Ep. 04

Quando una città è davvero intelligente

L’idea di smart city è sempre più diffusa e applicata, ma non è poi così chiaro come si concretizzi. E, soprattutto, a vantaggio di chi.

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.
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Coesione e sorveglianza

I fondi di coesione Ue vengono usati anche per finanziare progetti di sorveglianza. A Venezia hanno sostenuto la realizzazione di una Smart Control Room. Ma non è l’unico caso. Alberto Puliafito e Laura Carrer indagano

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Tutti ne parlano, ma nessuno sa davvero come siano fatte e a cosa servano.

Sono le smart city. 

 

Il concetto di smart city è sempre più diffuso, anche se non particolarmente nuovo né a livello internazionale nè europeo. Negli ultimi anni, però, è comparso sempre più spesso sulla bocca di politici e decisori, durante gli incontri con la cittadinanza o all’interno di documenti ufficiali. 

 

Ma che cos’è esattamente una smart city? 

 

La Commissione europea spiega che una smart city è «un luogo in cui le reti e i servizi tradizionali sono resi più efficienti grazie all’uso di soluzioni digitali a vantaggio dei suoi abitanti e delle imprese». 

 

È solo una delle definizioni possibili, ma già questa basta per far sorgere diversi interrogativi. Il primo è se questi processi di maggiore efficienza vadano davvero a vantaggio sia degli abitanti sia delle imprese o se, invece, non ci siano alcuni attori che traggono più vantaggio di altri. 

 

Quel che è certo, però, è che l’idea di rendere le città più intelligenti nasce da una serie di problemi reali che toccano le aree urbane a livello globale. 

Il problema da risolvere con le smart city

Nel mondo, le città sono organismi responsabili del 70 per cento dell’inquinamento prodotto e che consumano il 60 per cento dell’energia prodotta. Lo attesta un rapporto prodotto dall’Agenzia internazionale per l’energia (Iea), presentato a maggio scorso nella cornice del G7 di Torino. Stime che non sorprendono perché le città sono il luogo in cui vive la maggior parte della popolazione mondiale: circa 5 miliardi di persone, circa il 60 per cento. 

 

Le città hanno dunque un ruolo locale ma anche globale, e mutano radicalmente nel tempo diventando sempre più complesse. In una società dei dati significa che producono anche molte informazioni su ciò che vi succede all’interno e sui suoi abitanti, su chi le attraversa e utilizza.

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Pawel Czerwinski su Unsplash

Rimane però il punto di capire cosa se ne vuole fare di questi dati, come usarli, per quali obiettivi e, come dicevamo, a vantaggio di chi. E qui torniamo alla definizione di smart city e alla misurazione delle performance delle città in ambito digitale, che può essere fatta con modalità diverse e può portare a risultati diversi.

 

Lo Smart City Index del 2024, per esempio, usa parametri stabiliti dall’Ocse: «infrastrutture tecnologiche e connettività, sostenibilità ambientale e mobilità, e mercato del lavoro tecnologico». Nel 2024 Roma ha raggiunto la 133esima posizione di questa classifica, in peggioramento rispetto all’anno precedente. Le altre città italiane in gara sono state Milano e Bologna, al 91esimo e al 78esimo posto.

Secondo la Commissione Ue, una smart city è «un luogo in cui le reti e i servizi tradizionali sono resi più efficienti grazie all’uso di soluzioni digitali a vantaggio dei suoi abitanti e delle imprese». 

La testata online italiana ForumPA, invece, sulla base di 37 indicatori costruiti su 171 variabili, ha stilato una graduatoria articolata in tre diverse dimensioni: amministrazioni digitgali, comuni aperti e città connesse. Cremona, Firenze e Bologna, rispettivamente, si sono aggiudicate il primo posto nelle tre classifiche. Venezia, invece, è ventunesima, decima e quarta mentre Roma è risultata tredicesima, quarta e quattordicesima. 

 

La digitalizzazione, quindi, non è facile da monitorare, e ancora più complesso è valutare il suo impatto sulla vita di chi le città le abita. E sui problemi che incidono sulla loro quotidianità. Il caso di Venezia, in tal senso, è emblematico.

