Ep. 2

Tutti a scuola

Finanziamenti europei, dati incompleti e progetti “dal basso”: tra numeri e volti, la difficile inclusione dei bambini Rom a Roma.

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.
Dalle nostre serie Serie Giornalistiche
Tutti a scuola

Questo progetto transfrontaliero realizzato da Slow News, Okraj e Átlátszó Erdély, indaga le pratiche di desegregazione nella regione di Moravia-Slesia (Repubblica Ceca), Transilvania (Romania) e a Roma (Italia).

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.

C’è il sole più bello di tutti, mercoledì 15 settembre a Roma, quello che scalda la pelle ma lascia andare via l’estate, come se fosse un bel ricordo, spensierato. C’è chiasso, i bambini sono una massa colorata e indistinta che preme davanti ai cancelli dell’Istituto comprensivo Piazza De Cupis, a Tor Sapienza, creano come un vortice colorato di zaini pieni e t-shirt colorate. Florian li guarda, tiene la mano della madre stretta mentre i suoi occhi piccoli e bruni perlustrano il caos, sembra vogliano dare ordine. Una targa sul cancello ricorda a tutti che la scuola primaria Gioacchino Gesmundo, dal nome di un professore antifascista del liceo Cavour ammazzato dai nazisti alle Fosse Ardeatine, è coinvolta nel Programma Nazionale PN Metro Plus e Città Medie Sud 2021–2027, promosso da Roma Capitale con il progetto Rimuovere gli ostacoli del Programma integra.

 

È un bel progetto, punta a valorizzare le diversità culturali e linguistiche degli studenti con background migratorio tramite attività di mediazione culturale e linguistica, laboratori di lingua italiana, percorsi di supporto didattico personalizzato e laboratori inclusivi, è partito a maggio 2025 ed è stato di recente ampliato per includere i bambini provenienti da famiglie Rom, Sinti o Caminanti. Il cui background, tuttavia, è tutto fuorché migratorio: «Noi siamo sempre stati qui, io sono romana de Roma» dice Maria, la mamma di Florian, che ha un nome importante e i modi diretti della vita ai margini. «La mia famiglia è venuta qui quando si è disgregata la Jugoslavia» ma Maria è «nata in mezzo al fiume», all’ospedale Fatebenefratelli sull’Isola Tiberina. E Florian ci è nato dopo di lei: «Gli assistenti sociali mi hanno consigliato di iscriverlo qui» spiega, «hanno valutato questa come la migliore condizione di partenza». A vivere questo paradosso, l’essere la seconda generazione italiana della sua famiglia ma il crescere in una condizione marginalizzata da “straniero in patria”, non sono soltanto Florian e Maria.

 

«Siamo arrivati a una terza, quarta, quinta generazione di ragazzi e ragazze: persone che hanno studiato, che non hanno vissuto quel mega degrado dei primi anni Novanta, cittadini che vivono in città, anche se con altri strumenti» racconta Nedzad Husovich, ricordando però come troppo spesso le politiche di inclusione di oggi ricalcano una realtà individuale e sociale che in buona parte non esiste più. E, per questo, è importante aggiornarsi: «I campi rom e le periferie hanno solo una cosa differente: i campi sono orizzontali, le periferie verticali» dice Nedzad, che parla proprio delle strutture fisiche, i container e i caravan da un lato, i palazzoni di cementi dall’altro. «Hanno le stesse dinamiche, solo che i rom sono un’etnia» che si porta appresso lo stigma del nomadismo.

 

Che è un pretesto buono per tutti: per le istituzioni, che lamentano la difficoltà oggettiva di includere in una comunità di cittadini chi si sposta di continuo (o viene spostato di continuo, grazie al “sistema campi”), e anche per chi, ai margini, vuole continuare a vivere. Il tutto, in un contesto pieno di pregiudizi, che vengono usati come muri, da un lato, e cartina tornasole, dall’altro, per dimostrare e dimostrarsi di avere ragione a discriminare: «Gli insegnanti, molte volte, sono giudicanti, non conoscono la storia dei Rom, non sanno da dove arriviamo, chi siamo. Non c’è un piano strategico vero, fatto coinvolgendo famiglie e bambini, per farli uscire dal contesto di “brutti, sporchi e cattivi”».

