Bomba day
Per trasformare l’ex aeroporto di Vicenza nel Parco della Pace, gli ostacoli da superare sono stati molti. Tra cui le eredità dela guerra
A Vicenza, il Parco della pace nasce in seguito alla mobilitazione No Dal Molin, iniziata nel 2007 per contrastare l’ampliamento della base militare USA già presente in città. Oggi al posto dell’ex aeroporto ci sono sia una nuova caserma statunitense sia un parco di nuova generazione, che fornisce al capoluogo servizi ecosistemici
La storia del Parco della pace a Vicenza non è soltanto una storia di rigenerazione urbana.
È una storia di guerre e di paci.
Di tutte le isole meravigliose, l’Isolachenoncè è la più comoda e la più solida:
non è né troppo grande, né troppo articolata,
non ha noiosi distacchi tra un’avventura e l’altra, anzi è graziosamente compatta.
Quando voi ci giocate, di giorno, dopo averla costruita con le sedie e una tovaglia,
non c’è nulla che metta paura ma, nei due minuti prima di addormentarvi,
diventa reale davvero.
Peter Pan, J. M. Barrie
Quando arrivo all’ingresso del Parco della pace a Vicenza, mi sembra di entrare in un cantiere. Ho costeggiato a piedi le transenne e poi sono giunto a una sbarra dove mi sono presentato per poter entrare e raggiungere l’assessore Leone Zilio, l’addetto stampa, i tecnici che ci accompagneranno. Il freddo, il vento e il cielo scuro non aiutano a farsi un’idea chiara: sembra di essere in piena campagna, tutto sommato.
La sensazione, superata la sbarra, è quella di trovarsi in una specie di limbo sospeso: il parco che ha preso il posto del vecchio aeroporto cittadino non c’è ancora, anche se fisicamente esiste. Intendiamoci: c’è fisicamente ma non è aperto in via definitiva. All’orizzonte, invece, guardando verso ovest, vedo la base militare statunitense. È autosufficiente, mi dicono: dentro c’è un ufficio postale, si fanno anche il pane, non sono particolarmente integrati con la città.
La base è lì da anni e, mentre i venti di guerra soffiano un po’ ovunque e ci si ritrova immersi in una retorica bellicista, vive anche un momento che a noi, da fuori, può sembrare assurdo: il 7 marzo del 2025, infatti, il DOGE – il dipartimento statunitense per l’efficienza governativa – ha bloccato per trenta giorni le carte di credito in mano ai dipendenti civili statunitense e italiani della base. “Non ci sorprende più di tanto”, ha spiegato all’Adnkronos Roberto Frizzo, coordinatore nazionale del personale civile delle basi statunitensi italiane, “perché non è la prima volta che accade. Succedeva anche quando non c’era Musk”. Anche questo dettaglio ci ricorda quanto poco sappiamo delle dinamiche statunitensi, persino quelle che avvengono sul territorio italiano.
Paradossalmente, se non esistesse la base, probabilmente non esisterebbe il Parco della Pace.
Non lo nascondiamo: siamo dei sognatori; vorremmo impedire
alla più grande potenza militare mondiale di mettere casa nel nostro cortile.
(lettera aperta del movimento No Dal Molin)
Il 16 gennaio del 2007, a Vicenza, gli oppositori al progetto di raddoppiare la base statunitense già presente in città utilizzando gli spazi dell’ex scalo aeroportuale sono pochi: una fiaccolata, l’occupazione dei binari, poi un tendone che diventerà il presidio permanente del movimento. Il 17 febbraio c’è la seconda manifestazione nazionale, sempre a Vicenza: gli organizzatori parlano di centocinquantamila persone che vengono un po’ da tutto il mondo.
Qualche mese dopo, a metà settembre 2007, il movimento è sempre più attivo. Le donne del movimento hanno messo in pratica una tradizione storica dei movimenti: il teatro invisibile. Si esibiscono al mercato, in coda alle bancarelle, per sensibilizzare le persone su questi temi e, piano piano, formalizzano un vero e proprio gruppo teatrale che mette in scena conversazioni pubbliche in cui si dibatte sui problemi che potrebbe portare la base.
