depressi come il Sulcis, dove il carbone rappresenta una delle ultime fonti di lavoro, spesso di famiglie monoreddito, la transizione alle rinnovabili non sarà indolore. Ma i fondi europei di coesione possono aiutare.
Quando la Commissione Europea ha annunciato il Green New Deal, l’insieme di misure per portare l’Europa alla neutralità climatica entro il 2050, ha posto una condizione ambiziosa: che la transizione ecologica avvenisse senza lasciare nessuno indietro. Per questo, ha individuato le aree più impattate dall’abbandono delle fonti fossili e stanziato per loro un fondo di coesione da 19 miliardi, il Just Transition Fund (JTF). Il fondo completa con altri due strumenti il Just Transition Mechanism, che intende mobilitare nel complesso almeno 55 miliardi di investimenti privati e pubblici per mitigare gli effetti della transizione ecologica tra 2021 e 2027.
In Italia, i beneficiari del JTF sono due: Taranto, che spera di smarcarsi dalla dipendenza dall’ex Ilva, e il Sulcis. Il budget totale è di 1,2 miliardi (85% dall’Unione Europea, il resto tramite contributo nazionale): 796 milioni per la provincia pugliese, 367 milioni per i 23 comuni sardi, più 48 milioni in assistenza tecnica. Al momento, non ci sono progetti perché i bandi non sono ancora aperti, ma nel Programma Nazionale JTF (PN JTF), approvato dalla Commissione Europea lo scorso dicembre, sono pubblicate le linee guida degli interventi previsti e i rispettivi finanziamenti. Tutti i dati sono scaricabili dal portale di coesione europea.
Tra le principali voci di spesa del JTF Sulcis, 116 milioni in formazione e ricerca lavoro, 88 milioni di supporto alle piccole medie imprese, per diversificare l’economia, e 80 milioni in bonifiche di siti contaminati. Inoltre, 44 milioni andranno in rinnovabili e sistemi di stoccaggio dell’energia, fondamentali per una regione molto ventosa che oggi ha il più alto costo dell’energia in Italia e deve importare il gas via nave. Infine, quasi 40 milioni saranno investiti in ricerca e innovazione.
Con quasi un terzo del budget, la priorità del JTF in Sardegna è quindi il contrasto alla disastrosa situazione occupazionale, descritta dai numeri del rapporto ambientale JTF: nel 2019, il tasso di disoccupazione a livello provinciale era del 16% (10% in Italia), con divari tra donne e giovani poi aggravati dalla pandemia, che ha aumentato del 12% il numero di inattivi. Il tasso di NEET (i giovani che non studiano, non lavorano e non sono inseriti in percorsi di formazione) ha toccato il 37% nel 2017, un dato che va di pari passo con l’abbandono scolastico di un oltre 1 giovane su 4 tra i 18 e 24 anni. Oltre il 60% della popolazione, infine, non supera la licenza media, un serio ostacolo alle ambizioni di “reskilling” della giusta transizione.
“Il JTF è concepito per affrontare tutti i mali del mondo, ma sappiamo bene che le risorse non basterebbero mai”. A parlare è Ignazio Atzori, sindaco di Portoscuso, il comune più interessato dalla transizione: ospita il distretto industriale di Portovesme, sede di Enel e delle aziende del piombo zinco e alluminio, e un quarto delle aree contaminate di tutto il Sulcis Iglesiente. Qui, come per l’Ilva di Taranto, l’attività industriale delle miniere prima e delle aziende metallurgiche poi ha lasciato un enorme impatto sull’ambiente e sulla salute della popolazione.
“Quando negli anni ‘70 è iniziata l’attività dell’area industriale di Portovesme, non c’era il Ministero dell’Ambiente, non c’erano regole ambientali” ricorda Atzori, che nel ‘76 era medico condotto e aveva già modo di osservare situazioni critiche all’interno degli impianti. “Nella Samin, attuale Portovesme srl, c’era anidride solforosa in quantità tale che non si poteva girare senza maschera” aggiunge. “C’erano vigneti e coltivazioni a poche decine di metri dall’impianto che lavorava piombo e zinco, quindi era inevitabile la ricaduta a macchia d’olio [sugli abitanti], dalle zone più prossime a quelle più lontane”.
La piombemia, ovvero l’alta concentrazione di piombo nel sangue, ha portato, tra le varie conseguenze, deficit cognitivi più frequenti nei bambini. Sempre nell’area di Portoscuso, riporta il PN JTF, la presenza di cadmio e arsenico nell’aria, nell’acqua, nel suolo e nel sottosuolo, ha causato una maggiore incidenza di tumori.
Dagli anni ‘80, le norme ambientali hanno fatto molti progressi, ma i lasciti dell’attività industriale sono ancora presenti: un recente rapporto di ISDE (Associazione Italiana Medici per l’Ambiente) ha analizzato le cause dei decessi in Sardegna tra 2012 e 2017 e riscontrato nel Sulcis “un eccesso della mortalità per malattie del sistema respiratorio e per disturbi psichici e comportamentali (in specie per demenza)”.
La storia, con le dovute differenze, ripete a distanza di un secolo il dramma dei minatori locali, che, quando non morivano durante i turni a cottimo da 16 ore, subivano danni permanenti ai polmoni, all’udito e alla vista. Ironicamente, il polo di Portovesme nato tra gli anni ‘60 e ‘70 da enti pubblici poi privatizzati, fu costruito proprio per dare al Sulcis una risposta alla crisi della miniere. Una soluzione che ha continuato ad avvelenare gli abitanti del territorio in un modo nuovo, ancora una volta mentre li sfamava. Ora, l’equilibrio tra ambiente e occupazione è ancora una volta spezzato.
“Questo oltre che un danno è anche una beffa. Vorremmo avere un ambiente più pulito, che rispetti le norme attuali e che conservi il lavoro. Se chiudi una fabbrica, non hai più le emissioni in atmosfera, poi però la gente deve andare fuori: è ricominciata di nuovo l’emigrazione e questo è un altro dramma” dice Atzori.
Il costante calo demografico è infatti l’ultimo aspetto della crisi del Sulcis, conseguenza ultima di tutti gli altri. Quando Carbonia fu costruita nel ‘39 per accogliere da tutta Italia i lavoratori della Grande Miniera di Serbariu, riporta il Museo del carbone cittadino, arrivò ad avere 140mila abitanti, diventando il comune più popoloso dell’area. Oggi lo è ancora, ma ne ha meno di 30mila. Eurostat, si legge nel rapporto ambientale JTF, stima che nel 2050 la provincia di Sulcis Iglesiente (in corso di creazione) sarà la prima in Italia per diminuzione della popolazione, con un calo del 25,5% degli abitanti rispetto al 2020, a fronte del 3,6% previsto a livello nazionale.
La promessa più ambiziosa fatta al Sulcis Iglesiente è quella di un rilancio che tuteli insieme occupazione e ambiente. Ma non è la prima che si sente e se dovesse fallire, come tutte le altre, l’unico futuro per il territorio sarà lo spopolamento. Gli esiti degli investimenti del JTF sono incerti, l’abbandono del carbone no: una transizione ci sarà e, se non sarà giusta, sarà verso altre terre.
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