Realismo automobilista
Il raccont che l’auto porta con sé da decenni con il reale non c’entra nulla, esiste solo nella nostra testa e ci rende schiavi.
L’automobile non sarà eterna, anzi è già in crisi e ormai ha raggiunto il suo picco da più di 15 anni.
Nell’ultimo secolo, le auto hanno occupato il nostro tempo, il nostro spazio e persino il nostro immaginario.
Nel giugno del 2005 George W. Bush ha iniziato da pochi mesi il suo secondo mandato, Tony Blair si accinge a riprendere il governo britannico dopo aver vinto le elezioni e Berlusconi si è appena rimesso in sella al suo terzo governo. È appena morto Giovanni Paolo II e si è insediato da un mese abbondante Benedetto XVI. Non esiste ancora Facebook, né Twitter, né Instagram. Un mese prima è stato caricato il primo video su YouTube della storia dell’Umanità e, mentre il traffico internet che ora chiamiamo mobile, quello dai cellulari, è ancora praticamente nullo, quello delle automobili, negli Stati Uniti, arriva al suo picco. A vederla da un altro punto di vista, quello che contempla la visione di insieme: arriva al suo massimo e inizia il suo declino.
In questi mesi di pandemia ci siamo abituati a sentire questa parola molto spesso. Era riferita alla curva dei contagi e aspettavamo il momento del picco, come una liberazione, come l’inizio della fine dell’incubo. Per le automobili il concetto è lo stesso: il picco di cui sto parlando è il punto più alto di un grafico che descrive l’uso dell’automobile negli Stati Uniti, nello specifico, quello che rappresenta le miglia percorse mediamente da un adulto americano. Quel picco era tale nel 2013, quando fu raccontato da Brad Plumer su un blog del Washington Post che trovi ancora online, e, nonostante ci sia stato un rimbalzo, lo è ancora oggi, nel maggio del 2020. Guarda il grafico qui sotto, e se vuoi vai a leggere il pezzo che lo spiega, scritto da Jill Mislinski utilizzando gli ultimi dati disponibili, del marzo 2020.
Il picco di quell’inizio estate del 2005 è ancora lì, ben visibile, ancorché la curva si sia nel frattempo leggermente rialzata a partire dal 2015. Che cosa significa in soldoni? Un po’ di cose: che di macchine ce ne sono troppe; che le abitudini di vita stanno cambiando e che servono di meno; che la tecnologia e telecomunicazioni ci permettono di usare altri mezzi di trasporto, ma soprattutto di evitare di prenderli; che sta scomparendo piano piano la generazione che ha fatto la fortuna di questo mezzo di trasporto, quella dei boomers.
Nella primavera dello stesso anno in cui si inizia a parlare di quel picco, la U.S. PIRG Education Fund, un gruppo indipendente statunitense che si batte per l’interesse pubblico e per quello dei consumatori, ha pubblicato un interessante report intitolato A New Direction. Our Changing Relationship with Driving and the Implications for America’s Future, il cui primo paragrafo iniziava così: «The Driving Boom—a six decade-long period of steady increases in per-capita driving in the United States—is over».
L’epoca delle auto sta per finire? Anche se potrebbe sembrare fantascienza, non lo è affatto. È un orizzonte possibile, e come vedi è plausibile anche da molto prima che la crisi causata dalla pandemia accelerasse le cose, mettendo in ginocchio un settore che era già al tracollo.
Nella primavera del 2020, lo stop industriale causato dall’epidemia, oltre a pulire l’aria del pianeta come dimostrano le mappe dell’inquinamento dalla Cina alla Lombardia, ha inflitto un colpo durissimo all’industria delle auto. Sul Foglio del 21 febbraio 2020, Ugo Bertone firma un articolo che si intitola: In Cina il coronavirus ha ucciso anche il mercato dell’auto. E il cui occhiello recita così: «Nei primi 16 giorni di febbraio il calo delle immatricolazioni è stato pari al 92 per cento. Ma il problema non è solo cinese. Ferme anche le fabbriche di componentistica che forniscono pezzi alle linee d’assemblaggio di mezzo mondo». Era già una promessa di guai.
Il 25 aprile del 2020, il settimanale The Economist, che non dimentichiamo essere parte degli asset di Exor, ovvero della famiglia Agnelli, ovvero di chi controlla uno degli attori preminenti del settore (FCA, che è il risultato della fusione tra Fiat e Chrysler e che presto si dovrebbe fondere con Peugeot in un megagruppo), scriveva senza mezzi termini che «the immediate concern is survival. Firms are tapping old and new credit lines despite high borrowing costs». Una questione di sopravvivenza significa guai.
