Oggi è tutto più caotico e confuso. Sono stati installati dei blocchi di cemento che creano due corridoi esterni, uno per la fila degli uomini e uno per la fila delle donne. Due piccole folle si accalcano. Sottile e relativamente ordinata quella degli uomini, ondeggiante e rumorosa quella delle donne. Mi sono introdotta tra loro, sentendomi nuda circondata dai loro veli e dai loro cappotti lunghi e abbottonati, nonostante il sole già a picco sulle teste. Si fanno aria sventolando la plastica delle loro carte di identità, la maggior parte sono verdi, ma ci sono alcune donne più anziane che hanno ancora il documento rosso, precedente alla stipula degli accordi di Oslo. Un piccolo arcobaleno in coda sotto gli occhi attenti dei soldati israeliani. Continuiamo a fare tre passi avanti e dieci passi indietro, in una sudata danza collettiva. Davanti a noi, ritto su un blocco di cemento, un soldato con un cappello alla pescatora e un megafono continua a urlare “kullu iga lawara”, arabo per dire “andate tutti indietro”. Sopra le nostre teste, sui tetti di alcuni dei negozi che un tempo erano sulla strada principale tra le due città più turistiche di Israele e della Cisgiordania, rimasti chiusi dopo la costruzione del muro, sono appollaiate decine di soldati. Alcuni si riparano dal sole grazie a un ombrellone verde, altri ci osservano stringendo in pugno il loro mitragliatore M16. Sotto di loro le donne stringono le carte di identità e più in là gli uomini al massimo giocherellano col missbaha, un filo di palline, simile al rosario cristiano, che li aiuta nella preghiera a tenere il conto delle 33 volte in cui devono ripetere il nome di “Allah e di Maometto il suo profeta”.
Dopo al massimo venti minuti mi gira la testa. Sarà il caldo, la calca, la sete o la fame ma decido di lasciare la folla e di abbandonare il mio proposito di fare la coda con i palestinesi per recarmi a Gerusalemme. Punto decisa uno degli osservatori dell’OCHA (Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli affari umanitari), contraddistinto dal suo gilerino blu con le lettere UN sulle spalle. Si chiama Abed ed è originario di Hebron, una delle città della Cisgiordania con la maggiore presenza di musulmani praticanti. Infatti solo da lì oggi al checkpoint sono arrivati 45 pullman di fedeli. Insieme ai suoi colleghi, palestinesi e internazionali, Abed è qui per osservare e raccogliere dati sul numero di persone che passano i checkpoint e per accertarsi che tutto fili senza violenze o discriminazioni da parte dei soldati nei confronti delle persone ammassate sotto il sole e all’interno del terminal del checkpoint. “Durante i venerdì del Ramadan ci sono delle regole speciali per garantire l’accesso dei fedeli a Gerusalemme” mi spiega “le donne che abbiano più di 45 anni, gli uomini over 50 e i bambini under 12 in teoria possono passare senza permesso. Tutti gli altri, quattro giorni prima del venerdi, devono chiedere un permesso al DCO (District Coordination Office) che ha l’autorità burocratica su di loro. L’ufficio, ovviamente sotto le autorità e le competenze israeliane, il giovedì comunicherà loro se hanno ottenuto il consenso per recarsi a Gerusalemme o meno. Per chi ha meno di 30 anni, non è sposato e magari è stato in carcere anche solo una volta, anche solo per detenzione amministrativa, è praticamente impossibile ottenerlo. La motivazione con cui il permesso viene rifiutato è sempre la stessa, un generico motivi di sicurezza”. Quando gli chiedo perchè intorno a noi ci siano tanti adolescenti, giovani che di tutta evidenza non corrispondono ai parametri che mi ha appena illustrato mi risponde in modo molto chiaro: “Già solo il fatto di tentare di arrivare alla moschea è una dimostrazione di purezza e di adorazione nei confronti di Dio. Inoltre, non accettare le limitazioni dell’occupazione è una forma di resistenza. A loro non importa essere rimandati indietro, basta averci provato. E poi c’è sempre un 2% di persone che ce la fa a introdursi anche senza permesso. Se non vengono ripescati dai soldati dall’altra parte, magari quando sono già sull’autobus 124 che porta alla Porta di Damasco, è fatta”. Mentre parliamo Abed si dimentica di me, una signora anziana viene portata via su una barella dagli infermieri della Mezzaluna Rossa. È boccheggiante nel suo abito tradizionale, lungo e nero, con i ricami colorati sul petto.