Ep. 04

L’ideologia sociale della macchina

Le conseguenze e i paradossi dell’ideologia automobilista sono note da tempo. Nel 1973 André Gorz le raccontava così.

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Realismo automobilista

Nell’ultimo secolo, le auto hanno occupato il nostro tempo, il nostro spazio e persino il nostro immaginario.

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Note di apertura

Il Realismo automobilista, come ho raccontato negli episodi precedenti, si è imposto nell’ultimo secolo praticamente in ogni parte del mondo. Lo ha fatto grazie agli enormi investimenti nel settore della comunicazione, della pubblicità e dei media. Ma lo ha fatto anche grazie alla prezzolata connivenza della classe politica, che anche oggi, di fronte alla possibilità di finanziare un Mondo nuovo, continua imperterrita a mantenere in vita quello vecchio, inclusa l’industria dell’automobile.

I paradossi e le contraddizioni del modello automobilistico non nascono oggi, ma nascono con la stessa invenzione dell’auto e nei decenni si sono rafforzati.

Questo testo è stato scritto da André Gorz nella seconda metà del 1973, ed è stato pubblicato nella versione originale in francese con il titolo L’idéologie sociale de la bagnole. È apparso sulla rivista Le Sauvage nel 1973.

L’originale in francese lo puoi leggere ripubblicato qui. Qui, invece, trovi una traduzione in inglese. Questa traduzione è mia ed è stata rivista e corretta da Jacopo Nespolo, che fa parte della comunità di Slow News ed è attivista di Ciclostile – ciclofficina popolare del Centro Sociale Bruno di Trento.

L'ideologia sociale della macchina

Il vizio profondo delle macchine è che sono come i castelli o le ville in costiera: dei beni di lusso inventati per il piacere esclusivo di una minoranza di ricchissimi e di cui nulla, nella loro concezione e nella loro natura, era destinato al popolo.

A differenza dell’aspirapolvere, del telegrafo o della bicicletta, che mantengono completamente il loro valore d’uso anche quando tutti ne hanno uno a disposizione, la macchina, come la villa in costiera, non ha interessi né vantaggi che dalla misura in cui la massa non ne ha accesso.

Per questo, nella sua concezione come per la sua destinazione originale, la macchina è un bene di lusso. E il lusso, per sua stessa essenza, non si può democratizzare: se tutto il mondo ha accesso al lusso, nessuno ne può più trarre vantaggio; al contrario, tutti si spostano, frustrano e impoveriscono gli altri e, in cambio, vengono spostati, vengono frustrati e vengono impoveriti da tutti gli altri.

Quando si parla di ville in costiera, ciò è comunemente accettato. Nessun populista ha ancora osato fingere che democratizzare il diritto alle vacanze sia mai stato applicare il principio: una villa con spiaggia privata a ogni famiglia francese. È chiaro a tutti che se ognuna delle tredici o quattordici milioni di famiglie francesi avesse un accesso al mare di anche solo 10 metri, servirebbero 140mila chilometri di spiagge per poterlo assicurare a tutti!

Assegnare a tutti la propria porzione significherebbe tagliare le spiagge in parti così piccole, o schiacciare le ville una sull’altra, che il loro valore d’uso diverrebbe nullo e sparirebbe il loro vantaggio rispetto a una stanza di albergo. Insomma, la democratizzazione non ammette che una sola soluzione: la soluzione collettivista. E questa soluzione passa obbligatoriamente per la guerra contro il lusso costituito in questo caso dalle spiagge private, privilegio che una piccola parte si concede sulle spalle di tutti.

Ora, perché quello che è perfettamente evidente per le spiagge, non è comunemente accettato per i trasporti? Una macchina, esattamente come una villa con accesso al mare spiaggia, non occupa uno spazio scarso? Non spoglia gli altri utenti della strada (pedoni, ciclisti, passeggeri di tram o di bus)? Non perde forse ogni valore d’uso quando tutti utilizzano la propria? Eppure ce ne sono di populisti che affermano che ogni famiglia dovrebbe averne almeno una e che compete allo “Stato” fare in modo che ognuno possa parcheggiare dove gli pare, andare a 150 km/h sulle strade del weekend o delle vacanze.La mostruosità di questa ideologia salta agli occhi e ciò nonostante la sinistra non si degna di ricorrervi. Perché la macchina è trattata come una vacca sacra? Perché, a differenza degli altri beni “privati” essa non è riconosciuta come un lusso antisociale?

