Il riarmo è un’allucinazione

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Siamo a marzo del 2025. Sono pacifista da poco più di trent’anni, da quando, cioè, ho iniziato a formarmi una coscienza politica. Il risultato di questa mia posizione è che mi sento fuori posto. Mi sento fuori posto nel mondo delle competizioni e delle gare, della violenza e delle supremazie. Mi sento fuori posto in ogni situazione in cui percepisco una gestione del potere tossica e in cui vedo dinamiche gerarchiche prive di senso. Figuriamoci se mi sento a mio agio a sentire chi parla di guerra e riarmo.

L'onere della prova

Le persone pacifiste sono vessate da quando ho memoria, un po’ come le persone anarchiche. I benpensanti della società civile – giornalisti inclusi – tollerano più i produttori di armi di una protesta.

 

E i pacifisti, si sa, invece di starsene a casa zitti davanti alla partita, di restare passive a stirare (come vorrebbero in molti, ovviamente nel rispetto di ruoli inesistenti ma presuntamente naturali), spesso finiscono in strada a protestare, fare cortei, inventarsi azioni di teatro di strada o clownerie o boicottaggio per attirare l’attenzione sull’elefante nella stanza: la guerra fa schifo, le armi si producono non per preparare la pace ma per usarle, prima o poi. E perché fanno fare a pochissime persone un sacco di soldi.

 

La cosa buffa, se vogliamo vedere l’ironia, è che l’onere della prova è sempre a carico dei pacifisti. Anche se tanto nessuno ci considera davvero, se non per dileggiare, irridere oppure per dire che non siamo mai cresciuti e per trattarci con condiscendenza e paternalismo, come se fossimo un po’ spostasti – in effetti lo siamo: essere pacifisti è evidentemente una divergenza –, siamo noi a dover dimostrare che la nostra strada funzionerebbe. Non chi produce armi. Il che, se permettete, è surreale.

Il pacifismo è prevenzione

Quando devi ricorrere alle armi è perché sei definitivamente in emergenza. Il pacifismo, invece, è prevenzione e infatti va praticato costantemente in tempo di pace. Se tu costruisci cultura, comunità e benessere, se istruisci e offri certezze, le persone vorranno ricorrere sempre meno alla violenza: questo è quello che pensiamo. Se invece tu continui a spendere per le armi, prima o poi finirai per fare la guerra. Questo è quello che succede. È un fatto, non è un’ipotesi. Eppure siamo noi pacifisti a dover provare di avere torto. Non basta la storia a farlo al posto nostro.

 

Di solito, a questo punto della discussione partono le provocazioni o le domande retoriche su come pensi di difenderti qui e ora dall’aggressore; le accuse di essere dalla parte dei cattivi (la cosa divertente di avere posizioni radicali è che ti becchi queste accuse indistintamente dagli atlantisti e dai putiniani, dagli europeisti e dai sionisti: tutti ti vogliono insegnare come devi campare e cosa devi pensare); le accuse di passività; le accuse di fare victim blaming. Ognuno fa partire la storia di quello scampolo di mondo che vuole analizzare da dove gli fa più comodo.

C'è alternativa

C’è chi si chiede dove siano finiti i guerrieri – salvo poi fare capriole all’indietro per dire e non dire e dire ancora e poi dire di esser stato frainteso.
C’è chi dice che la sinistra pacifista in realtà è nazionalista.
Pur di negare l’esistenza stessa di un realismo pacifista si è, evidentemente, disposti a tutto.

 

Questo atteggiamento è figlio del There Is No Alternative. L’alternativa c’è sempre. Se si pensa di vivere in un mondo senza alternative, allora si è vittime di un’allucinazione collettiva. Di solito sono le persone povere a non avere alternative. Non gli stati né, tantomeno, i ricchi e potenti.

 

Di questi tempi, queste idee sono fortemente minoritarie, mi rendo conto. Vale comunque sempre la pena di provare a diffonderle.

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