 

A dirla tutta, non c’è nemmeno una base di ragionamento: in tutta la Regione Lazio l’inizio delle lezioni è previsto il 15 di settembre per tutti gli ordini di scuola e anche Roma non fa eccezione. Anzi, fa maggioranza, perché gli studenti romani che frequentano le scuole pubbliche nell’anno scolastico 2025-2026 sono 482.046 su un totale di 669.047 studenti in tutta la regione. Secondo l’Ufficio Scolastico Regionale per il Lazio, gli alunni romani di scuola primaria sono 147.116 iscritti solo per le scuole statali (di questi, 42.473 sono nella fascia 3 mesi-3 anni), 106.586 iscritti per le scuole secondarie di I grado e 185.871 iscritti per le scuole secondarie di II grado (che non è, almeno in senso stretto, “scuola dell’obbligo”).

 

A Roma esistono anche le scuole comunali: sono asili nido e scuole dell’infanzia, dunque quei gradi scolastici che coprono rispettivamente le fasce d’età 3 mesi-3 anni e 3-6 anni: si tratta di 229 scuole dell’infanzia, 387 scuole primarie e 195 scuole di I grado.

 

Roma Capitale ha attivi bandi e progetti specifici per l’inclusione scolastica di Rom, Sinti e Caminanti (finanziati dal Piano Nazionale Inclusione 2021-27), ma comunica solo le attività svolte e gli istituti coinvolti, non il totale degli alunni: sappiamo ad esempio che esistono attività in 10 istituti comprensivi capitolini ma non sappiamo quanti siano gli studenti Rom a beneficiarne: «La Strategia nazionale Rom, Sinti e Caminanti 2021-2030 richiama esplicitamente la delicatezza del tema “dati su base etnica”. In Italia, la raccolta di dati scolastici su base etnica non è prassi nei flussi ordinari» perché la legge la riterrebbe discriminatoria, spiega Patrizia Tocci, responsabile per il Comune di Roma del Dipartimento Scuola, Lavoro e Formazione professionale.

 

Ma come si arriva, allora, a iscrivere i propri figli in una scuola con dei progetti attivi?

 

«Noi, con Florian, siamo fortunati» racconta Maria, «un suo amichetto partecipa a un corso di teatro sociale e gli educatori sono molto attivi nel coinvolgere sempre più ragazzi, ma anche le loro famiglie. Poi, con il passaparola, tutto diventa più facile ma non sono mai sicura di avere fatto le cose giuste: la burocrazia, i tempi giusti per le iscrizioni, io non ci capisco niente» ma, proprio grazie agli educatori, l’aiuto esterno non è mancato. «Io sono contenta se Florian va a scuola» racconta mentre beviamo un caffè: «Ho paura però degli altri, non dei bambini ma delle loro famiglie: cosa diranno di Florian?».

 

«Noi vogliamo che il ragazzino parli» dice Nedzad , che indica la soluzione nella capacità di esprimere se stessi, prima ancora che nel dialogo: «Se riesce a esprimersi e a essere più sicuro di sé allora lì cambi il sistema, lì parli di vero cambiamento. Per questo facciamo teatro sociale». Il teatro, l’arte, la musica, è la chiave che l’associazione New Romalen sta forgiando per rompere gli schemi e cambiare le cose, partendo dal basso, dai bambini di etnia Rom: «Ci basiamo molto sulla metodologia di Freire: nessuno si educa da solo, tutti ci educhiamo insieme, nessuno è insegnante ma tutti quanti ci educhiamo. Attraverso questi laboratori, da circa due anni diamo nuovi elementi di personalità ai ragazzi e, insieme a loro, anche noi come insegnanti ed educatori ci diamo strumenti perché i ragazzi si facciano delle domande». La maggior parte degli operatori di New Romalen sono Rom che, come invitava Paolo di Tarso, declinano la speranza al verbo essere e non più con l’avere: «Non siamo più bravi o più fighi ma ci siamo sentiti di dover sopperire a mancanze dove invece ci sono fior fior di fondi europei e comunali. Non li educhiamo noi, ci educhiamo insieme: ogni laboratorio che facciamo rimane con un punto interrogativo, non con una risposta. Lo facciamo perché vogliamo educare una nuova generazione che sappia fare le domande giuste, anche a scuola, partendo da una migliore consapevolezza» e facendolo attraverso una rete allargata di associazioni, volontari, operatori e comunità Rom.

