La lotta europea per il diritto all’acqua
Ci sono forze economiche lavorano nell’ombra per far arretrare diritti acquisiti, mettere le mani sulle risorse e privatizzare ciò che è pubblico.
La progressiva scarsità d’acqua in molte zone del pianeta sta aumentando i conflitti. Ma perché?
L’accesso universale all’acqua è, e dovrebbe essere, il presupposto di ogni politica tesa a contrastare le diseguaglianze. Ma non sempre ce ne preoccupiamo.
Nell’episodio precedente di Accadueò abbiamo visto quale sia l’impatto dei cambiamenti climatici sulle riserve idriche e come il mondo della finanza stia iniziando ad approfittare di questo bene sempre più scarso per mercificarlo e spingerlo verso la finanziarizzazione. Abbiamo anche visto come una corretta tariffazione possa contribuire a evitare gli sprechi e come imparare a gestire in maniera oculata l’acqua a disposizione sia il presupposto necessario a evitare gravi criticità.
Se è vero che la progressiva scarsità d’acqua in molte zone del pianeta sta aumentando i conflitti in maniera esponenziale, è anche vero che le guerre per il controllo delle risorse idriche sono una costante sin dalle civiltà
più antiche. Il sito World Water propone un’interessante cronologia dei principali conflitti legati all’acqua che si apre proprio con due dispute avvenute in Mesopotamia, “la terra che sta in mezzo ai due fiumi”.
La prima è quella avvenuta intorno al 2400 a.C. quando Urlama, re di Lagash, devia l’acqua a favore dei propri canali, privandone così la città di Umma. Successivamente, fra il 1720 e il 1684 a.C., Abi-esuk, nipote di Hammurabi, tenta di bloccare il corso del Tigri con una diga, nel vano tentativo di mettere in difficoltà Ilum-ma-ilī, fondatore della dinastia del Paese del Mare, il territorio paludoso situato alle foci di Tigri ed Eufrate. Nel millennio successivo gli storici registrano altri conflitti legati all’acqua fra le popolazioni mesopotamiche.
La storia antica, però, dimostra come l’acqua non sia stata solamente l’oggetto della contesa, ma lo strumento con cui mettere in ginocchio gli avversari. Fra il 600 e il 590 a.C., l’ateniese Solone utilizza le venefiche piante di elleboro per inquinare l’acquedotto alimentato dal fiume Pleistrus, in modo da sconfiggere la città nemica di Cirrha. La tossicità delle acque fa ammalare le forze nemiche e Solone riesce così a imporsi su milizie incapaci di contrastare gli ateniesi. Nel 51 a.C., dopo un assedio durato due settimane, Giulio Cesare riesce a far capitolare i galli di Uxellodunum, scavando delle gallerie che ne prosciugano i pozzi.
L’interessante Water Conflict Chronology proposta da World Water evidenzia una rapida accelerazione degli eventi conflittuali nell’ultimo decennio. Se è vero che nell’era di Internet è più facile avere accesso alle informazioni e monitorare le statistiche su scala globale, è altrettanto evidente come fra il primo e il secondo decennio del terzo millennio i conflitti idrici siano pressoché raddoppiati. Dai 220 registrati nel decennio 2000-2009 si è passati ai 466 del decennio 2010-2019. Nell’ultimo decennio le aree maggiormente critiche sono state l’Asia Occidentale (Iraq, Palestina, Siria, Yemen, Turchia) con 204 conflitti, l’Africa Sub-Sahariana (principalmente Sud Africa, Somalia, Kenya, Sud Sudan, Sudan, Nigeria e Mali) con 89, l’Asia Meridionale (India, Pakistan e Afghanistan) con 66, il Nord Africa (Egitto, Libia, Algeria, Marocco su tutti) con 33 e l’America Latina (Messico, Brasile, Colombia e Venezuela su tutti) con 30. In Asia e Africa sono stati quindi registrati l’88,2% dei conflitti dell’ultimo decennio, a fronte dell’11,8% di Europa, Americhe e Oceania.
A scatenare le tensioni, oltre agli interessi di nazioni e imprese private, sono rivalità etniche e questioni di confine. La dilagante infodemia che contraddistingue la nostra epoca non consente alle notizie relative a questi conflitti di raggiungere la ribalta del mainstream, ma ciò non toglie che questi conflitti siano dei traumi collettivi che segnano in profondità territori, comunità, persone. Se scegliamo il 2019, ultimo anno di cui sono disponibili i dati, e ci limitiamo all’area dell’Africa Sub Sahariana, scopriamo che:
– 37 pastori e agricoltori sono stati uccisi mentre combattevano per avere accesso all’acqua nel Mali centrale;
– 11 persone hanno perso la vita, due sono rimaste ferite e quattro sono disperse in un punto di abbeveraggio al confine fra Kenya ed Etiopia;
– una cisterna d’acqua di una scuola elementare nella contea di Kirinyaga, in Kenya, è stata vandalizzata e avvelenata. Fortunatamente nessuno è stato danneggiato dall’acqua avvelenata;
– oltre 130 persone sono morte, in Mali, durante il conflitto tra le comunità di cacciatori Dogon e quelle di pastori Fulani.
– nel Mali centrale, i conflitti per la terra e per le risorse idriche, hanno alimentato una serie di massacri, costringendo 50mila persone a fuggire dalle proprie case.
Ribadiamo che queste sono solo alcune delle dispute collegate all’utilizzo delle risorse idriche nell’Africa Sub Sahariana, nel 2019. Una sorta di campione che rende l’idea di quanto l’informazione mainstream sia diventata assolutamente impermeabile alle criticità delle aree più svantaggiate del Pianeta.
