L’ideologia sociale della macchina
Le conseguenze e i paradossi dell’ideologia automobilista sono note da tempo. Nel 1973 André Gorz le raccontava così.
Il Realismo Automobilista è di fronte a un bivio: restaurazione o morte. E l’arma a sua disposizione è sempre la stessa: il ricatto.
Nell’ultimo secolo, le auto hanno occupato il nostro tempo, il nostro spazio e persino il nostro immaginario.
L’automobile è ormai diventata tutto, ovunque e sempre. Oltre ad essere una delle principali voci di spesa di centinaia di milioni di persone, l’universo che si cela dietro ognuna delle nostre automobili è spesso anche indirettamente la fonte stessa dei soldi che guadagniamo. Ma ancora di più, che lo vogliamo o meno, la galassia di industrie e potere che forma il settore automobilistico ha un impatto sull’economia mondiale disarmante. E ce ne siamo accorti durante questi mesi di pandemia che, in maniera praticamente inedita, hanno interrotto il lavoro delle fabbriche per settimane, causando enormi perdite a chi le auto le costruisce e le vende, con impatti sia immediati sia in prospettiva.
Sul sito dell’OICA, l’organizzazione mondiale dell’industria dell’automobile, nella pagina dedicata alle “economic contributions”, in un paragrafo significativamente intitolato “Autos create jobs, jobs, jobs”, scrivono:
«Building 60 million vehicles requires the employment of about 9 million people directly in making the vehicles and the parts that go into them. This is over 5 percent of the world’s total manufacturing employment. It is estimated that each direct auto job supports at least another 5 indirect jobs in the community, resulting in more than 50 million jobs owed to the auto industry. Many people are employed in related manufacturing and services. Autos are built using the goods of many industries, including steel, iron, aluminum, glass, plastics, glass, carpeting, textiles, computer chips, rubber and more».
9 milioni di lavoratori, il 5 per cento della forza lavoro mondiale della manifattura, e solo per costruirle. Più altri 50 milioni di posti di lavoro di settori dell’indotto. Senza contare altri incalcolabili milioni di persone che servono per spostarle, venderle, ripararle, assicurarle, comunicarle. Ecco l’ostaggio che l’industria dell’automotive ha in mano per convincerci che dobbiamo essere pronti a tutto pur di farla sopravvivere. Ed è proprio quello che l’industria fa, ineluttabilmente, ad ogni momento di crisi industriale profonda, da ultimo il lockdown.
In un articolo pubblicato dal Corriere della Sera, il 2 aprile del 2020, si leggono le dichiarazioni di Michele Crisci, presidente dell’Unione nazionale rappresentanti autoveicoli esteri: «A rischio il 15/20% dei 150 mila lavoratori italiani del settore a causa della crisi scatenata dalla pandemia di coronavirus […] le aziende non hanno più liquidità, ma le spese continuano ad essere presenti, servono almeno 3 miliardi di euro nei prossimi 18 mesi per assicurare una concreta ripartenza del settore». E ancora: «l’auto rappresenta il 10% del Pil del nostro Paese, siamo i primi contribuenti per lo Stato».
Sempre all’inizio di aprile 2020, il presidente di Asconauto Federico Guidi ha dichiarato: «confidiamo che il Governo sappia ascoltare le richieste che arrivano dalla filiera automotive […] che rappresenta una parte così rilevante del PIL, di continuare a lavorare con professionalità e generare profitti grazie alle attività diffuse in modo capillare sull’intero territorio, dove supportano non solo tutte le filiere produttive ma anche le comunità locali».
Da ultimo, anche John Elkann, CEO di Exor, quando ha difeso a mezzo stampa — un quotidiano di sua proprietà — la richiesta di garanzie italiane per il prestito straordinario chiesto da FCA Italy di 6 miliardi di euro, legato agli accordi di fusione con Peugeot definiti “scritti nella pietra”, ovvero inviolabili, non si è distanziato troppo dalla stessa linea: «il prestito è legato al settore automotive dell’Italia, un paese in cui abbiamo una grande presenza, serve per garantire liquidità in questo periodo, è a beneficio di tutto il comparto».
Tra le righe si legge sempre la stessa cosa: o arrivano gli aiuti, o moriremo. E con Sansone crollerà tutto il tempio, ovvero, nel caso delle auto, centinaia di migliaia di posti di lavoro. Sarà un bagno di sangue per l’economia italiana, europea, mondiale e per tutti i lavoratori della filiera. Se fossimo in un gangster movie, questa sarebbe una minaccia e nemmeno troppo velata.
Ma c’è anche un altro aspetto che fa parte in maniera nemmeno troppo laterale di questo settore e che, se i lavoratori e l’economia del Paese sono l’ostaggio, è l’arma usata per persuaderci, per inocularci questa pseudo religione del Realismo Automobilista e convincerci ad accettare idi tutto pur di non mettere in pericolo lo status quo: i media.
Le auto, infatti, oltre che produrle, spostarle, assicurarle, venderle e ripararle, devi anche comunicarle e, come ho raccontato in Contro l’automobile (nel primo capitolo dedicato alla inception), negli ultimi decenni la voce di spesa dell’industria automobilistica in comunicazione è stata immensa .
Ci sono milioni di persone che lavorano in tutto il mondo per i settori della comunicazione, dei media, del marketing, dell’intrattenimento, dello sport, dello spettacolo e in particolare del giornalismo. Tutti settori che, senza i soldi dell’automotive, probabilmente non esisterebbero o sarebbero completamente diversi. Se i lavoratori di tutta la filiera primaria sono l’ostaggio da ricattare, i lavoratori di questa filiera secondaria ma altrettanto necessaria sono un’arma di distrazione di massa: il megafono dell’inception.