La risposta deve essere cercata nei due aspetti seguenti che riguardano l’automobilismo.

Primo. L’automobilismo di massa materializza il trionfo assoluto dell’ideologia borghese al livello della pratica quotidiana: instilla e fa crescere in ognuno di noi la convinzione illusoria che ogni individuo può prevalere e avvantaggiarsi alle spese di tutti. È l’egoismo aggressivo e crudele del guidatore, che ogni minuto assassina simbolicamente “gli altri”, che non li percepisce più se non come fastidi materiali e ostacoli alla propria velocità. Questo egoismo aggressivo e competitivo è l’avvento, grazie all’automobilismo quotidiano, di un comportamento universalmente borghese (“non ci faremo mai del socialismo con questa gente qua”, mi diceva un amico tedesco, costernato di fronte al traffico parigino).

Secondo. L’automobile offre l’esempio contraddittorio di un oggetto di lusso che è stato devalorizzato dalla propria stessa diffusione. Ma questa devalorizzazione pratica non ha ancora scatenato una devalorizzazione ideologica: il mito della convenienza e del vantaggio attribuiti alla macchina continua a resistere, ma basterebbe che i trasporti collettivi fossero resi disponibili a tutti per dimostrare la loro superiorità eclatante. La resistenza di questo mito si spiega facilmente: la diffusione dell’automobile individuale ha spodestato il trasporto collettivo, modificato l’urbanistica e l’habitat e trasferito sulle macchine le funzioni che la loro stessa diffusione ha reso necessarie. Ci vorrà una rivoluzione ideologica (“culturale”) per rompere questo circolo vizioso. E non possiamo evidentemente aspettarcelo dalla classe dominante, che sia di destra o di sinistra.

Vediamo ora questi due punti più da vicino.

Quando l’automobile è stata inventata, essa doveva concedere a pochi ricchi borghesi un privilegio completamente nuovo: quello di spostarsi molto più velocemente rispetto a tutti gli altri. Nessuno, fin lì, ci aveva anche solo sperato: la velocità delle diligenze era sostanzialmente la stessa che tu fossi ricco o povero, il calesse del signore non andava più veloce del carretto del contadino e i treni portavano in giro tutti alla stessa velocità. Non ci furono velocità differenziate fino all’avvento dell’auto e dell’aereo. Non c’era, quindi, fino alla fine dell’Ottocento, una velocità di spostamento per le élite e un’altra per il popolo. L’auto estese, per la prima volta, la differenza di classe alla velocità e ai mezzi di trasporto.

Questo mezzo di trasporto sembrava inizialmente inaccessibile alla massa tanto era diverso dai mezzi ordinari: non c’era paragone tra l’automobile e tutto il resto. Il carro, il treno, la bicicletta, l’omnibus a cavallo. Degli esseri eccezionali si spostavano a bordo di un veicolo ad autotrazione, pesante una buona tonnellata e i cui organi meccanici, estremamente complicati, erano tanto misteriosi quanto nascosti alla vista. Perché c’era anche quell’aspetto, che ebbe molto peso nel mito dell’automobile: per la prima volta, degli uomini cavalcavano dei veicoli individuali il cui meccanismo e funzionamento gli era completamente sconosciuto, il cui mantenimento e la cui stessa alimentazione dovevao delegare ad altri specialisti.

Paradosso della vettura automobile: in apparenza, essa concede ai suoi proprietari una indipendenza illimitata, permettendo loro di spostarsi alle ore e sugli itinerari a loro scelta e a una velocità uguale o superiore a quella del treno. Ma, in realtà, questa autonomia apparente aveva come lato oscuro la dipendenza totale: a differenza di un cavaliere, di un carrettiere o di un ciclista, l’automobilista sarebbe dipeso dai commercianti per il proprio approvvigionamento di energia, o da specialisti della carburazione, della lubrificazione, dell’accensione e della sostituzione di ricambi come d‘altronde anche per la riparazione o per il più piccolo problema.