Dal 6 settembre c’è, in città, il campeggio No Dal Molin: in Italia i movimenti dal basso fanno spesso questo tipo di iniziative. Ancora oggi, per esempio, c’è il campeggio No Tav in alta val di Susa, che si chiama Festival Alta Felicità.
Ma al sindaco di Vicenza Enrico Hüllweck, come a molti politici italiani, queste iniziative non piacciono. Così, il 12 settembre, dopo aver definito “barbari” gli oppositori alla base statunitense, Hüllwec si lamenta con i giornali locali perché, secondo lui, i manifestanti “mettono a ferro e fuoco una città ed è tutto lecito”: vorrebbe un intervento repressivo del movimento.
Giovedì 13 settembre, nel pomeriggio, centinaia di persone protestano rumorosamente sotto la sede dell’amministrazione comunale per chiedere che la base Usa non venga ampliata e che l’area dell’ex aeroporto venga messa a disposizione della cittadinanza: non c’è ancora un’idea chiara di cosa dovrebbe diventare, ma questa base di cittadinanza attiva chiede, appunto, uno spazio sociale.
“Venerdì 14 settembre”, si legge in uno dei forum online che contengono ancora le tracce delle cronache di quelle giornate, c’è una “seconda giornata di azione diretta”. Quel giorno un migliaio di persone ha “circumnavigato il perimetro della base militare Ederle alla periferia della città”. “Da questa caserma, dove ha sede la 173a Brigata Aviotrasportata”, prosegue il resoconto, “partono ciclicamente centinaia di soldati statunitensi in direzione Afghanistan e Iraq. Sono stati usati degli stencil per coprire con la scritta “No war” le scritte “Zona militare limite invalicabile”. Quindi, dopo aver circondato il cantiere con una rete arancione […] sono stati predisposti dei blocchi che sono stati riempiti di cemento a presa rapida per ostacolare [simbolicamente e fisicamente, ndr] l’ingresso ai due accessi da cui solitamente passano camionette di servizio e mezzi militari”.
Il 15 settembre del 2007 fa caldo e c’è un altro corteo. Sotto gli occhi delle forze dell’ordine, centocinquanta manifestanti sfilano portando degli alberi: sono frassini, aceri e altre piante locali. I manifestanti con annaffiatoi, zappe e vanghe, entrano nel perimetro recintato dell’ex aeroporto: l’azione non viene interrotta dalle forze dell’ordine, che evidentemente hanno ricevuto disposizioni di non intervenire. Così, i manifestanti iniziano a piantare i centocinquanta alberi che hanno portato con loro.
“È una terra terribile”, dice uno di loro. “Ma non è questo che ci ferma”, fa eco una signora. Alcuni usano vanghe, altri finiscono di scavare a mani nude. Il terreno è ancora quello compatto dell’ex aeroporto: un suolo che per decenni ha visto atterraggi, decolli e marce militari, polveroso in superficie, umido sotto. “È meraviglioso, guarda, è straordinario”, dice un’altra manifestante al telefono, “ho un’emozione che non puoi immaginare”. Possiamo vederla in uno dei filmati che racconta quella giornata.
“Una giornata che non dimenticherò mai” racconta ancora oggi un attivista del movimento No Dal Molin. “Sapevamo che stavamo facendo qualcosa di più grande di noi. Piantare un albero non è solo un gesto: è dire che quel pezzo di terra appartiene a tutti.”
Uomini e donne di ogni età, bambine e bambini, hanno anche lasciato sugli alberi dei bigliettini con nomi o poesie. “Accanto ai giovani che solitamente si riconducono a certi tipi di azione diretta”, raccontano ancora gli esponenti del movimento, “si è vista anche la signora che preparava soddisfatta il cemento e i bambini che confrontavano le loro vanghe-giocattolo prima di piantare gli alberi, a dimostrazione che l’utopia di riuscire a fermare la costruzione della base si accompagna all’utopia di riuscire a capirsi fra soggetti politici e sociali diversi”.
