Ep. 1

Tra segregazione e propaganda

Tra sgomberi, stereotipi e propaganda, la comunità Rom resta il bersaglio preferito della politica e dei media italiani

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.
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Tutti a scuola

Nonostante numerose sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo abbiano giudicato la segregazione scolastica dei bambini rom una violazione dei diritti umani, la segregazione sta aumentando in tutta Europa. Questo progetto transfrontaliero realizzato da Slow News, Okraj e Átlátszó Erdély, indaga le pratiche di desegregazione nella regione di Moravia-Slesia (Repubblica Ceca), Transilvania (Romania) e a […]

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.

L’estate del 2025 è stata l’ennesima estate di marginalità e pregiudizio per le comunità Rom che vivono in Italia. Il 26 luglio 2025 la direzione generale del Comune di Roma ha inviato una lettera di diffida alla sezione romana della Lega Nord, uno dei partiti della maggioranza di governo in Italia il cui segretario è vicepresidente del Consiglio dei ministri e ministro delle Infrastrutture, intimando loro di rimuovere alcuni manifesti politici di 3 metri per 2 che da qualche giorno arredavano le mura della città.

 

«Scippi in metro? Ora finisci in galera senza scusa», recita uno degli slogan scelti per la campagna. Sono parole che accompagnano un’immagine creata con l’Intelligenza artificiale in cui una persona nera, una coi rasta e una donna in abiti tradizionali Rom vanno incontro a un agente di polizia e ad un carabiniere. È il modo con cui la Lega Nord ha comunicato al suo elettorato l’approvazione di un decreto legge chiamato DDL Sicurezza ed entrato in vigore il 10 giugno, che inasprisce le pene per alcuni reati contro il patrimonio.

 

Le autorità sono state costrette ad agire, ha chiarito il Comune di Roma, in seguito alle segnalazioni di alcuni cittadini ma, ha specificato il Comune, «non è censura» perché «il contenuto contiene stereotipi legati all’appartenenza etnica». Un atto dovuto, insomma, causato unicamente a un moto di civiltà di qualche cittadino: «Siamo di fronte a una violenza inaudita» si è difeso il partito politico, annunciando che «sono in produzione magliette ad hoc».

 

L’estate 2025 è l’estrema sintesi di una situazione culturale e legislativa marcatamente razzista, in cui le comunità Rom che vivono in Italia sono costrette a confrontarsi ogni giorno. Un contesto da spaghetti western, in cui i Rom «brutti sporchi e cattivi» spiega l’educatore di etnia Rom Nedzad Husovic, vengono usati come carne da propaganda.

 

Due settimane dopo, il 13 agosto 2025, il direttore del quotidiano Libero, ideologicamente vicino allo stesso partito dei manifesti di luglio, pubblicava un editoriale dal titolo eloquente, commentando un omicidio stradale di cui si erano resi responsabili alcuni ragazzi Rom che, vicino Milano, vivono ai margini della società: «Ora non diteci che è stato solo un caso». L’articolo di spalla dello stesso quotidiano aggiungeva un dato: la giunta di centrosinistra a Milano ha sgomberato e raso al suolo tanti campi Rom quanti la giunta di centrodestra. Questo vale a Milano come a Roma, a Palermo, ad Aosta o nel piccolo comune italiano. Questo perché, evidentemente, chiudere i campi Rom è l’unità di misura che le autorità usano per quantificare i loro successi e qualificare il loro lavoro agli occhi di un certo tipo di elettorato. Un lavoro contro le comunità Rom.

 

La realtà delle cose è che la situazione attuale, in Italia, va bene a tutti, da sempre. E senza uno sforzo, che è culturale prima ancora che politico, andrà bene a tutti ancora per molto tempo: l’Italia, nel 2025, è ancora l’unico Paese d’Europa in cui i “campi Rom” sono in un limbo legislativo e culturale, quello della “tolleranza”.

 

«In Italia» racconta Carlo Stasolla, presidente dell’Associazione 21 luglio e, per il suo lavoro trentennale con le comunità Rom e Sinti, Cavaliere della Repubblica, «sono circa 15.800 i Rom e Sinti che vivono nelle baraccopoli formali e informali, pari allo 0,03% della popolazione italiana. Circa 13.300 abitano nelle 119 baraccopoli istituzionali, presenti in 75 comuni e in 13 regioni. Nelle baraccopoli informali sono stimati circa 2.500 rom», un dato in costante calo da un decennio. «Dal 2016, anno del nostro primo rilevamento» continua Stasolla «osserviamo un decremento totale del 44%» delle persone che vivono nel sistema campi.

La Strategia Nazionale di uguaglianza, di inclusione e di partecipazione di Rom e Sinti 2021-2030 è stata adottata con decreto direttoriale del 23 maggio 2022 e ha sollevato numerose critiche da parte sia della Commissione Europea che dalle associazioni.

 

La prima ha espresso critiche che riguardano anzitutto l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali, che risulterebbe mancante dell’autorità necessaria per adempiere con un ruolo adeguato al coordinamento e al monitoraggio delle azioni previste nella Strategia Nazionale 2021-2030 mentre il Rapporto di monitoraggio della società civile sulla qualità del quadro strategico nazionale per l’uguaglianza, l’inclusione e la partecipazione dei rom in Italia”, un lavoro dell’Associazione 21 luglio, ha posto in evidenza, attraverso un’accurata analisi critica, diversi specifici punti di debolezza della Strategia Nazionale 2021-2030, legati principalmente a una strategia non vincolante che non prevede sanzioni a quelle Amministrazioni che violano apertamente i suoi princìpi.