A differenza di tutti i proprietari degli altri mezzi di locomozione, l’automobilista avrebbe avuto un rapporto di cliente e di consumatore, e non di possessore e gestore, con il veicolo di cui formalmente era proprietario. Questo veicolo, in altre parole, lo avrebbe obbligato a usare tutta una serie di servizi commerciali e di prodotti industriali che solo dei soggetti terzi potevano fornirgli. L’autonomia apparente del proprietario di una automobile nascondeva la sua radicale dipendenza.

I magnati del petrolio sono stati i primi a godere dei benefici che potevano derivare dall’uso diffuso dell’automobile: se il popolo poteva essere portato a viaggiare in automobile, avrebbero potuto vendergli l’energia necessaria alla sua propulsione. Per la prima volta nella storia, gli uomini diventavano schiavi di una fonte di energia commerciale per la propria locomozione. Ci sarebbero stati tanti clienti dell’industria petrolifera quanti automobilisti, e visto che ci sarebbero stati tanti automobilisti quante famiglie, il popolo intero sarebbe diventato cliente dei petrolieri.

La situazione che ogni capitalista sognava si stava per realizzare: tutti sarebbero diventati dipendenti per i propri bisogni quotidiani di un prodotto di cui una sola industria deteneva il monopolio.

Non restava che spingere il popolo a viaggiare in macchina. E la maggior parte delle volte il popolo non si è nemmeno fatto pregare troppo: sarebbe stata sufficiente la fabbricazione in serie e la catena di montaggio per abbassare abbastanza il prezzo di una macchina; la gente si sarebbe precipitata a comprarla. Ed effettivamente si precipitarono, senza rendersi conto che li stavano prendendo per il naso. Che cosa prometteva loro l’industria delle auto? Molto semplicemente questo: «Anche voi, finalmente, godrete il privilegio di spostarvi più veloce di tutti, come i signori e i borghesi. Nella società dell’automobile, il privilegio dell’élite è messo alla vostra portata».

La gente si gettò sulle macchine fino a quando, arrivato il turno anche degli operai, gli automobilisti constatarono, frustrati, di essere stati presi per il naso. Gli avevano promesso un privilegio borghese. Si erano indebitati per averlo. Ed ecco che di colpo si rendevano conto che tutti ora ci avevano accesso, nello stesso momento.

Ma che cosa diventa un privilegio se tutti possono accederci? Un mercato di matti. Peggio, è un tutti contro tutti. È una rissa generalizzata che causa la paralisi totale. Nel momento in cui tutti pretendono di spostarsi alla velocità privilegiata dei borghesi, il risultato è che nessuno si sposta più, che la velocità del traffico in città crolla al di sotto di quella dell’omnibus a cavallo, a Boston come a Parigi, a Roma come a Londra, e che nei fine settimana la media sulle strade di scorrimento in uscita dalle grandi città scende al di sotto della velocità di un ciclista.

Niente può aiutare: sono stati già provati tutti i rimedi e tutti, alla fine, hanno come risultato di peggiorare il problema. Che aumentino le superstrade cittadine, le tangenziali, gli incroci sopraelevati, le autostrade a 16 corsie e le strade a pedaggio, il risultato è sempre lo stesso: più ci sono strade a disposizione, più ci sono delle macchine che le intasano e più la congestione del traffico in città è paralizzante. Fino a quando ci saranno le città, il problema resterà senza soluzione: per quanto sia ampia e rapida una superstrada o una strada provinciale, la velocità media alla quale le macchine ne escono, per entrare nelle città, non può essere più elevata della velocità media.

Dato che la velocità media nella città di Parigi è tra i 10 e i 20 km/h, dipende dall’ora, nessuno potrà uscire dalla tangenziale e dalle autostrade che servono la città a più di 10-20 km/h. Anzi, ne usciranno a delle velocità ancora più basse dal momento che gli accessi alla città saranno saturi e che questi rallentamenti si ripercuoteranno per decine di chilometri della rete autostradale.

