Ep. 03

Conflitti

La progressiva scarsità d’acqua in molte zone del pianeta sta aumentando i conflitti. Ma perché?

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.
Dalle nostre serie Serie Giornalistiche
Accadueò

L’accesso universale all’acqua è, e dovrebbe essere, il presupposto di ogni politica tesa a contrastare le diseguaglianze. Ma non sempre ce ne preoccupiamo.

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Nell’episodio precedente di Accadueò abbiamo visto quale sia l’impatto dei cambiamenti climatici sulle riserve idriche e come il mondo della finanza stia iniziando ad approfittare di questo bene sempre più scarso per mercificarlo e spingerlo verso la finanziarizzazione. Abbiamo anche visto come una corretta tariffazione possa contribuire a evitare gli sprechi e come imparare a gestire in maniera oculata l’acqua a disposizione sia il presupposto necessario a evitare gravi criticità.

Se è vero che la progressiva scarsità d’acqua in molte zone del pianeta sta aumentando i conflitti in maniera esponenziale, è anche vero che le guerre per il controllo delle risorse idriche sono una costante sin dalle civiltà
più antiche. Il sito World Water propone un’interessante cronologia dei principali conflitti legati all’acqua che si apre proprio con due dispute avvenute in Mesopotamia, “la terra che sta in mezzo ai due fiumi”.

La prima è quella avvenuta intorno al 2400 a.C. quando Urlama, re di Lagash, devia l’acqua a favore dei propri canali, privandone così la città di Umma. Successivamente, fra il 1720 e il 1684 a.C., Abi-esuk, nipote di Hammurabi, tenta di bloccare il corso del Tigri con una diga, nel vano tentativo di mettere in difficoltà Ilum-ma-ilī, fondatore della dinastia del Paese del Mare, il territorio paludoso situato alle foci di Tigri ed Eufrate. Nel millennio successivo gli storici registrano altri conflitti legati all’acqua fra le popolazioni mesopotamiche.

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Bassora, Iraq. Foto Pixabay

La storia antica, però, dimostra come l’acqua non sia stata solamente l’oggetto della contesa, ma lo strumento con cui mettere in ginocchio gli avversari. Fra il 600 e il 590 a.C., l’ateniese Solone utilizza le venefiche piante di elleboro per inquinare l’acquedotto alimentato dal fiume Pleistrus, in modo da sconfiggere la città nemica di Cirrha. La tossicità delle acque fa ammalare le forze nemiche e Solone riesce così a imporsi su milizie incapaci di contrastare gli ateniesi. Nel 51 a.C., dopo un assedio durato due settimane, Giulio Cesare riesce a far capitolare i galli di Uxellodunum, scavando delle gallerie che ne prosciugano i pozzi.

L’interessante Water Conflict Chronology proposta da World Water evidenzia una rapida accelerazione degli eventi conflittuali nell’ultimo decennio. Se è vero che nell’era di Internet è più facile avere accesso alle informazioni e monitorare le statistiche su scala globale, è altrettanto evidente come fra il primo e il secondo decennio del terzo millennio i conflitti idrici siano pressoché raddoppiati. Dai 220 registrati nel decennio 2000-2009 si è passati ai 466 del decennio 2010-2019. Nell’ultimo decennio le aree maggiormente critiche sono state l’Asia Occidentale (Iraq, Palestina, Siria, Yemen, Turchia) con 204 conflitti, l’Africa Sub-Sahariana (principalmente Sud Africa, Somalia, Kenya, Sud Sudan, Sudan, Nigeria e Mali) con 89, l’Asia Meridionale (India, Pakistan e Afghanistan) con 66, il Nord Africa (Egitto, Libia, Algeria, Marocco su tutti) con 33 e l’America Latina (Messico, Brasile, Colombia e Venezuela su tutti) con 30. In Asia e Africa sono stati quindi registrati l’88,2% dei conflitti dell’ultimo decennio, a fronte dell’11,8% di Europa, Americhe e Oceania.