 

Sono due le realtà “dal basso” che provano a cambiare paradigma partendo dalle persone, anzi dai bambini: «Rampa Prenestina nasce quasi sei anni fa vicino al campo di Gordiani, quando un musicista e liutaio comincia a fare attività di volontariato con i bambini del campo per far riscoprire i mestieri legati all’arte e all’artigianato. Poi l’anno scorso noi, ragazzi Rom di vari campi, abbiamo aperto New Romalen e facciamo teatro sociale. Senza fondi europei, con un piccolo fondo di poche migliaia di euro, facciamo attività per la nostra comunità: la maggior parte è volontariato, perché facciamo cose per la comunità e con la comunità ma non come slogan: stiamo organizzando la seconda edizione del Festival di teatro Rom, a ottobre saremo a Cluj, in Romania, poi Repubblica Ceca, Slovenia e infine, a novembre, andremo in scena anche in Italia» e a luglio hanno co-organizzato il torneo di calcio Noi Roma Est «con i ragazzi di Villa Gordiani e Metropolis: si sono auto-organizzati, noi abbiamo solo dato una mano logistica, chiesto il permesso ai genitori per le foto…».

 

Franca Mattozzi fa l’insegnante «in una scuola di Roma come le altre», dice: «Per noi insegnanti, ma anche per i ragazzi, avere una figura di mediazione come quella dell’operatore campo è stato un elemento fondamentale», che descrive come «i punti di forza» dei progetti di inclusione scolastica, anche perché «il tema di quanto la deprivazione sociale determini anche delle deprivazioni cognitive è un tema molto importante» ma l’assenza di didattiche mirate è uno degli scogli è più duri da superare, nel quadro di criticità e difficoltà diffuse. Che, per le famiglie, sono anche l’accesso ai progetti di inclusione, un accesso che parte dalla non-conoscenza: «Io nemmeno sapevo che c’erano progetti di inclusione scolastica, meno male che mi hanno spiegato cosa fossero, come si fa a partecipare, meno male che mi hanno messo in contatto con le associazioni: senza di loro, forse nemmeno lo iscrivevo a scuola» dice Maria, che forse mente nel suo essere estrema ma in cuor suo sa anche di avere trovato un porto sicuro.

 

Il Progetto nazionale triennale per l’inclusione e l’integrazione dei bambini Rom e Sinti prevede un lavoro centrato su tre ambiti: «La scuola, i contesti abitativi e la rete locale dei servizi, finalizzato a promuovere una scuola più inclusiva e a combattere la dispersione scolastica ed è rivolto a tutti i bambini presenti nella classe di progetto, agli insegnanti, al dirigente scolastico e al personale Ata, con l’idea che una scuola inclusiva sia una scuola accogliente e migliore per tutti» ci spiega Susanna Placidi della Fondazione Migrantes, che con la Comunità di Sant’Egidio realizza borse di studio a sostegno delle famiglie che si impegnano a far frequentare la scuola con costanza e serietà: «L’impegno, l’amicizia e il rapporto con le famiglie rom ha favorito anche l’educazione e la scolarizzazione degli adulti, l’inserimento nel mondo del lavoro, la regolarizzazione di quelli che erano stranieri, o cittadini apolidi e in genere il rapporto dei rom con la città e le istituzioni». E non è “solo” questo: andare a scuola ha fatto crescere negli anni una maggiore coscienza dei propri diritti e doveri e ha fatto maturare in tanti giovani il desiderio di trovare risposte adeguate e nuove alla loro vita, come la domanda per la casa e la ricerca di un lavoro stabile. Molti giovani oggi frequentano le scuole superiori, qualcuno l’Università e lavorano stabilmente e regolarmente. Qualcuno nasconde le proprie origini per pudore, altri per paura. Altri ancora per consapevolezza, perché senza leggi che riconoscono la lingua e la cultura Rom ogni battaglia diventa un’impresa imbroba.

 

Maria pensa al primo giorno di scuola di Florian, pensa che non è pronto per la vita con «la maggioranza», come lei chiama tutti gli altri, ed è sicura che anche la maggioranza non sia pronta per Florian: «Però è vera anche un’altra cosa, come dicono gli educatori: siamo gocce d’acqua e senza di noi non si scaverà mai la montagna».

Questa inchiesta a puntate è stata prodotta grazie al supporto di Journalism Fund Europe. Le foto sono di Erik Nikolic.

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