Cosa ci dicono i casi di Venezia e Roma

Venezia è una delle rappresentazioni più concrete di “città intelligente” in Italia, o almeno di ciò in cui è stato declinato il concetto. L’idea di “salvare Venezia” non è nuova. Ma salvarla da cosa, esattamente? In questo momento sembra che il “nemico” sia l’overtourism. Tanto che lo scorso 25 aprile è partita una sperimentazione per accedere alla città su prenotazione, inizialmente in ventinove date.

 

Smart control room e biglietto di ingresso alla città sono due tra gli strumenti tecnologici della Venezia smart. In teoria, consentono all’amministrazione comunale di analizzare gli spostamenti di residenti, pendolari e turisti e di fare previsioni. L’obiettivo finale dell’iniziativa, come ha dichiarato lo stesso sindaco di Venezia Luigi Brugnaro, è «diluire in altre date non di picco il turismo mordi e fuggi». 

 

Qualcosa, però, non ha funzionato. 

 

Il comune si aspettava di ottenere dalla misura circa 700mila euro, mentre, secondo i primi dati diffusi, le persone che hanno pagato il ticket sono state 485.062, «per un totale di 2.425.310 euro incassati», il triplo di quanto preventivato. I turisti, quindi, sono stati molto di più di quelli attesi. 

Viene da chiedersi, quindi, a chi abbia portato vantaggio questa operazione molto smart. 

E se effettivamente questi processi di digitalizzazione possano aiutare davvero a risolvere i principali problemi delle città italiane. Anche il caso della Roma data platform, che abbiamo raccontato qui, solleva dubbi. 

 

La Tim, partner del progetto, dice che la piattaforma provvede alla «raccolta del numero di persone presenti in città, dell’analisi delle presenze turistiche dei flussi, di previsioni meteo, della concentrazione delle attività economiche, della situazione dei parcheggi in tempo reale». In gran parte, si tratta di dati creati da cittadini e cittadine, che però faticano a vederne i vantaggi. 

 

«Se ci saranno vantaggi per i cittadini comuni sarà difficile dirlo ad oggi», afferma Andrea Ariano, architetto e dottore di ricerca in architettura che ha scritto dell’iniziativa all’interno della raccolta Una geografia delle politiche urbane tra possesso e governo. In quel contributo del 2021 Ariano parlava del «rischio che la nuova piattaforma costituisca un vantaggio principalmente per le istituzione e per le aziende private, e che i cittadini vengano lasciati indietro beneficiandone forse in maniera passiva e indiretta». Oggi conferma che «l’impostazione della Roma data platform sembrerebbe essere sbilanciata lato amministrazione e imprese». 

La visione delle imprese e della politica

Un modo per provare a capire meglio cosa siano davvero le smart city e a vantaggio di chi siano progettate è guardare al modo in cui vengono raccontate dalle imprese private, che spesso sono coinvolte dal pubblico in questi progetti. 

 

Ibm ne parla esplicitamente come di uno strumento che permette di «andare oltre le decisioni basate sulla politica per rimodellare le città con approfondimenti ottenuti dai dati». Tim, che è coinvolta sia nel progetto di Venezia sia in quello di Roma, nella sezione del suo sito dedicata alle smart city, spiega che «il ruolo di una Control Room nelle città va oltre la semplice supervisione; essa rappresenta il fulcro dell’intelligenza urbana, integrando e analizzando dati in tempo reale per una gestione più efficiente e proattiva del tessuto urbano.

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La smart city viene presentata come uno strumento efficiente e non contestabile, che aiuta a  prendere decisioni giuste a partire da dati oggettivi. Di conseguenza, la politica rischia di diventare sempre più distante dalla gestione della città. Le stesse istituzioni, poi, raccontano le smart city come se favorissero la partecipazione sociale e politica. In realtà, il timore è che i processi per rendere intelligenti le città escludano cittadini e cittadine: se chi governa ha già tutti i dati «per rimodellare le città con approfondimenti ottenuti dai dati», che bisogno c’è di aprire un dibattito pubblico sulla pianificazione urbana?