A scatenare le tensioni, oltre agli interessi di nazioni e imprese private, sono rivalità etniche e questioni di confine. La dilagante infodemia che contraddistingue la nostra epoca non consente alle notizie relative a questi conflitti di raggiungere la ribalta del mainstream, ma ciò non toglie che questi conflitti siano dei traumi collettivi che segnano in profondità territori, comunità, persone. Se scegliamo il 2019, ultimo anno di cui sono disponibili i dati, e ci limitiamo all’area dell’Africa Sub Sahariana, scopriamo che:
– 37 pastori e agricoltori sono stati uccisi mentre combattevano per avere accesso all’acqua nel Mali centrale;
– 11 persone hanno perso la vita, due sono rimaste ferite e quattro sono disperse in un punto di abbeveraggio al confine fra Kenya ed Etiopia;
– una cisterna d’acqua di una scuola elementare nella contea di Kirinyaga, in Kenya, è stata vandalizzata e avvelenata. Fortunatamente nessuno è stato danneggiato dall’acqua avvelenata;
– oltre 130 persone sono morte, in Mali, durante il conflitto tra le comunità di cacciatori Dogon e quelle di pastori Fulani.
– nel Mali centrale, i conflitti per la terra e per le risorse idriche, hanno alimentato una serie di massacri, costringendo 50mila persone a fuggire dalle proprie case.

Ribadiamo che queste sono solo alcune delle dispute collegate all’utilizzo delle risorse idriche nell’Africa Sub Sahariana, nel 2019. Una sorta di campione che rende l’idea di quanto l’informazione mainstream sia diventata assolutamente impermeabile alle criticità delle aree più svantaggiate del Pianeta.

Il Water Conflict Chronology è il database open source più completo al mondo sulla violenza legata all’acqua. Creato dal Pacific Institute negli anni ’80, include tutti i casi noti verificati in cui l’acqua e i sistemi idrici innescano conflitti, sono usati come armi nei conflitti o sono bersagli o vittime di violenza.

Il water grabbing come motore delle migrazioni

Per capire quali saranno le principali aree di crisi nell’immediato futuro abbiamo intervistato Marirosa Iannelli, presidente del Water Grabbing Observatory, un osservatorio che si occupa di fare informazione, ricerca, consulenza e formazione sul tema dell’accaparramento d’acqua.

“Attualmente l’area del mondo nella quale si stanno verificando le maggiori criticità è il Corno d’Africa – spiega Iannelli -. Qui, l’aumento delle temperature unito all’accaparramento delle risorse idriche sta provocando situazioni di conflitto fra le popolazioni. Pensiamo a quanto è avvenuto in Etiopia, dove la costruzione di una serie di dighe nella Valle dell’Omo ha provocato la migrazione di mezzo milione di persone verso l’area meridionale del paese, al confine con il Kenya. La pressione demografica su quest’area ha portato a conflitti fra comunità. Quando una comunità che vive di agricoltura di sussistenza viene privata dell’acqua l’unica soluzione è spostarsi altrove”.

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Marirosa Iannelli

Inutile aggiungere come il fenomeno del water grabbing non sia solamente “motore” di migrazioni interne, ma giochi un ruolo fondamentale nei flussi migratori delle persone che risalgono l’Africa Sahariana per raggiungere l’Europa Mediterranea. Private dell’acqua ovverosia della risorsa fondamentale per ogni tipo di economia familiare, le persone sono costrette a mettersi in viaggio. Il problema non è soltanto africano, “i report dell’IPCC e i Global Risks Report indicano l’Asia come il continente che, da qui al 2050, soffrirà maggiormente a causa della scarsità delle risorse idriche – prosegue Iannelli -. All’ormai annoso conflitto fra Israele e Palestina, con un attore governativo che utilizza sistematicamente il water grabbing come strumento di controllo politico, si aggiungono le criticità di bacini idrici più lontani. Pensiamo a quanto sta avvenendo sul Mekong a causa della costruzione di numerose dighe da parte della Cina oppure all’India, dove l’esplosione demografica degli ultimi decenni mette in crisi la disponibilità d’acqua necessaria al buon funzionamento dei servizi igienico-sanitari. Naturalmente la pandemia di Covid-19 non ha fatto altro che esacerbare queste criticità rendendo alcune situazioni ancora più drammatiche”.