Se contiamo solo l’industria dell’automotive e il suo indotto (senza contare quella petrolchimico-energetica, né quella assicurativa che dell’auto in qualche modo sono speculari), l’impatto economico che questa ha sui media italiani in soli termini di pubblicità è impressionante. Nel 2018 e nel 2019, per darti un’idea, questo settore ha investito circa un miliardo e duecento milioni di euro nei media, ovvero nell’editoria, nelle televisioni, nel mondo dell’online, nel cinema, nelle radio.
In Italia, in più, i produttori di auto controllano direttamente e indirettamente la maggior parte dei media mainstream. Solo per fare un esempio, quello più flagrante: il gruppo GEDI, di cui fanno parte i quotidiani Repubblica, La Stampa e Huffington Post (oltre a diverse testate locali e al settimanale L’Espresso), è di proprietà di Exor, la holding della famiglia Agnelli che possiede tra le altre cose, anche FCA (la società nata dalla fusione tra Fiat e Chrysler e che si sta per fondere con Peugeot), Ferrari e CNH Industrial, azienda leader al mondo nella costruzione di veicoli industriali.
Non stupirti, quindi, se vedi sulle pagine di quei quotidiani controllati da Exor la sfilata di contenuti audio, video e testuali con un messaggio comune sempre identico: il futuro è l’automobile. Guai a chi si mette in mezzo. Una nota storica, perché è importante contestualizzare: il 52 per cento di Exor è controllato della Giovanni Agnelli B.V., società olandese fondata da Gianni Agnelli e intitolata al suo nonno omonimo, cofondatore della Fiat, senatore del Regno d’Italia, primo tra i finanziatori di Mussolini negli anni 20 e, nota di colore, padrone di casa dell’appartamento in cui nacque Carlo Debenedetti, fondatore di Repubblica e neo fondatore di Domani.
Il Realismo automobilista, probabilmente per la prima volta nella sua storia, ora ha paura di non sopravvivere. Per questo non si preoccupa nemmeno più di nascondere il proprio vero volto, quello di un vecchio decrepito e terrorizzato dalla morte, che quasi nel panico è disposto a tutto pur di non scomparire. Per questo quello che ci aspetta e che stiamo già in parte vivendo, sia a livello politico che a livello comunicativo, è un vero e proprio tentativo di Restaurazione. Restaurazione di un vecchio sistema di profitto, di un vecchio modo di plasmare e controllare il mondo, di un vecchio modo di dividere per comandare che è poi il capitalismo industriale. Affronteremo questo discorso in uno dei pilastri della nostra serie del mondo nuovo a cui stiamo lavorando.
Permettimi di chiudere con una storiella.
Nel 2011, al Museo della Scienza e della Tecnica di Milano, è stata organizzata una mostra finanziata dalla fondazione Ford.
Si intitolava grottescamente “Democratizing Technology. La mostra interattiva che racconta come Ford rende la tecnologia accessibile a tutti” e nel dossier per la stampa c’era scritto che Henry Ford, che nelle parole della brochure sembra dio, affermava che «c’è vero progresso solo quando i vantaggi di una nuova tecnologia diventano per tutti».
Non è The Brave New World di Aldous Huxley, è il Reale: Ford è dio, il realismo automobilista è una religione e la macchina è la figlia di dio, la profetessa. E noi non ci rendiamo nemmeno più conto che, quando quello che rendi di massa è un privilegio, quello che crei è un mondo povero e incatenato, perché se massifichi una vita ad alto consumo energetico, scriveva Ivan Illich su Le Monde nel 1973, crei un mondo classista e tecnocratico in cui per ogni uomo libero, servono centinaia di schiavi.
Il momento storico in cui stiamo vivendo è probabilmente il bivio.
Da una parte, la strada puzzolente e congestionata della dipendenza assoluta dell’individuo dall’auto, della schiavitù delle classi subalterne all’élite dominante che produce automobili, gestisce fondi e assicurazioni e commercia petrolio e che difende ogni tipo di concentrazione; dall’altra, la strada della libertà di movimento per tutti, l’unica strada sostenibile.
Nell’ultimo secolo, le auto hanno occupato il nostro tempo, il nostro spazio e persino il nostro immaginario.
Le conseguenze e i paradossi dell’ideologia automobilista sono note da tempo. Nel 1973 André Gorz le raccontava così.
L’automobile non sarà eterna, anzi è già in crisi e ormai ha raggiunto il suo picco da più di 15 anni.
Il raccont che l’auto porta con sé da decenni con il reale non c’entra nulla, esiste solo nella nostra testa e ci rende schiavi.
Il Realismo Automobilista è di fronte a un bivio: restaurazione o morte. E l’arma a sua disposizione è sempre la stessa: il ricatto.
Le conseguenze e i paradossi dell’ideologia automobilista sono note da tempo. Nel 1973 André Gorz le raccontava così.
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Malgrado la crisi climatica, energetica ed economica ci inducano a trovare modelli alternativi, in Italia l’auto resta una religione
Il caso di Bari, che grazie alle risorse del PON sulla mobilità, sta provando a cambiare la mobilità della cittadinanza per togliere le auto dalla città
L’Italia è un paese completamente dipendente dalle automobili, che continua a investire su strade e autostrade, lasciando le briciole a interventi che puntano veramente a cambiare il sistema