Ep. 4

Come si fa a vivere in un posto in cui non c’è acqua?

Le persone, nel mondo, si spostano per tante ragioni. Quelle legate alla crisi climatica sono sempre più importanti. Eppure, in Europa non vengono prese in considerazione e così la migrazione finisce per essere considerata un’emergenza, ma per le ragioni sbagliate

Un uomo cammina nel deserto in Yemen - Foto: Unione Europea
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Accoglienza a doppio standard

Dal campo, il racconto del doppio standard di accoglienza dei profughi ucraini in Europa.

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«Come si fa a vivere in un posto in cui non c’è acqua?». Lo ripete con rabbia e decisione, Madi Keita, 34 anni, originario del Mali. Nel suo villaggio, Kita, nella zona ovest del paese, ogni giorno gli abitanti sono costretti a fare chilometri, taniche in spalla, per assicurarsi questo bene primario. «L’acqua è vita, senza cosa si può fare? Il mio è un villaggio rurale, senz’acqua non c’è raccolto, non c’è cibo, non è possibile vivere dignitosamente», racconta Keita «Il pozzo che è vicino alle nostre case ha acqua non potabile, se non piove non c’è ricambio. Succede anche che alcuni vadano al lago a prendere l’acqua e la usino per le necessità ma questo comporta infezioni e malattie. È un problema di cui nessuno si occupa ma che sta mettendo in ginocchio intere popolazioni», riflette.

Primogenito di otto fratelli, è arrivato in Italia nel 2011 dopo un lungo viaggio. «Sono stato cresciuto da mia nonna, vivevo con la famiglia di mio padre. Ho sempre sentito sulle mie spalle la responsabilità dei miei fratelli, volevo aiutarli ma non potevo farlo restando in Mali, così sono partito», spiega. La prima tappa del viaggio di Keita è la Libia. «Non avevo intenzione di spostarmi in Europa», racconta -. «Sono andato in Libia per lavorare, nel 2008. E lì ho iniziato a fare di tutto: prima un impiego come domestico poi lavavo i tappeti, infine ho iniziato a fare il panettiere. Per tre anni sono stato bene, il lavoro mi piaceva e riuscivo a mandare i soldi a casa. Poi nel 2011 (con la caduta di Gheddafi, ndr) è precipitato tutto. In Libia non era più possibile stare, a casa non potevo tornare e ho pensato di partire per cercare un futuro migliore».

Il villaggio di Kita, in Mali - Foto: Madi Keita
Il villaggio di Kita, in Mali - Foto: Madi Keita
Madi Keita di fronte al pozzo del suo villaggio, in Mali - Foto: Madi Keita
Madi Keita di fronte al pozzo del suo villaggio, in Mali - Foto: Madi Keita

Il 13 maggio del 2011 Keita approda così sulle coste siciliane. E, una volta in Italia, fa domanda di asilo, sperando di ottenere lo status di rifugiato a causa dei cambiamenti climatici in corso nel suo paese. La commissione territoriale, l’organo incaricato di esaminare la sua richiesta, però non li ritiene un motivo valido e, quindi, Keita ottiene una risposta negativa alla sua domanda, anche se con la possibilità di fare ricorso contro la decisione. Solo nel 2013, quando in Mali era già in corso la guerra civile, ottiene la protezione sussidiaria, per la situazione di conflitto nel suo paese.

Oggi in Italia ha iniziato una nuova vita. Fa il mediatore culturale al Centro Astalli e partecipa al progetto “Finestre”, portando nelle scuole la sua testimonianza per spiegare ai ragazzi cosa significa lasciare il proprio paese. «Oggi non si parla abbastanza di cambiamento climatico e dell’ingiustizia sociale che porta con sé. Ma se nessuno racconta quello che sta succedendo nel mondo anche la politica è legittimata a ignorare il fenomeno. Invece ci sono paesi letteralmente in ginocchio», afferma. «Aiutiamoli a casa loro è sempre più uno slogan vuoto. Io non volevo partire, volevo restare a casa mia, ma come si fa a restare dove manca tutto? Perché tutti si riempiono la bocca della parola emergenza ma l’unica emergenza che nessuno vede è quella climatica?».