 

E poi, c’è un aspetto che balza subito all’attenzione, quello della rappresentazione sociale: a marzo 2025, in uno sketch mandato in onda sul programma satirico Striscia la notizia, una stereotipata donna Rom viene accusata di avere rubato un bambino, chiamata «zingara di mer**» e addirittura manganellata tra le risate registrate in sottofondo. 3 milioni di telespettatori stavano guardando il programma in quel momento, che è uno dei più seguiti d’Italia.

Ci sono poi aspetti legali, istituzionali, legati tragicamente a queste rappresentazioni culturali stereotipate delle comunità Rom. Uno degli assunti principali è che queste comunità siano culturalmente e socialmente predisposte al nomadismo, allo spostamento.

 

La realtà è ben diversa ma il cosiddetto sistema campi alimenta questo stereotipo, oltre alla sua presunta soluzione securitaria. Una soluzione per tutti (autorità, politica e società) scolpita nel marmo: i campi Rom vanno chiusi, in qualsiasi modo. Il 25 luglio 2025, con fondi del Giubileo e promosso dalla Regione Lazio, le autorità hanno sgomberato a Roma un campo abitato da una comunità Rom nel quartiere Magliana, operazione che ha lasciato 36 persone (molti bambini) senza casa, in violazione dei diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione Europea. Il 18 agosto la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), dopo ricorso presentato da alcune famiglie rom e da Associazione 21 luglio, ha chiesto al Governo italiano di chiarire se alle famiglie sgomberate sia stata offerta un’alternativa abitativa, tenuto conto della presenza di minori e persone vulnerabili.

 

In Italia, quando ci sono di mezzo i Rom, il degrado si combatte anche con altre armi, molto più potenti delle ruspe e della galera, e che in un certo senso includono una consistente dose di quello che nella cooperazione internazionale viene chiamato white-saviourism, il complesso del salvatore bianco, un’allucinazione per cui una persona (bianca e della classe media) immagina se stessa come soccorritrice o liberatrice di poveri e derelitti che vivono condizioni svantaggiate, partendo però da un presupposto, implicito e spesso non consapevole: che loro sanno meglio di chiunque altro di cosa hanno bisogno queste comunità. 

Queste sono le armi del terzo settore, un mondo fatto di associazioni ed enti locali che, spesso mossi dalle migliori intenzioni, finiscono per nutrire una narrativa razzista e escludente nei confronti di queste comunità, presentate come svantaggiate e, per questo, da salvare.

 

Nedzad Husovic, su questo punto, è chiaro: «Non esistono piani strategici per far uscire completamente i bambini da questo contesto. Anzi, sono proprio le associazioni che alimentano questa cosa, il quadro è desolante». Nel 2023, a Roma, la maggior parte delle persone Rom viveva in 5 cosiddetti insediamenti formali (oltre 2.000 persone), altri 600 in insediamenti semi-informali (chiamati “tollerati”) e un migliaio in altri campi totalmente informali.

 

Uno degli insediamenti formali è il Campo di via di Salone: «C’era il progetto Uscire per sognare, l’obiettivo dichiarato era favorire la scolarizzazione e l’integrazione dei bambini» spiega Husovic, aggiungendo che «tuttavia, il doposcuola si svolgeva all’interno dello stesso campo, in un container, vanificando ogni sforzo per fare uscire i bambini dal contesto segregante».

 

I progetti per l’inclusione delle comunità Rom, nella città di Roma, nascono e si evolvono quasi tutti all’interno di un grande paradosso: «Si creano percorsi di emancipazione calandoli dall’alto e mantenendo intatta la logica dell’isolamento. Questo è l’emblema dell’approccio fallimentare di molte associazioni: le stesse, che si dichiarano inclusive, non coinvolgono le persone Rom nei processi decisionali né, tantomeno, in attività realmente trasformative» e questa logica riverbera a tutti i livelli della piramide decisionale di questi progetti di inclusione.

 

«C’è un’esclusione sistemica dei Rom dai tavoli istituzionali e decisionali, perché anche le realtà associative più importanti, che si fregiano di lavorare con le comunità, ma che in realtà non prevedono alcun ruolo attivo per i membri della comunità Rom» denuncia Husovic, un’esclusione che alimenta una dinamica di rappresentazione fittizia e paternalistica, in cui gli operatori, le associazioni e la politica parlano «a nome di» senza, tuttavia, una reale legittimazione dal basso.

 

Si parte da un riconoscimento, che in Italia semplicemente non avviene. Nei censimenti pubblici italiani non esistono dati etnici e bisogna affidarsi al rapporto ECRI del Consiglio d’Europa di ottobre 2024 per stimare tra le 120 e le 180.000 persone la popolazione di Rom e Sinti in Italia, oltre la metà dei quali minorenni. Dall’attività di monitoraggio e raccolta dati del 2024 dell’Associazione 21 luglio, emerge che l’Italia è il Paese europeo che dedica maggiori risorse, sia umane che economiche, alla gestione di strutture abitative con un chiaro profilo discriminatorio, ma mancano in realtà dati certi e pubblici, ufficiali e coerenti sulle condizioni di vita di queste comunità.

Questa inchiesta a puntate è stata prodotta grazie al supporto di Journalism Fund Europe.

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