È la stessa cosa per tutte le città. È impossibile percorrere a più di 20 km/h di media i grovigli di vie, corsi e viali che si incrociano e che, ai giorni nostri, sono la caratteristica peculiare di ogni città. Ogni ingresso di veicoli più rapidi perturba la circolazione urbana e provoca dei colli di bottiglia, fino alla paralisi.

Se la macchina deve avere il sopravvento, non resta che una soluzione: sopprimere le città, ovvero disperdersi su centinaia di chilometri, lungo strade gigantesche, in sobborghi popolati di automobilisti. Quello che è successo negli Stati Uniti.

Ivan Illich (in Elogio della bicicletta, Bollati Boringhieri, titolo originale Énergie et équité), riassume questo risultato con queste cifre sorprendenti: «L’americano medio consacra più di mille e cinquecento ore all’anno) ovvero 30 ore alla settimana, o ancora, 4 ore al giorno, domenica inclusa) alla sua macchina: questo tempo comprende le ore che passa al volante, spostandosi o restando fermo, le ore di lavoro necessario a pagarsela e a pagarsi anche la benzina, gli pneumatici, i pedaggi, l’assicurazione, le multe, le tasse… ​​​​​​​​​​​​​​A questo americano medio servono dunque 1500 ore per percorrere in un anno 10mila km a 6 km all’ora. Nei paesi che non hanno sviluppato un’industria dei trasporti, la gente si sposta esattamente alla stessa velocità andando a piedi, con il vantaggio supplementare che può andare dove gli pare e non soltanto dove ci sono le strade asfaltate».

È vero, precisa Illich, che nei paesi non industrializzati gli spostamenti assorbono tra il 2 e l’8 per cento del tempo sociale (che corrisponde verosimilmente tra le 2 e le 6 ore alla settimana). La conclusione suggerita da Illich? Una persone a piedi percorre gli stessi chilometri in un’ora di una persona che si muove in macchina, ma la prima consacra ai suoi spostamenti dalle cinque alle dieci volte meno tempo che quest’ultima. Morale della favola: più in una società sono diffusi veicoli veloci, più, passata una certa soglia, le persone ci passano tempo e ne perdono per spostarsi. È matematico.

Il motivo? Lo abbiamo appena visto: abbiamo esploso le agglomerazioni in interminabili aree suburbane autostradali, perché questo era il solo modo di evitare la congestione di veicoli nei centri abitati. Ma questa soluzione ha un contraltare evidente: la gente, alla fine, non può muoversi con facilità perché si trova lontano da tutto. Per fare spazio alla macchina, abbiamo moltiplicato le distanze: abitiamo lontano dal posto di lavoro, lontano dalla scuola, lontano dal supermercato — che rende necessaria una seconda macchina per fare in modo che la “donna di casa” possa fare la spesa e portare i bambini a scuola.

Come uscirne? Non si può. E gli amici? Ci sono i vicini, quando ci sono. La macchina, in fin dei conti, fa perdere più tempo di quello che fa risparmiare e crea distanze che solo lei può colmare. Certo, potete andare a lavoro a 100 km/h, ma solo perché abitate a 50 km da dove lavorate e accettate di perdere mezz’ora per fare gli ultimi 10 km. Il bilancio? «La gente lavora per buona parte del tempo per pagare gli spostamenti che è obbligata a fare per andare a lavoro», scrive Ivan Illich.

Forse direte: «Almeno, così facendo, sfuggiamo dall’inferno delle città una volta che finiamo di lavorare». Ci siamo, ecco la confessione: «La città» è vissuta come «l’inferno», non pensiamo che a scappare o ad andare a vivere in provincia, quando però, per generazioni, la città era oggetto di meraviglia, era il solo luogo dove valeva la pena vivere.