Per chi ha piantato quegli alberi, il Parco della Pace non è mai stato una compensazione. Non è un regalo dello Stato, non è una concessione dovuta alla presenza della base. È il risultato di una lotta. E le lotte, lo sappiamo, non finiscono necessariamente con un compromesso politico. Ma le istituzioni, quel compromesso, devono provare a trovarlo.
Il referendum consultivo locale sull’ampliamento della base Usa era stato annullato dal Tar, come abbiamo visto. Nel novembre del 2009, l’ENAC (Ente Nazionale Aviazione Civile) complica le cose e spedisce una lettera alla società Aeroporti Vicentini spa e al comune di Vicenza per ribadire il ruolo aeroportuale dell’area: il Cipe, infatti, aveva stanziato 11,5 milioni di euro per ricostruire la pista che era stata demolita poco prima per far spazio alla base militare. Si palesa, quindi, un assurdo che rappresenterebbe l’esatto contrario di un progetto di lungo periodo: una pista di decollo appena demolita potrebbe essere ricostruita spendendo una grossa somma di soldi pubblici.
Ma la storia è andata in un’altra direzione, anche grazie alla lotta politica.
Avevamo lasciato il sindaco Variati pronto a trattare con il governo, con un mandato locale bipartisan per chiedere opere di compensazione per i danni che la presenza della base creerà alla città: tutto nasce dalle insistenze del movimento No Dal Molin e dall’incursione illegale di alcuni attivisti che hanno documentato il cantiere, mostrando i potenziali rischi per le falde acquifere. Così, il sindaco può chiedere le opere compensative. Il concetto non piace a molti: il parco voluto dalla cittadinanza non è una compensazione ma un diritto. “La storia di questo parco è la cittadinanza”, scrivono vari esponenti del movimento a distanza di anni, “le migliaia di persone che l’hanno conquistato con anni di mobilitazione, per strappare dalla cementificazione e dalla militarizzazione un parco che potrebbe diventare il polmone verde più grande di Vicenza”.
Comunque la si veda, il 7 luglio 2011, finalmente, viene sottoscritto un protocollo d’intesa tra la presidenza del consiglio dei ministri, i ministeri della difesa, economia e infrastrutture, l’ANAS spa e il comune di Vicenza. La quantità di soggetti coinvolti è una conferma del fatto che le richieste del movimento non erano affatto peregrine ma avevano, invece, solide basi. Il protocollo definisce termini, modalità e impegni per le opere compensative. L’accordo ha l’obiettivo di “mitigare l’impatto urbanistico-ambientale della base e migliorare la viabilità locale”. Il governo si impegna a realizzare un nuovo tratto di tangenziale per ridurre il traffico in città – per i detrattori dell’accordo, la tangenziale serve più alla base militare che alla città. Vengono stanziati fondi anche per un museo dell’aeronautica. Ma, soprattutto, al comune viene concessa l’area est dell’ex aeroporto e i fondi per il grande parco pubblico che ormai è diventato uno degli obiettivi anche dell’amministrazione della città.
Vediamo il dettaglio dei soldi stanziati:
Ma se pensiamo che l’accordo e i soldi stanziati siano la fine, in realtà non abbiamo fatto i conti, ancora una volta, con la politica, l’alternanza, le differenze di vedute. Non ci sono dubbi su cosa debba “fare” una tangenziale. Ma un parco pubblico gigantesco rispetto alle dimensioni di una cittadina, esattamente, cosa dev’essere?
C’è chi immagina un parco altamente infrastrutturato, con percorsi ben definiti, arredi urbani, aree per eventi, qualcosa da mettere a profitto. E c’è chi, invece, vuole qualcosa di più vicino alla natura: un parco che cresca nel tempo, che si autoregoli, che non abbia bisogno di manutenzioni costanti. Alla fine prevale, non senza polemiche e problemi, quest’ultima visione.