23,7 milioni di persone

Per l’Internal Displacement Monitoring Centre (Idmc), negli ultimi 15 anni il numero degli sfollati interni in molti paesi è stato causato principalmente da disastri naturali. Nel 2021, di tutte le persone che nel mondo sono state costrette a spostarsi all’interno del proprio paese, più della metà lo ha fatto per questa ragione. Si tratta di 23,7 milioni di sfollati interni per cause ambientali, contro 14,3 milioni per determinati da dei conflitti

Ad aumentare sono anche i cosiddetti migranti climatici, cioè chi lascia il proprio paese per ragioni legate alla crisi ambientale: secondo la Banca mondiale entro il 2050 potrebbero arrivare alla cifra record di 220 milioni di persone.

Anche secondo l’ultimo rapporto del Centro studi e ricerche Idos i migranti forzati per cause climatiche sono in aumento nel mondo. Idos sottolinea come l’impatto del cambiamento climatico non sia uguale per tutti. «Una maggiore  vulnerabilità può essere ricondotta a tre fattori principali: il fattore geografico, ossia vivere in aree più  fragili e maggiormente esposte agli effetti del riscaldamento globale; il fattore socio-economico, legato all’assenza di risorse e servizi, all’incapacità di adattarsi o prevenire gli impatti della crisi climatica-ambientale; il fattore fisiologico, connesso alle specificità di singole categorie (bambini, donne, anziani). A essere colpiti quindi sono soprattutto i Paesi poveri e i poveri che vivono nei Paesi ricchi», sottolineano i ricercatori.

«Se si guarda ai flussi migratori verso l’Italia – continuano -, nel 2021 tra i primi Paesi di origine troviamo: Tunisia, Egitto, Bangladesh, Afghanistan, Siria, Costa d’Avorio, Eritrea, Guinea, Pakistan e Iran. Si tratta di Paesi che maggiormente stanno soffrendo la pressione del cambiamento climatico, che sono dipendenti dal grano russo e ucraino e dove si alternano siccità e alluvioni, per l’innalzamento delle temperature medie, e dove le conseguenti carestie stanno affamando decine di milioni di persone».

«Quello sui rifugiati ambientali è un dibattito falsato», sostiene Marta Foresti. «Dal 2015 c’è la  tendenza ad abbracciare sulle migrazioni la retorica dell’emergenza. Nella Conferenza sul clima delle Nazioni Unite di Glasgow, la Cop26, è stato ribadito che le questioni ambientali hanno una forte dimensione di urgenza. Ma questo spesso viene tradotto con la paura dell’invasione, cioè dell’arrivo di tantissimi ‘indesiderabili’. Nel mondo ci sono persone costrette a muoversi per questioni legate al clima e all’opposto ci sono persone il cui movimento è limitato proprio per gli stessi fattori ambientali», continua Foresti, direttrice per l’Europa dell’Overseas Development Institute (ODI), un think tank globale con sede a Londra che si occupa di sviluppo e diseguaglianze dal 1960.

Migranti nell’hotspot di Lampedusa nel 2015 - Foto: Unione Europea
Migranti nell’hotspot di Lampedusa nel 2015 - Foto: Unione Europea

Il quadro che traccia Foresti è, quindi, sfaccettato e non tutto fosco. Anzi, secondo la direttrice di ODI Europa, «bisognerebbe riflettere sul fatto che esistono strategie di adattamento legate ai movimenti migratori che stanno cambiando anche alcuni settori importanti, come l’industria. Oggi l’economia si trova davanti alla questione della  riduzione delle emissioni. E la low-carbon transition portà con sè un ripensamento e un riposizionamento della forza lavoro e una riformulazione di alcuni settori. Ci saranno lavoratori che dovranno cambiare mestiere, nuove skillssaranno richieste».