Perché questo ripensamento? Per una sola ragione: la macchina ha reso la grande città inabitabile. Essa l’ha resa puzzolente, brulicante, asfissiante, polverosa, intasata a tal punto che la sera la gente ha solo voglia di andarsene. Quindi, visto che l’automobile ha ucciso le città, ora serve un’automobile ancora più rapida per scappare sulle autostrade verso le aree suburbane ancora più lontane. Il circolo è perfetto: dateci più macchine per fuggire dalle devastazioni che le macchine stesse hanno causato.

Da oggetto di lusso e fonte di privilegio, la macchina è così diventata l’oggetto di un bisogno vitale: ne serve una per evadere dall’inferno cittadino. Per l’industria capitalista, la partita è vinta: il superfluo è diventato necessario. Inutile ormai convincere la gente di aver bisogno della macchina, la sua necessità è inscritta in ogni cosa.

E altri dubbi dovrebbero venire quando si osserva l’evasione motorizzata lungo gli assi di fuga dalle città, tra le 8 e le 9 e mezza del mattino, tra le 5 e mezza e le 7 di sera, i fine settimana dalle 5 alle 6 ore, i mezzi d’evasione sfilano in processione, paraurti contro paraurti, alla velocità (quando va bene) di un ciclista e in una nuvola di benzina al piombo. Che cosa resta dopo che, com’era inevitabile, la velocità media sulle strade è limitata esattamente a quella a cui può arrivare la più lenta delle macchine?

È giusto così: dopo aver ucciso la città, la macchina si uccide da sola. Dopo aver promesso a tutti di poter andare più veloci, l’industria dell’automobile giunge al risultato che era ampiamente prevedibile e che vede tutti andare alla velocità del più lento di tutti, determinata dalle semplici leggi della dinamica dei fluidi.

E ancora: inventata per permettere al suo proprietario di andare dove voleva alla velocità che voleva, la macchina diventa, di tutti i veicoli, la più schiava, casuale, imprevedibile e scomoda. Se volete potete scegliere un’orario stravagante per la vostra partenza, ma non saprete mai quando il traffico vi permetterà di arrivare. Siete legati alla strada (all’autostrada) tanto inesorabilmente quanto il treno alle sue rotaie. Non potete, un po’ come il passeggero di un treno, fermarvi all’improvviso. Dovete, esattamente come in un treno, andare a una velocità determinata da altri. Insomma, la macchina ha tutti gli svantaggi del treno, più alcuni che le sono specifici come le vibrazioni, i crampi, i pericoli di collisione, la necessità di guidare, e non mantiene nessuno dei suoi vantaggi.

Eppure, direte voi, la gente non prende il treno. Perbacco: come potete pensare che lo facciano? Avete mai provato ad andare in treno da Boston a New York? O da Ivry a Tréport? o da Garches a Fontainbleu? O da Colombe a l’Isle-Adam? Avete provato, d’estate, il sabato o la domenica? Bene! Provate dunque, coraggio! Constaterete che il capitalismo automobilista ha previsto tutto. Dal momento che la macchina avrebbe ucciso la macchina, è stato necessario far sparire le soluzioni alternative, così da rendere l’auto obbligatoria.

Così, lo Stato capitalista ha prima lasciato degradare, e poi ha soppresso i collegamenti ferroviari tra le città, le loro aree suburbane e la loro “corona verde”. Ai suoi occhi si sono guadagnati la grazia soltanto i collegamenti interurbani ad alta velocità, ma solo perché si giocano insieme al trasporto aereo la clientela borghese. Il treno ad alta velocità servirà a mettere le coste della Normandia o i laghi di Morvan alla portata dei campeggiatori parigini della domenica, servirà a far guadagnare 15 minuti tra Parigi e Pontoise e a sversare ai suoi capolinea più viaggiatori saturi di velocità di quelli che il trasporto urbano può ricevere. Questo sì che è progresso!

La verità è che nessuno ha veramente scelta: non siamo liberi di avere una macchina o meno, perché l’universo suburbano è fatto a sua misura, e sempre di più anche l’universo urbano.

È per questo che la soluzione rivoluzionaria perfetta, che consiste nel sopprimere le automobili a vantaggio della bicicletta, del tram, dell’autobus e delle auto senza guidatore, non è nemmeno più applicabile a città autostradali come Los Angeles, Detroit, Houston, Trappes o perfino Bruxelles, modellate ormai sulla e per l’automobile.