Il Water Conflict Chronology è il database open source più completo al mondo sulla violenza legata all’acqua. Creato dal Pacific Institute negli anni ’80, include tutti i casi noti verificati in cui l’acqua e i sistemi idrici innescano conflitti, sono usati come armi nei conflitti o sono bersagli o vittime di violenza.
Per capire quali saranno le principali aree di crisi nell’immediato futuro abbiamo intervistato Marirosa Iannelli, presidente del Water Grabbing Observatory, un osservatorio che si occupa di fare informazione, ricerca, consulenza e formazione sul tema dell’accaparramento d’acqua.
“Attualmente l’area del mondo nella quale si stanno verificando le maggiori criticità è il Corno d’Africa – spiega Iannelli -. Qui, l’aumento delle temperature unito all’accaparramento delle risorse idriche sta provocando situazioni di conflitto fra le popolazioni. Pensiamo a quanto è avvenuto in Etiopia, dove la costruzione di una serie di dighe nella Valle dell’Omo ha provocato la migrazione di mezzo milione di persone verso l’area meridionale del paese, al confine con il Kenya. La pressione demografica su quest’area ha portato a conflitti fra comunità. Quando una comunità che vive di agricoltura di sussistenza viene privata dell’acqua l’unica soluzione è spostarsi altrove”.
Inutile aggiungere come il fenomeno del water grabbing non sia solamente “motore” di migrazioni interne, ma giochi un ruolo fondamentale nei flussi migratori delle persone che risalgono l’Africa Sahariana per raggiungere l’Europa Mediterranea. Private dell’acqua ovverosia della risorsa fondamentale per ogni tipo di economia familiare, le persone sono costrette a mettersi in viaggio. Il problema non è soltanto africano, “i report dell’IPCC e i Global Risks Report indicano l’Asia come il continente che, da qui al 2050, soffrirà maggiormente a causa della scarsità delle risorse idriche – prosegue Iannelli -. All’ormai annoso conflitto fra Israele e Palestina, con un attore governativo che utilizza sistematicamente il water grabbing come strumento di controllo politico, si aggiungono le criticità di bacini idrici più lontani. Pensiamo a quanto sta avvenendo sul Mekong a causa della costruzione di numerose dighe da parte della Cina oppure all’India, dove l’esplosione demografica degli ultimi decenni mette in crisi la disponibilità d’acqua necessaria al buon funzionamento dei servizi igienico-sanitari. Naturalmente la pandemia di Covid-19 non ha fatto altro che esacerbare queste criticità rendendo alcune situazioni ancora più drammatiche”.
Iannelli sottolinea come nessuno si possa chiamare fuori da questo problema, in considerazione del fatto che “il non contenimento delle emissioni di CO2 e l’aumento delle temperature hanno un impatto globale. Certo, le aree che subiranno maggiormente l’impatto del riscaldamento globale sono quelle dei cosiddetti Paesi in via di sviluppo, ma anche i Paesi occidentali hanno già toccato con mano, negli ultimi anni, le conseguenze di fenomeni meteorologici estremi”.
Anche il Vecchio Continente dovrà adattarsi a scenari che fino a mezzo secolo fa potevano sembrare improponibili: “Le città costiere si troveranno di fronte alla più grossa sfida dei cambiamenti climatici. Venezia e le città dei Paesi Bassi dovranno affrontare un innalzamento del livello del mare che metterà in seria difficoltà la gestione delle risorse idriche. A questo si aggiungeranno fenomeni come l’abbassamento dei livelli delle acque lacustri e una rarefazione della nevosità che avrà impatto sul turismo montano nella stagione invernale. Le piogge saranno meno frequenti e più intense, un cambiamento che si rifletterà sulle fonti e sulle falde acquifere. Nel Sud Italia e negli altri Paesi dell’Europa Mediterranea il fenomeno è evidente da tempo e, considerati i trend climatici, la situazione non potrà che aggravarsi”.
Torniamo nella Mezzaluna fertile, un’area che lo scorrere del tempo e le pressioni dirette e indirette dell’uomo sugli ecosistemi hanno trasformato in un territorio arido, con sempre meno risorse idriche disponibili. All’incremento delle temperature e alla scarsità delle precipitazioni, si sono aggiungono le dighe a monte (già costruite o in fase di progetto) di Turchia e Iran, l’inquinamento e la cattiva gestione nel trattamento delle acque. Nella capitale Baghdad, oltre 7 milioni e mezzo di abitanti devono fare i conti con un fiume Tigri sempre più inquinato.
Save the Tigris è una campagna di difesa della società civile avviata nel marzo 2012 da una coalizione di organizzazioni non governative irachene e internazionali per salvare il patrimonio mondiale sul fiume Tigri dagli impatti delle dighe e di altri megaprogetti distruttivi.
L’accesso universale all’acqua è, e dovrebbe essere, il presupposto di ogni politica tesa a contrastare le diseguaglianze. Ma non sempre ce ne preoccupiamo.
Ci sono forze economiche lavorano nell’ombra per far arretrare diritti acquisiti, mettere le mani sulle risorse e privatizzare ciò che è pubblico.
La carenza idrica è un’emergenza che ci coinvolge tutti, e andrebbe posta in testa alle agende dei governi. Così non è.
L’acqua dovrebbe essere un diritto. Invece è una merce, ed è sempre più richiesta.
La progressiva scarsità d’acqua in molte zone del pianeta sta aumentando i conflitti. Ma perché?
Ci sono forze economiche lavorano nell’ombra per far arretrare diritti acquisiti, mettere le mani sulle risorse e privatizzare ciò che è pubblico.
In questo decennio, il Forum italiano dei movimenti per l’acqua ha tenuto alta l’attenzione sull’operato dei numerosi Governi post Berlusconi III.
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