Quando una città è davvero intelligente
L’idea di smart city è sempre più diffusa e applicata, ma non è poi così chiaro come si concretizzi. E, soprattutto, a vantaggio di chi.
A Roma i fondi di coesione hanno sostenuto una piattaforma digitale per rendere la Capitale smart. I risultati sono poco chiari, ma il progetto è stato rifinanziato.
I fondi di coesione Ue vengono usati anche per finanziare progetti di sorveglianza. A Venezia hanno sostenuto la realizzazione di una Smart Control Room. Ma non è l’unico caso. Alberto Puliafito e Laura Carrer indagano
I fondi della coesione Ue, a volte, possono finire a finanziare anche infrastrutture di sorveglianza.
È accaduto a Venezia, per esempio, come abbiamo raccontato con l’inchiesta Smart Controlled.
Il caso della città lagunare non è isolato: capita che i fondi europei per contrastare le disuguaglianze finanzino progetti che rientrano nell’etichetta “smart city”, qualsiasi cosa questo termine voglia dire.
A Roma, per esempio, nel 2021 è stata finanziata una data platform di cui si sa molto poco.
Nonostante ciò, l’iniziativa ha ottenuto un secondo finanziamento, sempre nell’ambito della politica di coesione.
La coesione è una politica dell’Unione europea per la redistribuzione della ricchezza con un budget complessivo enorme: per il periodo 2021-2027 è di 392 miliardi di euro, un terzo del totale del bilancio Ue.
L’obiettivo di questa politica, secondo quanto riportato sul sito della stessa Unione, è creare posti di lavoro, competitività e crescita economica, sviluppo sostenibile e miglioramenti della qualità della vita dei cittadini. Riferimenti ampi che, come accade anche per altre linee di finanziamento europee, non definiscono veri e propri progetti, i quali vengono decisi a livello di singoli stati membri in accordo con la Commissione Ue.
Negli ultimi tre cicli di programmazione, e in particolare con i programmi operativi dedicati allo sviluppo urbano (PON Metro 2014-2020 e PN Metro Plus e Città Medie Sud 2021-2027), la coesione in Italia ha finanziato progetti a largo spettro, anche nell’ambito digitale. E, tra questi, molti avevano l’obiettivo di rendere smart le città.
Sono interventi che si legano ad un sempre maggiore utilizzo del concetto di smart city, non particolarmente nuovo né a livello internazionale né europeo, ma che negli ultimi anni è comparso spesso sulla bocca di molti sindaci, nelle dichiarazioni dei politici, durante gli incontri con la cittadinanza o all’interno di documenti ufficiali.
Nel documento che presentava il PON Metro 2014-2020, per esempio, si spiega che il programma «si prefigge di incidere rapidamente su alcuni nodi tuttora irrisolti che ostacolano lo sviluppo nelle maggiori aree urbane del paese» e uno di questi nodi viene individuato proprio nella «applicazione del paradigma “Smart city” per il ridisegno e la modernizzazione dei servizi urbani per i residenti e gli utilizzatori delle città».
Il PN Metro Plus e Città medie Sud, che è il programma successivo e che riguarda il ciclo di bilancio in corso, si è mosso in continuità e si propone di «continuare l’azione impressa dal Pon Metro 14-20» per consentire ai cittadini di usare in modo sistematico «servizi efficienti e user friendly» e alla pubblica amministrazione «di completare la transizione ad un modello di gestione della città smart».
È in queste parole che trovano slancio progetti come quelli di Venezia, Roma e Firenze.
Nel capoluogo toscano, dallo scorso marzo, è attiva una Smart control room simile a quella di Venezia. Il nome completo è Smart city control room ed è stata inaugurata lo scorso marzo dall’allora sindaco Dario Nardella.
«Questa nuova Smart city control room è un vero e proprio gioiello di alta tecnologia, sicuramente il più avanzato in Italia, che ci consentirà di avere il controllo totale di quello che succede in città, a cominciare dalla mobilità, sia pubblica che privata, ma anche la sicurezza, l’illuminazione, i semafori, l’infomobilità», ha dichiarato in quell’occasione l’ex primo cittadino di Firenze.