Città esplose si allungano lungo le strade vuote dove si allineano capannoni tutti uguali, dove il paesaggio (il deserto) urbano ripete incessantemente: «Queste strade sono fatte per andare alla più alta velocità possibile da casa a lavoro e viceversa. Ci puoi passare, ma non viverci. Ognuno, quando finisce di lavorare, non può che restare a casa. Tutti coloro che verranno trovati per strada al calar della notte devono essere sospettati di covare qualche attentato». In un certo numero di città americane, il fatto di camminare per strada di notte è infatti considerato molto sospetto.

Ma quindi la partita è persa? No. Ma l’alternativa alla macchina non può essere che globale. Perché per fare in modo che la gente possa rinunciare alla macchina, non basta affatto offrire loro dei mezzi di trasporto collettivi e più comodi: bisogna fare in modo che non si debbano proprio spostare. Per fare questo bisogna farli sentire bene nel loro quartiere, nel loro comune, nella loro cittadina a dimensione umana, che vadano con piacere da casa a lavoro a piedi — a piedi o, al limite, in bicicletta. Nessun mezzo di trasporto rapido e d’evasione compenserà mai la tristezza del vivere in città inabitabili, di non sentirsi a casa propria da nessuna parte, di passarci solo per lavorare o, al contrario, per isolarcisi e per dormirci.

«Gli utenti», scrive Illich, «si libereranno delle catene del trasporto che li sopraffanno quando si rimetteranno ad amare come un territorio la loro isola di spostamenti e a non avere voglia di allontanarsi troppo spesso». Ma per poter amare il proprio territorio bisognerà prima di tutto renderlo abitabile e non “circolabile”.

Serve che il quartiere come il comune ridivenga il microcosmo modello per tutte le attività umani, il luogo dove la gente lavora, abita, si rilassa, si forma, comunica, si scontra e gestisce in comune la porzione di vita che vivono insieme. Una volta, quando gli chiesero cosa ne avrebbe fatto la gente del tempo, dopo la rivoluzione, quando lo spreco capitalista sarà abolito, Marcuse rispose: «Distruggeremo le grandi città e ne ricostruiremo di nuove. Ci vorrà un po’ di tempo».

Possiamo immaginare che queste nuove città sarebbero delle federazioni di comuni (o di quartieri), circondati di cinture verdi dove i cittadini — soprattutto gli “scolari” — passeranno più ore alla settimana per far crescere i prodotti freschi che servono alla loro sussistenza. Per gli spostamenti quotidiani, avranno a disposizione una gamma completa di mezzi di trasporto adatti a una città media: biciclette municipali, tram o trolleybus, taxi elettrici senza autista. Per gli spostamenti più importanti nelle campagne, così come per il trasporto degli ospiti, qualche automobile comunale sarà a disposizione di tutti nei garage di quartiere. La macchina avrà cessato di essere una necessità. Perché tutto intorno sarà cambiato. il mondo, la vita, le persone. E questo non capita da solo.

Nel frattempo, come facciamo ad arrivarci? Prima di tutto, smettiamo di porre il problema dei trasporti da solo, ma leghiamolo sempre ai problemi della città, alle divisioni sociali del lavoro e alla compartimentazione che queste cose hanno introdotto tra le diverse dimensioni dell’esistenza: un posto per lavorare, un posto per abitare, un terzo per approvvigionarsi, un quarto per imparare, un quinto per divertirsi.

L’allocazione dello spazio suddivisa per funzioni continua quella disgregazione dell’uomo cominciata con la divisione del lavoro in fabbrica. Taglia l’individuo a fettine: fa a pezzi il suo tempo e la sua vita in fette ben separate in modo da fare di ognuno di voi un consumatore passivo lasciato senza difesa ai commercianti, ma anche in modo che a nessuno di voi venga in mente l’idea che lavoro, cultura, comunicazione, piacere, soddisfazione dei bisogni e vita personale possano e debbano essere una sola cosa: l’unità della vita, sostenuta dal tessuto sociale della comunità.

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