Ep. 05

La fragilità di un sistema che deve essere cambiato

Nel 2020 il 13,1% degli studenti ha abbandonato il suo percorso di studi.

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.
Dalle nostre serie Serie Giornalistiche
Neet. Senza una meta.

Quello dei NEET è un fenomeno complesso: dietro a un acronimo ci sono implicazioni da comprendere e affrontare.

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A settembre 2020, dopo il primo lockdown, le scuole hanno riaperto i loro cancelli anche se con banchi distanziati, mascherine, e ricorsi costanti alla Didattica a distanza. Tuttavia, i volti coperti e le lavagne diventate schermi non sono state le uniche conseguenze della pandemia sul sistema di istruzione italiano. Nel 2020, infatti, il 13,1% degli studenti ha abbandonato il suo percorso di studi. Si parla di circa 543mila giovani che hanno lasciato vuoto il loro banco, 543mila giovani Neet.

La Didattica a distanza, però, non è stata la causa principale della dispersione scolastica ma solo un suo acceleratore. Come molti altri problemi della scuola italiana (mancanza di dispositivi, sovraffollamento delle classi, personale scolastico impreparato in tema di digitale), la dispersione è stata solo aggravata dalla pandemia, ma è un fenomeno noto e ancora irrisolto. Infatti, anche se la percentuale del 13,1% di dispersione scolastica può sembrare elevata, è una tra le più basse degli ultimi 10 anni.

Nel 2011 aveva toccato la cifra del 17,8%, per poi andare lentamente a calare negli anni successivi e arrivare al 13,8% del 2016. Dopo essere risalita nel 2017 (14%) e nel 2018 (14,5%), la curva è tornata a scendere, rimanendo tuttavia ancora molto distante dalla media europea 9,9%. Nel 2020, in Germania, ha abbandonato gli studi il 10% della popolazione scolastica, in Francia l’8%.

Leggere i dati nazionali può tuttavia essere fuorviante: osservando i numeri a livello regionale si nota un evidente divario territoriale che separa in due il Paese. Le Regioni che fanno impennare la curva legata all’abbandono scolastico sono tutte del Sud Italia: Sicilia (19,4%), Campania (17,3%), Calabria (16,6%) e Puglia (15,6%). Agli ultimi posti, invece, troviamo Emilia-Romagna (9,3%), Molise (8,6%), Friuli Venezia-Giulia (8,5%) e Abruzzo (8%); tutte sotto la media europea. Anche per quanto riguarda le Regioni meridionali, la tendenza è positiva: se paragonata ai dati degli anni precedenti la percentuale è in lenta ma progressiva diminuzione. Eppure l’abbandono scolastico resta ancora uno dei problemi più urgenti del nostro Paese, la porta attraverso la quale i giovani si affacciano al precariato e alla disoccupazione. «Gli early leavers meridionali che lasciano prematuramente il sistema formativo sono il 16,3% al Sud a fronte dell’11,2% delle regioni del Centro-Nord: 253mila giovani meridionali con al massimo la licenza media e fuori dal sistema di istruzione» si legge nella sintesi del Rapporto Svimez 2021.

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Il periodo pandemico, quindi, ha rimarcato ancora di più i divari già esistenti in Italia: ricchi/poveri; Nord/Sud; uomini/donne, peggiorando ulteriormente la condizione di chi era già svantaggiato. L’Istruzione ha avuto da sempre il compito di colmare questi divari sociali, lo strumento attraverso il quale cittadini non privilegiati riescono ad accedere a servizi, opportunità e qualità della vita migliori, l’istituzione che mette in pratica quanto sancito dalla Costituzione Italiana . L’articolo 3 della nostra Costituzione, recita infatti che «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». La scuola, quindi, dovrebbe essere il motore in grado di attivare il cosiddetto ascensore sociale. Ma l’ascensore è fermo: in due terzi dei casi, i figli di chi non ha il diploma non si diplomano.