Il progetto, spiega un comunicato stampa del comune, è costato complessivamente 2,5 milioni di euro. Di questi, 1,57 milioni provengono proprio dal PON Metro e i restanti dal bilancio della città, cui vanno aggiunte le risorse impiegate per lo sviluppo dei sistemi informativi. Nella descrizione del progetto, il comunicato cita anche strumenti di analisi predittiva «che aiuteranno il coordinatore e gli operatori non solo a comprendere i fenomeni che si manifestano ma anche ad anticipare azioni in funzione di ciò che potrebbe accadere in città e nei territori limitrofi».
Come questo avverrà però è molto difficile capirlo nel dettaglio perché il Comune di Firenze non ha mai risposto alla richiesta di accesso civico generalizzato inviata da Slow News sul progetto.
Questa mancanza di trasparenza non ha reso possibile capire anche un altro aspetto importante di progetti come questo, sollevato dalla Smart control room di Venezia: l’utilizzo dei dati delle compagnie telefoniche.
Già tra 2016 e 2017, il Comune di Firenze aveva acquisito «i dati provenienti dai due principali operatori di telefonia mobile presenti in Italia, cioè TIM e Vodafone Italia» per fare analisi più accurate di quelle precedenti su turismo e traffico in città. Quell’esperienza era stata raccontata su Agenda Digitale da un articolo firmato dalle stesse persone che avevano promosso e implementato l’iniziativa, tra cui l’allora assessore all’innovazione tecnologica di Firenze, Lorenzo Perra.
Gli autori spiegavano di aver condiviso i dati con alcuni uffici del comune, tra cui «le Direzioni che per eccellenza usano tali dati, ossia il Turismo, le Attività economiche, la mobilità, la protezione civile». «Con ciascun ufficio di fatto stanno nascendo delle idee di progettualità per sfruttare la potenzialità di questi dati, per rendere i servizi più efficienti possibili», scrivevano nel 2018.
Se le idee di progettualità del 2018 si siano poi concretizzate nella Smart city control room e, quindi, se la nuova struttura analizzi anche i dati telefonici di fiorentini e turisti, però, come detto sopra, non possiamo saperlo a causa del mancato accesso ai documenti richiesti.
La Roma data platform è un altro progetto di cui si fatica a capire il reale funzionamento.
Anzi, rispetto a Firenze, qui il quadro è ancora più complesso da decifrare.
Su OpenCoesione, il portale open data che monitora le opere delle politiche di coesione in Italia, il progetto è definito come «uno strumento metodologico e tecnologico abilitante per l’attuazione del piano smart city di Roma capitale» ed è finanziato da 900mila euro spalmati tra 2020 e 2023. I soldi provengono dal Pon Metro 2014-2020, lo stesso dei casi di Venezia e Firenze. Secondo il portale l’iniziativa si è conclusa nel dicembre 2023. Nonostante ciò, le informazioni pubbliche disponibili sul percorso svolto rimangono frammentate. Ancora più difficile è capire cosa sia, in concreto, questo strumento.
La Roma data platform è citata, per esempio, nel Piano Roma Smart City, presentato nel marzo 2021 dall’allora sindaca Virginia Raggi. L’obiettivo del piano, recita la prima slide della presentazione dell’iniziativa, è «costruire una città intelligente e a misura dei cittadini con l’utilizzo delle nuove tecnologie digitali» e il primo strumento previsto è proprio la Roma data platform, che dovrebbe «raccogliere, analizzare ed esporre i dati interni ed esterni relativi a Roma Capitale» da utilizzare per «promozione del turismo, sviluppo economico, incremento sicurezza e introduzione di nuovi servizi alla collettività».
Per capire meglio cosa è stato fatto in questi anni, anche in questo caso, abbiamo inviato una richiesta di accesso civico generalizzato al comune. La risposta dell’amministrazione questa volta è arrivata, è piuttosto vaga, ma consente di aggiungere alcuni elementi.