«Quello che manca – conclude Foresti – è anche una visione proattiva della migrazione legata alla transizione ecologica. La realtà migratoria, pensata sempre e solo come un effetto indesiderato, può invece essere anche uno strumento in una strategia di sviluppo sostenibile». L’idea è suggestiva, ma la realtà con la quale si scontra è dura. A cominciare dalle leggi.

Lo status di rifugiato climatico

Sul fronte del diritto d’asilo, infatti, lo status di rifugiato climatico fatica a essere riconosciuto. Come ricorda un dossier della Commissione Libe (Libertà civili, giustizia e affari interni) del Parlamento europeo nell’interpretazione prevalente della Convenzione di Ginevra del 1951 gli sfollatii causati da fattori ambientali non soddisfano le condizioni per la protezione dei rifugiati. Così solo in alcuni paesi Ue nelle forme complementari di protezione vengono previste anche tutele per chi fugge da disastri ambientali.

In Italia nel 2020 con la legge 130/2020, nata per correggere in parte i cambiamenti introdotti dai cosiddetti «decreti Salvini», per la prima volta sono stati ampliati i casi di riconoscimento del permesso di soggiorno per calamità previsti dall’articolo 20 bis del Testo unico sull’ immigrazione. In particolare si passava dalla valutazione di una situazione «eccezionale e contingente» alla più generica condizione di «gravità». Una modifica cancellata però dal nuovo «decreto Cutro» che torna alla dicitura originale, restringendo di nuovo i casi in cui può essere concessa la protezione per calamità naturale.

La politica, quindi, da un lato,continua a gestire un fenomeno strutturale come la migrazione in maniera emergenziale. E, dall’altro, non considera le conseguenze in materia di migrazione della vera emergenza, quella climatica. Un cortocircuito negativo che si è mostrato in tutta la sua evidenza ancora lo scorso aprile.

Con una delibera del Consiglio dei Ministri, il Governo italiano ha dichiarato un nuovo “stato di emergenza” In relazione all’aumento del flussi via mare verso il nostro paese (52.328 arrivi dall’inizio dell’anno al 7 giugno). Il provvedimento ha una durata di sei mesi. Nella pratica si prevedono «misure straordinarie per decongestionare l’hotspot di Lampedusa e per realizzare nuove strutture, adeguate sia alle esigenze di accoglienza sia a quelle di riconoscimento e rimpatrio dei migranti che non hanno i requisiti per la permanenza sul territorio nazionale». Per l’attuazione degli interventi previsti sono stati stanziati cinque milioni di euro dal Fondo per le emergenze nazionali. Non solo.

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L’accoglienza per i profughi in fuga dall’Ucraina a Berlino - Foto: Unione Europea

Contestualmente è stata prorogata fino al 31 dicembre 2023 “l’emergenza ucraina”, anch’essa un’emergenza ma di tutt’altro segno. Restano in vigore le misure di accoglienza e assistenza rivolte ai richiedenti o a coloro che sono già beneficiari della protezione temporanea (direttiva 55/2001) accordata in tutti gli Stati membri dell’Unione europea alle persone in fuga dal conflitto. In una nota diffusa nel marzo scorso la Commissione europea ha ribadito che «l’Unione europea è pronta a sostenere l’Ucraina per tutto il tempo necessario. La protezione è già stata prorogata fino al marzo 2024 e può essere ulteriormente prorogata fino al 2025. la Commissione è pronta ad adottare le misure necessarie per un’ulteriore proroga, se necessario. Allo stesso tempo l’Ue perseguirà un solido approccio coordinato a livello dell’UE per garantire una transizione agevole verso status giuridici alternativi che consentano l’accesso ai diritti oltre la durata massima della protezione temporanea, nonché un sostegno mirato per le persone che, fuggite dall’Ucraina, desiderano ritornare a casa».