Iannelli sottolinea come nessuno si possa chiamare fuori da questo problema, in considerazione del fatto che “il non contenimento delle emissioni di CO2 e l’aumento delle temperature hanno un impatto globale. Certo, le aree che subiranno maggiormente l’impatto del riscaldamento globale sono quelle dei cosiddetti Paesi in via di sviluppo, ma anche i Paesi occidentali hanno già toccato con mano, negli ultimi anni, le conseguenze di fenomeni meteorologici estremi”.

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Il Mekong. Foto Pixabay

Anche il Vecchio Continente dovrà adattarsi a scenari che fino a mezzo secolo fa potevano sembrare improponibili: “Le città costiere si troveranno di fronte alla più grossa sfida dei cambiamenti climatici. Venezia e le città dei Paesi Bassi dovranno affrontare un innalzamento del livello del mare che metterà in seria difficoltà la gestione delle risorse idriche. A questo si aggiungeranno fenomeni come l’abbassamento dei livelli delle acque lacustri e una rarefazione della nevosità che avrà impatto sul turismo montano nella stagione invernale. Le piogge saranno meno frequenti e più intense, un cambiamento che si rifletterà sulle fonti e sulle falde acquifere. Nel Sud Italia e negli altri Paesi dell’Europa Mediterranea il fenomeno è evidente da tempo e, considerati i trend climatici, la situazione non potrà che aggravarsi”.

Iraq, dove il cerchio si chiude

Torniamo nella Mezzaluna fertile, un’area che lo scorrere del tempo e le pressioni dirette e indirette dell’uomo sugli ecosistemi hanno trasformato in un territorio arido, con sempre meno risorse idriche disponibili. All’incremento delle temperature e alla scarsità delle precipitazioni, si sono aggiungono le dighe a monte (già costruite o in fase di progetto) di Turchia e Iran, l’inquinamento e la cattiva gestione nel trattamento delle acque. Nella capitale Baghdad, oltre 7 milioni e mezzo di abitanti devono fare i conti con un fiume Tigri sempre più inquinato.

Come racconta il documentario I guardiani dell’acqua di Sara Manisera e Arianna Pagani, ai rifiuti gettati nel fiume dalla cittadinanza si aggiungono le sostanze tossiche e inquinanti rilasciate nell’ambiente dalle strutture governative: la Medical City, una raffineria e una fabbrica di olio vegetale sversano i loro liquami nelle acque del Tigri, spesso con tubature sotterranee che sfuggono allo sguardo dei più. La mancanza di strutture per il trattamento delle acque e la cattiva gestione rappresentano un grave problema igienico-sanitario anche nella settentrionale Sulaymaniyya e nella meridionale Bassora, quella che un tempo veniva chiamata la “Venezia dell’Iraq” e ora è diventata la città del petrolio e del cancro. Qui, nell’estate 2018 ben 118mila persone (l’8,9% della popolazione) sono state ricoverate in ospedale a causa dell’inquinamento delle acque.

Come accade su altri fronti delle lotte ambientali, la drammatica situazione delle acque fluviali delle principali città irachene ha ormai reso indistinguibili l’attivismo per i diritti umani e la difesa degli ecosistemi. Nel marzo 2012 una coalizione di ong irachene e internazionali – fra cui l’italiana Un ponte per… – ha dato vita alla campagna Save the Tigris per salvare le acque del fiume mesopotamico dagli impatti devastanti delle dighe e di altri progetti distruttivi.