«Rispetto ad altri paesi europei, infatti, è forte la correlazione tra basso titolo di studio dei genitori e rischio abbandono precoce da parte dei figli. In media nei paesi Ocse nel 42% dei casi i figli di chi non ha il diploma non si diplomano a loro volta. Una quota che in Francia si attesta al 37% e in Germania scende al 32%, mentre nel nostro paese raggiunge il 64%» scrive l’osservatorio Openpolis. Chi viene da famiglie svantaggiate, quindi, è portato a lasciare la scuola prima del tempo, rendendo la povertà educativa un fenomeno ereditario. A un basso titolo di istruzione corrisponde un tasso più alto di disoccupazione e inattività: non è vero, quindi, che i giovani che lasciano la scuola lo fanno perché vogliono iniziare un’attività lavorativa. Nel 2020, tra i 18-24enni che in Italia hanno lasciato la scuola prima del tempo, solo il 33,2% era occupato. Una percentuale che scende ancora di più al Sud, dov’è occupato il 23,3% di giovani che lasciano la scuola. Nel 2008, in piena crisi economica, era occupato il 51% dei giovani italiani senza diploma.

La povertà educativa è il tema al centro anche del primo tassello della mappa di A Brave New Europe, il progetto sulle politiche di inclusione europea di Slow News e Percorsi Secondo Welfare

C’è poi un secondo fenomeno, che non ha a che fare con l’abbandono delle aule ma ha i suoi stessi effetti: la dispersione scolastica implicita. Si tratta di giovani che pur avendo conseguito un titolo di studio di scuola secondaria di secondo grado, non raggiungono i traguardi di competenza previsti dopo l’intero percorso di studi. Nel 2021 il 9,5% degli studenti arriva al diploma con competenze di base inadeguate (nel 2019 era il 7%). E sono cresciute anche le differenze territoriali: nel Nord questo vale il 2,6%; nel Centro l’8,8% e al Sud il 14,8%. Sommando questi dati a quelli sulla dispersione esplicita, forniti dall’Istat, si ottiene che, nel 2021, il 23% degli studenti italiani ha abbandonato la scuola o l’ha terminata senza acquisire le competenze minime, con differenze evidenti a livello territoriale o sociale. Ma perché i giovani lasciano la scuola, se non hanno opportunità lavorative?

Per Virginia Meo, di Unicef Italia, è partendo dalla scuola che si può risolvere il problema. «L’abbandono scolastico è uno dei primi segnali del fatto che quel ragazzo o ragazza potrà un giorno diventare Neet» spiega Meo a Slow News: «Ad incentivare questo fenomeno è l’impostazione attuale della scuola, che non permette ai giovani di acquisire le competenze necessarie per costruirsi il proprio futuro». Secondo il Rapporto sullo sviluppo mondiale pubblicato dalla Banca Mondiale nel 2019 gran parte dei bambini che frequenta la scuola primaria, svolgerà un lavoro oggi ancora inesistente. «I ragazzi sono competenti rispetto ai temi di loro interesse, per questo credo che il futuro potrebbe anche essere positivo, se solo si riuscissero a creare spazi in cui i ragazzi possano avere agibilità e abbiano maggiori competenze e possibilità di essere ascoltati, di essere attori trasformativi. Bisogna valorizzare i nostri ragazzi e ragazze, renderli protagonisti degli spazi che abitano. Possiamo lavorare sull’aumento delle competenze del capitale umano, delle competenze digitali, ma non basta. Dobbiamo investire anche sull’attivazione dei giovani come cittadini attivi, restituire quella capacità di percepirsi come protagonisti e diventare capitale sociale della comunità» aggiunge Virginia Meo.

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.