A livello finanziario l’Ue ha fornito sostegno agli Stati membri per l’accoglienza dei profughi in fuga con finanziamenti aggiuntivi per un totale di 13,6 miliardi di euro nell’ambito dei pacchetti CARE e FAST-CARE. Un miliardo di euro è stato riprogrammato nell’ambito dei fondi della politica di coesione e 400 milioni di euro sono stati messi a disposizione nell’ambito dei fondi per gli Affari interni.

Emergenze diverse

Secondo diversi esperti, il modello messo in campo dall’UE per i profughi ucraini ha rappresentato un’esperienza positiva, di cui fare tesoro per la gestione del fenomeno migratiorio nel suo complesso. Eppure, nel processo di riforma delle regole europee in materia questa lezione non sembra essere stata appresa.

Il Consiglio dell’UE ha appena raggiunto un accordo su alcuni dei più importanti testi legislativi del Patto sulla migrazione e l’asilo. Le nuove norme andranno ancora discusse con il Parlamento Europeo prima della definitiva approvazione e potrebbero quindi ancora cambiare, ma, per lo European Council on Refugees and Exiles, «le riforme vanno nella direzione opposta rispetto alla risposta positiva» data all’emergenza Ucraina. E, come se non bastasse, anche la questione ambientale non è stata contemplata.

La visita della presidente della Commissione Ue in Tunisia, l’11 giugno 2023. Da sinistra, Mark Rutte, Ursula von der Leyen, Kaïs Saïed e Giorgia Meloni. Al centro della visita anche il tema migratorio - Foto: Unione Europea
La visita della presidente della Commissione Ue in Tunisia, l’11 giugno 2023. Da sinistra, Mark Rutte, Ursula von der Leyen, Kaïs Saïed e Giorgia Meloni. Al centro della visita anche il tema migratorio - Foto: Unione Europea

Il Consiglio dell’UE ha appena raggiunto un accordo su alcuni dei più importanti testi legislativi del Patto sulla migrazione e l’asilo. Le nuove norme andranno ancora discusse con il Parlamento Europeo prima della definitiva approvazione e potrebbero quindi ancora cambiaer, ma, per lo European Council on Refugees and Exiles, «le riforme vanno nella direzione opposta rispetto alla risposta positiva» data all’emergenza Ucraina. E, come se non bastasse, anche la questione ambientale non è stata contemplata.

«Grazie ad alcuni chiari segnali, possiamo già dire che è un Patto preoccupante anche per quanto riguarda la presa in carico dei migranti climatici», sostiene Sara Prestianni, direttrice advocacy di Euromed Rights. «Come sappiamo manca un quadro legislativo di protezione per queste persone, in più il nuovo accordo riduce lo spazio d’asilo e allarga il concetto di paese terzo sicuro dove effettuare i rimpatri, non solo ai Paesi di origine ma anche a quelli di transito. A questi Paesi gli Stati membri vogliono appaltare la strategia dell’esternalizzazione, anche se spesso non hanno firmato la convenzione di Ginevra né hanno alcun sistema di protezione o di accoglienza. Nel caso di Tunisia e Libia, a ciò si aggiunge una vera e propria persecuzione nei confronti dei migranti», spiega.

A suo giudizio, vi è anche un’altra questione, quella «legata alle procedure accelerate di frontiera che rischiano di danneggiare proprio migranti e rifugiati che fuggono da questioni climatiche, perché non hanno un alto tasso di riconoscimento della protezione, visto che lo status di rifugiato ambientale non è ancora accordato in diversi Paesi». «Non solo, dunque, non si creano strumenti di protezione per la realtà emergente di chi fugge da crisi climatiche ma, riducendo lo spazio d’asilo e rafforzando la dimensione esterna, si delega  la sorte dei potenziali profughi climatici a Paesi che già soffrono le conseguenze del climate change», conclude Prestianni.

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