Innanzitutto viene spiegato che la Roma data platform è «un sistema di supporto alle decisioni al momento riservato esclusivamente ai direttori apicali delle strutture di Roma Capitale ed alla parte politica». Poi si aggiunge che la piattaforma «si compone di un data lake (un archivio di grandi volumi di dati, ndr) che mira a far convergere al suo interno diverse fonti informative afferenti ai principali ecosistemi di Roma Capitale (dati delle camere di commercio, dei sensori IOT diffusi nella città, degli sportelli unici, della mobilità, del ciclo rifiuti, del patrimonio) nonché di operatori privati come Tim, Aeroporti di Roma e Trenitalia».
Come a Venezia, anche in questo caso è coinvolta Tim, presumibilmente per l’analisi dei dati telefonici, ma dal dipartimento di Trasformazione digitale del comune non è arrivata nessuna informazione aggiuntiva su alcuni aspetti cruciali, come le modalità di costruzione della partnership coi privati o i possibili accordi stipulati tra pubblico e privato per gestire i dati e le informazioni ricavati dalla data platform.
Qualche ulteriore dettaglio lo si trova proprio sul sito di Tim. «La nuova piattaforma fornisce un “cruscotto” di controllo per visualizzare in modo integrato e simultaneo i dati sugli aspetti chiave della vita quotidiana di una grande città: ad esempio, il numero di persone presenti in città e l’analisi delle presenze turistiche dei flussi, le previsioni meteo, la concentrazione delle attività economiche, la situazione dei parcheggi in tempo reale», si legge.
Il percorso della Roma data platform ha previsto anche delle azioni di coinvolgimento della società civile. Nella risposta fornita a Slow News, il comune dice che «intende riaccendere la partecipazione attiva di enti e soggetti interessati al processo di transizione digitale» e spiega che «nell’ottica di mantenere vivo ed aggiornato il Piano Smart city pubblicato nel marzo 2021, Roma ha recentemente istituito la Consulta Roma Smart City Lab come strumento di supporto dell’Amministrazione sui temi strategici dell’innovazione e della trasformazione digitale».
L’organo è stato istituito con una delibera del settembre 2023 e a gennaio 2024 sono state approvate le candidature di numerose organizzazioni, oltre un centinaio. Tra i partecipanti ci sono associazioni di quartiere e commercianti della città ma anche Amazon Web Service, Lutech srl (un’azienda che vende alle procure italiane servizi di intercettazione e malware), società di produzione di contenuti audiovisivi, di analisi dei dati, di prodotti di machine learning e intelligenza artificiale.
Cittadinanza attiva Lazio, ad agosto 2024, ha raccontato a Slow News di aver aderito alla consulta per curiosità, sperando di trarne vantaggio per il proprio lavoro. «Al momento però c’è stata una sola riunione per eleggere dei referenti» dicono. «A settembre dovrebbero esserci i primi incontri».
A quasi quattro anni dalla presentazione della Roma data platform, quindi, non è facile valutare l’iniziativa.
Tim, sul suo sito, dichiarava che «l’obiettivo è migliorare gli standard di servizio per tutti i city user e ridurne i costi; esprimere una maggiore efficacia ed efficienza dell’azione amministrativa; promuovere partecipazione, cittadinanza, trasparenza, fiducia e inclusione. Il tutto anche a supporto della ripresa dalla crisi legata alla pandemia». Abbiamo chiesto al comune se questo molteplice e ambizioso obiettivo sia stato raggiunto, ma su questo punto l’amministrazione capitolina non ha risposto con informazioni utili.
Quando si leggono parole come «standard di servizio» o «promuovere inclusione» viene da pensare ai tanti problemi che affliggono Roma e si può fare un paragone con Venezia, dove la Smart control room, con la sperimentazione del ticket di ingresso in città, si lega al tema dell’overtourism. Anche la Capitale soffre le conseguenze negative dei flussi turistici, e ancora di più potrebbe soffrirli in vista dell’imminente Giubileo del 2025. La Roma data platform dovrebbe raccogliere anche dati relativi ai turisti, ma non è chiaro se affronti anche questi problemi né come contribuisca a migliorare la situazione.