Secondo i dati pubblicati dal settimanale britannico, basati sulle stime di Credit Suisse, General Motors e Ford potrebbero bruciare tra i 10 e i 14 miliardi di dollari; Peugeot ha già bruciato 4,4 miliardi di dollari; FCA Italy ha chiesto la garanzia dello stato italiano per ottenere un prestito di circa 6 miliardi di euro; altri 8 produttori europei, scrive sempre The Economist, potrebbero perdere fino a 50 miliardi nel secondo trimestre di quest’anno e, in prospettiva, potrebbe finire i soldi entro la fine del 2020; Renault potrebbe fallire e, a quanto riporta Le Monde ha chiuso il 2019 in perdita per la prima volta nel decennio, ha già chiesto un prestito allo stato francese (che ne possiede il 15%) di 5 miliardi di euro, ma il ministro dell’economia Le Maire, che ancora non l’ha firmato; Volkswagen si aspetta di chiudere il primo trimestre con una flessione dell’81%; Daimler potrebbe essere comprata dai cinesi, le cui industrie del settore non sono in acque migliori, avendo registrato perdite vicine al 50 per cento di volume e fatturato nel primo trimestre di quest’anno.
Questo soltanto per la produzione. Ma la situazione della filiera logistica e commerciale sia del nuovo, che dell’usato, che del noleggio, è in ginocchio. Una tra tutti: Hertz, colosso mondiale dell’autonoleggio, ha già annunciato il fallimento della parte Nordamericana della società.
Il tracollo a cui stiamo assistendo è il tracollo non soltanto di un bene e di una industria specifica, ma di una ideologia industriale, quella capitalista di massa, la cui regola fondamentale non è vendere, ma non smettere di produrre e, ancora di più, produrre sempre di più. Quando parli di questo tipo di economia — nella serie Piuttosto mi Amazon ho raccontato una situazione simile che è quella in cui versa l’editoria italiana — è vero un detto che con l’automobile si sposa alla grande: se rallenti muori.
L’industria dell’auto e tutto ciò che ad essa si lega (petrolchimica, assicurazioni, accessori, vendita al dettaglio, noleggio etc.) è resa “sostenibile” soltanto dall’economia di scala, dalla moltiplicazione e dalla crescita continua della produzione e del fatturato. Costi quel che costi. È l’economia della obsolescenza nemmeno più programmata, ma forzata e imposta: non è un caso che ormai a chi le produce non conviene nemmeno più venderci una auto per la vita, ma piuttosto puntare sul leasing, sul noleggio a lungo termine, su una sorta di abbonamento che paghi a rate e che permette loro, ogni tre anni, di portarti a cambiarla con proposte commerciali che in mercato reale sarebbero suicide ma che ora sono vitali. Non gli serve più a niente venderti un’auto, il rischio è che ti ci affezioni e te la tieni vent’anni è troppo grande. Loro devono produrle e farle girare, come le palline di un giocoliere. Se si fermano, sono finiti..
Era così prima, e tornerà a essere così anche a pandemia dimenticata. Ma come potranno non fermarsi se al mondo sono già 1 miliardo e se il mercato, come scrive La Stampa il 14 maggio 2020 riferendosi alla decisione di Volkswagen di interrompere la produzione: I clienti non sono interessati all’acquisto di auto”. E loro che le producono non sanno più dove metterle. Come potranno continuare ancora a sovraprodurre? Per soddisfare quali esigenze di mercato? E cosa se ne faranno di tutte le auto invendibili? E di tutte quelle dismesse?
La fine dell’epoca delle auto è, dunque, un orizzonte a cui dobbiamo prepararci, e anche in fretta.
I contraccolpi del suo compimento saranno durissimi per tutti, tanto da rischiare di seppellire il nuovo mondo sotto l’immenso cadavere dell’industria automobilistica e di tutto ciò che ad esse è legato e che in essa ha il suo cuore pulsante: il capitalismo industriale. Ma prima di capire che forma potrebbe avere il mondo se fosse privato delle auto, per riuscire prima a immaginarlo e poi a lottare per realizzarlo, dobbiamo liberarci dalle briglie che ci hanno sull’immaginario, rompere l’inception, affrontare il Realismo automobilista.
La foto di apertura è di Ryan Searle e puoi trovare l’originale su Unsplash.
Nell’ultimo secolo, le auto hanno occupato il nostro tempo, il nostro spazio e persino il nostro immaginario.
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