Unicef Italia si è occupata di Neet attraverso il progetto NEET Equity, selezionato dal Dipartimento per le Politiche Giovanili e il Servizio Civile Universale nell’ambito dell’Avviso Prevenzione e contrasto al disagio giovanile, che si è sviluppato in tre comuni italiani (Napoli, Taranto e Carbonia) con l’obiettivo di migliorare la capacità del territorio nel costruire politiche attive partecipate a favore della inclusione dei giovani Neet. Il progetto si articola in tre ambiti di attività: ricerca, laboratori urbani di partecipazione e forum, e si rivolge a 300 ragazzi e ragazze tra i 16 e i 22 anni, nella delicata fase di transizione dalla scuola secondaria al mondo del lavoro. «Molti ragazzi hanno sottolineato l’importanza di apprendimenti extrascolastici formali e non formali, in cui hanno l’opportunità di imparare a entrare in relazione con il contesto in cui vorrebbero costruire il loro percorso di vita» aggiunge Virginia Meo: «Con NEET Equity abbiamo constatato proprio questo: in classe i ragazzi si annoiano, e pensano che la scuola non prepari alla vita».

Per Meo una delle soluzioni è quella di puntare sui Patti educativi di Comunità: costruire spazi di ascolto, partecipazione e progettazione con la collaborazione di tutti i soggetti coinvolti nel processo educativo dei ragazzi. «A quel punto potremmo iniziare a costruire anche i curricula delle scuole con una logica che include le competenze del mercato del lavoro, ma costruisca soprattutto un capitale sociale». Ma tutto questo non può essere fatto, secondo Virginia Meo, senza i protagonisti di questo fenomeno, i giovani: «Non puoi costruire progetti senza ascoltare prima loro. Loro non sono il futuro, sono il presente».

Nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), il programma che l’Italia ha presentato all’Europa per ottenere i fondi stanziati dall’UE in conseguenza della crisi sanitaria ed economica, il termine dispersione scolastica ricorre 6 volte. L’obiettivo del governo, che ha presentato il Piano, è quello di ridurre la percentuale di abbandono scolastico estendendo il tempo pieno e potenziando le infrastrutture sportive a scuola. In sostanza, si tratta di «ripensare l’intera offerta formativa di una scuola aperta al territorio, anche introducendo attività per il potenziamento delle competenze trasversali delle studentesse e degli studenti soprattutto del primo ciclo di istruzione».

Complessivamente, sono stati stanziati 1,5 miliardi di euro e il ministero dell’Istruzione ha da poco ha istituito un gruppo di lavoro che «definirà le indicazioni generali per il contrasto della dispersione e il superamento dei divari territoriali, nell’ambito dell’attuazione del Pnrr». Il Gruppo appena formato curerà la definizione di indicazioni e linee guida generali da mettere a disposizione delle istituzioni scolastiche che parteciperanno alle azioni del Pnrr per contrastare la dispersione scolastica e superare i divari territoriali.

Virginia Meo, però, sottolinea l’importanza di coinvolgere i giovani, altrimenti il percorso potrà essere impattante, «ma non risolverà il problema, che è quello del mancato ascolto. In questo modo si mantiene lo status quo. È necessario valorizzare i ragazzi, ritenerli persone competenti, e quindi valorizzare i luoghi che abitano, altrimenti i giovani si perdono»

Tra i programmi di Unicef Italia per contrastare il fenomeno dei Neet, c’è anche Generation unlimited, un progetto internazionale che lavora con i giovani dai 10 ai 24 anni per incentivarne la formazione e l’occupazione. Oltre ai percorsi scolastici formali per la costruzione di competenze, si punta ad aumentare le opportunità di formazione informale, orientare i giovani, creare connessioni con il mondo del lavoro, aumentare la loro capacità imprenditoriale ed equipaggiare i giovani come problem solvers, come membri attivi nella società civile, nella logica che loro stessi possano creare una società migliore.