La risposta è che delle risposte potrebbero arrivare in futuro.
Il progetto, infatti, è stato nuovamente finanziato.
Con ancora più fondi, sempre della politica di coesione Ue.
Come si legge sul sito del Comune, il progetto Evoluzione Roma data platform è partito nel marzo 2024 e si protrarrà fino a fine 2027, grazie a un finanziamento di 2 milioni e mezzo di euro del PN Metro Plus e Città Medie Sud 2021-2027.
«L’obiettivo del progetto “Evoluzione Roma Data Platform” è quello di creare uno strumento abilitante per la Smart City, facilitando l’aggregazione e lo scambio organizzato dei dati generati da Roma Capitale. L’iniziativa, infatti, mira a garantire dati fruibili in tempo reale, migliorando l’esperienza dei city user e la gestione amministrativa. Inoltre mira ad integrare tutte le iniziative volte ad ottimizzare i servizi e coinvolgere una vasta platea di utenti» dice la descrizione del nuovo progetto, per la verità molto simile a quella di quello precedente.
I cicli di programmazione cambiano.
Ma i fondi per le smart city continuano ad essere stanziati. E questo succede anche se i risultati delle iniziative precedenti sono poco chiari o molto limitati.
È un problema, non solo per chi cerca di reperire informazioni sulla declinazione pratica del concetto di smart city in Italia, ma anche e soprattutto per la cittadinanza coinvolta.
In copertina: Roma, Gabriella Clare Marino su Unsplash
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I fondi di coesione Ue vengono usati anche per finanziare progetti di sorveglianza. A Venezia hanno sostenuto la realizzazione di una Smart Control Room. Ma non è l’unico caso. Alberto Puliafito e Laura Carrer indagano
L’idea di smart city è sempre più diffusa e applicata, ma non è poi così chiaro come si concretizzi. E, soprattutto, a vantaggio di chi.
La Smart Control Room di Venezia è stata finanziata con fondi della politica di coesione europea per contrastare le disuguaglianze, migliorare le condizioni di vita, rafforzare la coesione. Ma è davvero così?
Il primo caso del mondo contemporaneo occidentale in cui una città diventa “su prenotazione”.
A Roma i fondi di coesione hanno sostenuto una piattaforma digitale per rendere la Capitale smart. I risultati sono poco chiari, ma il progetto è stato rifinanziato.
L’idea di smart city è sempre più diffusa e applicata, ma non è poi così chiaro come si concretizzi. E, soprattutto, a vantaggio di chi.
Se l’Unione vuole avere successo in questa nuova fase, deve rivolgersi verso il Sud. Per Amedeo Lepore, la politica di coesione può consentire di ancorare l’Europa alle profonde trasformazioni della globalizzazione, a condizione che sia in grado di sviluppare un metodo euro-mediterraneo.
Mentre il mercato del lavoro è alle prese con l’aumento delle dimissioni da un lato e il fenomeno del quiet quitting dall’altro, il benessere dei lavoratori diventa sempre più un tema centrale per le aziende.
Nel solco dei “neo-idealisti”, l’ex presidente estone riflette in questa intervista sulla necessità di continuare lo sforzo di coesione attorno al sostegno militare all’Ucraina. Secondo lei, le trasformazioni nate in mezzo alla prova della guerra dovrebbero permettere all’Unione di approfondire la sua integrazione interna e di rafforzare le relazioni con il suo vicinato a Sud.
Ridurre i divari e le disuguaglianze tra le regioni è un obiettivo fondamentale dell’integrazione europea. Destinata a favorire la convergenza e la crescita, la politica di coesione si sviluppa su un lungo periodo, ma è stata messa a dura prova dagli shock improvvisi della pandemia e della guerra in Ucraina. In 10 punti e attraverso 26 grafici e mappe, tracciamo un bilancio dello stato attuale della politica di coesione e del suo futuro, mentre gli Stati membri si preparano a un allargamento che potrebbe sconvolgerne le coordinate.