Ibm definisce la smart city come uno strumento che permette di «andare oltre le decisioni basate sulla politica per rimodellare le città con approfondimenti ottenuti dai dati».

Nonostante questo, la smart city sembra un destino al quale molti amministratori locali non si vogliono sottrarre. Eppure, in Italia, casi di successo di smart city ancora non se ne vedono, secondo i ricercatori. Anche perché, riprende il ricercatore Ariano «ogni volta sembra che si debba ripartire da zero, magari perché nel frattempo è cambiato il sindaco e quindi la linea politica e dirigenziale». A suo parere, progetti come la Roma data platform «sono di difficile realizzazione senza una visione di insieme sul lungo periodo». 

 

Una città che questa visione l’ha avuta, invece, è Barcellona.
Ed è partita da una riflessione sui dati che vengono estratti dalle città intelligenti.

 

«Si tratta di immaginare l’informazione e i dati come un bene comune, al pari dell’acqua e dell’aria», spiega Ariano, che definisce «un progetto rivoluzionario» quello della città catalana. 

L’esempio di Barcellona

Barcelona ciutat digital è l’unico vero caso studio internazionale riconosciuto nell’ambito delle smart city. Diversi articoli accademici pubblicati dal 2018 in poi la citano come città modello in tal senso. Il merito è di Ada Colau, sindaca di Barcellona dal 2015 al 2023 per il movimento di sinistra Barcelona en Comù. 

 

A prescindere da quale sia la propria idea di smart city, e di come si dovrebbe declinare, l’iniziativa portata avanti dalla giunta di Colau ha centrato due punti: l’apertura della governance attraverso processi partecipativi e maggiore trasparenza nel rapporto tra governanti e governati; la definizione di una smart city che vada a vantaggio dei suoi cittadini, e non il contrario. 

 

Il processo che ha portato a questi risultati è stato guidato dall’italiana Francesca Bria, che è stata a capo dell’innovazione digitale e tecnologica del comune catalano ed è stata il volto di Barcelona ciutat digital insieme a Colau. «Stiamo invertendo il paradigma della città intelligente. Invece di partire dalla tecnologia ed estratte tutti i dati possibili prima di pensare a come utilizzarli, abbiamo iniziato ad allineare l’agenda tecnologica con l’agenda della città», ha spiegato in un’intervista a Wired. 

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Uno dei punti chiave dell’intera iniziativa catalana è il concetto sottolineato da Ariano: i dati prodotti dai cittadini appartengano ai cittadini, in particolare quelli legati ai telefoni cellulari che vengono raccolti dalle compagnie telefoniche.

 

A tal proposito, Bria ha spiegato che il comune ha introdotto clausole nei contratti con queste aziende, «come la sovranità dei dati e la proprietà pubblica dei dati» e che, da quando ha firmato un contratto con Vodafone il comune ogni mese ha accesso ai dati che l’azienda estrae dalla città. Prima erano usati solamente dalla compagnia telefonica, ora il loro utilizzo può andare a vantaggio di tutta la cittadinanza di Barcellona perché i dati sono disponibili su un portale creato dal comune stesso, in formato aperto, leggibile e riutilizzabile.  I negoziati con la compagnia telefonica, ha spiegato Bria in un’altra intervista, non sono stati facili: «Hanno resistito per oltre un anno», ha detto a Sifted

 

Anche Venezia, con la sua Smart control room, ora ha accesso ai dati legati ai telefoni cellulari, grazie alla collaborazione con Tim. Ma non è chiaro come li usi e, soprattutto, ad oggi, non sembrano portare alcun vantaggio a veneziani e veneziane. 

 

Intanto, però, i progetti per rendere sempre più smart le city italiane proseguono e si moltiplicano. Molti, come abbiamo visto, sono anche quelli finanziati dalla politica di coesione Ue, che continua ad avere tra le sue priorità italiane anche quella delle città intelligenti. Troveranno almeno queste iniziative il modo di mettere, come a Barcellona, i dati al servizio delle persone? Se si, allora avranno rispettato la missione della poltica di coesione, che è combattere le disuguaglianze. Se no, il rischio è che la tradiscano, finendo per aumentarle. 

 

Foto di copertina: Josh Shaw su Unsplash

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