Gli attivisti iracheni chiedono che vengano rispettate le norme internazionali sull’utilizzo dei corsi d’acqua transnazionali, cosa che non sta avvenendo vuoi a causa delle dighe costruite dal governo turco senza alcuna consultazione con Baghdad, vuoi per la costruzione di altri sbarramenti lungo gli affluenti iraniani del Tigri. Secondo gli attivisti iracheni, “invece di essere fonte di rivalità, l’acqua dovrebbe essere forza di pace e cooperazione tra tutti i paesi e le popolazioni del bacino del Tigri-Eufrate”. Il movimento coinvolge una pluralità di attori: comunità locali, organizzazioni della società civile, media, autorità, accademici, centri di ricerca e semplici cittadini.

Kurdistan Iracheno. Foto Pixabay

Lo scorso 22 marzo, in occasione del World Water Day, l’Associazione Humat Dijlah, in collaborazione con Save the Tigris, Iraqi Civil Society Solidarity Initiative e Iraqi Social Forum, ha lanciato una serie di attività di sensibilizzazione in 11 città irachene, cercando di focalizzare l’attenzione della cittadinanza su quattro punti chiave per la gestione dei fiumi mesopotamici:

L’acqua non ha né confini, né dighe.
Le popolazioni della Mesopotamia hanno condiviso le loro risorse per millenni. Termini come “stati a monte” e “paesi a valle” sono entrati a far parte del lessico geopolitico solo recentemente, quando la costruzione delle dighe ha causato crescenti problemi nell’approvvigionamento idrico e, di conseguenza, nella sicurezza idrica e alimentare.

Fiumi inquinati, ulteriore degrado.
Fognature, rifiuti di fabbriche, impianti petroliferi e luoghi pubblici come ristoranti, casinò e località turistiche, rifiuti sanitari e acque di drenaggio di terreni agricoli saturi di sostanze chimiche, scaricano direttamente nei fiumi iracheni. È impossibile quantificare le forme di inquinamento del fiume, nonché il loro impatto, a causa della pluralità dei soggetti che effettuano gli sversamenti. L’unica certezza è che la tossicità dell’acqua aumenta considerevolmente la mortalità delle popolazioni che vivono in prossimità dei fiumi inquinati.

Con la razionalizzazione, l’abbondanza aumenta.
Nonostante il cambiamento delle condizioni dell’ecosistema fluviale e il cambiamento di volume dei corsi d’acqua, i livelli di consumo idrico continuano ad aumentare in modo esponenziale. Sia in agricoltura che nell’uso domestico, le persone non si sono ancora adattate alla scarsità d’acqua. Bisogna imparare a razionalizzare l’utilizzo delle risorse idriche.

Gestione idrica congiunta nella regione.
La distribuzione delle quote idriche tra le diverse città, governatorati e regioni iracheni deve tener conto delle esigenze di ciascuna area geografica, in termini di consumo domestico, agricolo e industriale. È necessario valutare il consumo di acqua per le colture, per evitare che un consumo eccessivo lasci i governatorati meridionali senza acqua nelle stagioni più siccitose.

Il teorema è semplice: l’acqua non deve essere bloccata a monte e non deve essere contaminata, i consumi devono essere razionalizzati in seguito a un coordinamento regionale. Oggi vale per l’Iraq, in futuro sarà lo stesso per l’Europa mediterranea. A che punto è il diritto all’acqua nel Vecchio Continente?

È quello che cercheremo di capire nel prossimo episodio.

Save the Tigris è una campagna di difesa della società civile avviata nel marzo 2012 da una coalizione di organizzazioni non governative irachene e internazionali per salvare il patrimonio mondiale sul fiume Tigri dagli impatti delle dighe e di altri megaprogetti distruttivi.

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