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Per Luca Redolfi, coordinatore nazionale dell’associazione di ispirazione sindacale Unione degli Studenti, i problemi sono tre, intrecciati tra loro: carenza di misure che favoriscano il diritto allo studio, un sistema di welfare insufficiente e il tema dell’orientamento, dalle scuole medie alle scuole superiori e dalla scuola dell’obbligo all’università. «Il primo tassello per poter combattere il fenomeno dei Neet deve essere un reinvestimento nel settore istruzione. La prima cosa da fare è evitare che i giovani si disperdano mentre studiano» spiega Redolfi a Slow News: «In questo incide molto anche il costo dello studio, non per tutti sostenibile. Bisogna quindi tutelare il diritto allo studio, con investimenti su libri scolastici e corsi pomeridiani a scuola. Poi c’è un tema di welfare, che nel nostro Paese è ancora prettamente familistico. Chi non ha alle spalle una sicurezza economica è costretto a lavorare. Ma il più delle volte si opta per lavori saltuari, che non garantiscono un futuro concreto, quindi si torna al tema centrale, quello dell’orientamento». L’orientamento è una delle 6 macro riforme che il ministero dell’Istruzione intende realizzare con i fondi del Pnrr. Il testo, su cui il Parlamento è al lavoro, dovrà essere redatto entro il 2022. «La riforma introdurrà moduli di orientamento nelle scuole secondarie di I e II grado (non meno di 30 ore per le studentesse e gli studenti del IV e V anno) e verrà realizzata una piattaforma digitale di orientamento relativa all’offerta formativa terziaria degli Atenei e degli ITS. Mettere in sinergia il sistema di istruzione, quello universitario e il mondo del lavoro favorisce una scelta consapevole di prosecuzione del percorso di studi o di ulteriore formazione professionalizzante e contrasta dispersione scolastica e crescita dei Neet», si legge sul sito realizzato dal ministero dell’Istruzione per seguire i progetti del Pnrr. Nella riforma è previsto anche l’ampliamento della sperimentazione dei licei e tecnici quadriennali, con ulteriori 1.000 classi in altrettante scuole.

Per Redolfi, però, bisognerebbe operare un cambiamento ancora più radicale, che preveda una revisione dei cicli di istruzione: «Un percorso ottimizzato, che non consideri elementari, medie e superiori in maniera separata. Le scuole medie (secondaria di primo grado) sono spesso una ripetizione del programma precedente». Subito dopo c’è la scelta della scuola superiore, dove già avviene una prima distinzione tra chi si iscrive a tecnici o professionali e chi ad un liceo. Infine, segue la scelta tra il proseguimento degli studi o meno. Una decisione affidata spesso al caso, alle volontà dei genitori o alle consuetudini sociali. «In Italia l’orientamento si riduce agli Open Day nelle città universitarie, ma quelle non sono attività di orientamento. Non c’è attenzione sull’individuo» spiega Redolfi a Slow News: «Anche il problema dell’orientamento è legato alla dipendenza economica». I liberi professionisti tendono a incentivare i figli a continuare la propria professione, chi versa in condizioni economiche meno agiate, spinge i giovani a fare invece lavori pratici, che garantiscano un impiego rapido e un salario sicuro. È per questo che, secondo l’Unione degli Studenti, la strategia per uscire da questo circolo vizioso è una legge nazionale sul diritto allo studio, che tuteli chi vuole continuare a studiare e aiuti chi vuole formarsi per trovare un impiego. Una legge, quindi, che garantisca un reddito di formazione: un investimento che lo Stato finanzia per garantire la gratuità di un percorso di formazione senza che questo pesi sulla famiglia di provenienza; una di reddito di emancipazione che punti sui giovani e sul loro futuro.

Secondo Virginia Meo, quelli descritti sono processi di cambiamento lunghi: «La pandemia ci ha insegnato che una nuova normalità può e deve essere costruita» commenta. «Il Covid ha accentuato le disuguaglianze e ha mostrato la fragilità di un sistema che deve essere cambiato».

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