Ce la racconta l’architetto Gaetano Selleri, progettista e direttore tecnico dello studio PAN Associati, che ha presentato il progetto del Parco della Pace.
“Era un deserto”, dice Selleri. “Un aeroporto è per definizione una distesa bianca, senza vegetazione. Noi lo abbiamo fatto rinascere.”
Il Parco della Pace di Vicenza, alla fine, è stato progettato come un’ampia infrastruttura verde che unisce soluzioni ingegneristiche e paesaggistiche in grado di favorire la biodiversità, mitigare i rischi idraulici e offrire alla città un nuovo spazio per attività all’aperto, eventi e percorsi culturali.
La prima fase di progetto ha visto un rilevante movimento terra (oltre 240.000 metri cubi) per passare da una morfologia completamente pianeggiante a un “paesaggio anfibio”, in cui l’acqua emerge grazie alla falda superficiale e alimenta oltre 6 chilometri di canali, laghi e zone umide. Questo sistema idraulico, pensato in modo da raccogliere e rilasciare lentamente fino a 100.000 metri cubi d’acqua, è pensato per agire anche come un grande bacino di laminazione naturale: in caso di piogge intense protegge la città dalle esondazioni senza ricorrere a opere meccaniche complesse. E questo è un aspetto particolarmente rilevante, dal momento che gli eventi estremi sono sempre più frequenti a causa della crisi climatica.
La varietà di livelli altimetrici e la presenza di acqua su larga scala sono immaginati per favorire un mosaico di habitat (prati asciutti e umidi, boschi planiziali e igrofili, zone di rinaturalizzazione spontanea) con migliaia di alberi autoctoni e piante acquatiche, oltre a un’estesa rete di praterie fiorite. Questo approccio incrementa la biodiversità, poiché uccelli acquatici, anfibi, insetti e piccoli mammiferi trovano condizioni ideali per insediarsi. Le ampie radure erbose, inoltre, permettono la fruizione flessibile da parte dei visitatori e riducono i costi di manutenzione, poiché le porzioni “selvagge” sono soggette a tagli poco frequenti.
E le zanzare? Vicenza è una città umida, e un parco pieno d’acqua faceva temere il peggio. Anzi, era una delle tante paure di chi polemizzava. “Naturalmente le libellule e gli anfibi sono arrivati subito, e sono tra l’altro animali utilissimi perché evitano il problema delle zanzare. Una delle grandi preoccupazioni a Vicenza era proprio questa. Ma a me risulta che, dopo ormai quattro anni dall’apertura [non ancora completa per il pubblico, come sappiamo, ndr], non abbiamo avuto nessunissimo problema di questo tipo”, spiega l’architetto Selleri.
Accanto ai sistemi naturalistici, il progetto ha recuperato gli edifici esistenti per funzioni culturali, associative e di accoglienza: un grande hangar è stato aperto per diventare “porta” del parco e spazio coperto per eventi, mentre altri spazi ospitano il Museo dell’Aria e la Casa del Parco. L’ex pista, in parte riutilizzata, potrà accogliere manifestazioni di grande scala. I collegamenti interni si sviluppano lungo diversi chilometri di percorsi pedonali, passerelle e guadi con pavimentazioni drenanti.
Complessivamente, il Parco della Pace è stato pensato, disegnato, progettato come un modello di “parco di nuova generazione”, dove la progettazione paesaggistica guidata dai processi naturali, l’ingegneria idraulica e la riconversione delle strutture esistenti si fondono per offrire servizi ecosistemici, tutela del territorio e un nuovo luogo di socialità per la città di Vicenza.
Ma fra le intenzioni e i fatti c’è sempre il contatto con la realtà. E ora è arrivato il momento di scoprire se le idee sono state azzeccate, cos’è successo dal progetto alla realizzazione e cosa succederà in futuro.
Con il supporto di Journalismfund Europe
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La storia dell’ex aeroporto del capoluogo veneto si intreccia con quella delle basi statunitensi presenti in città. E per capire il senso del Parco della pace oggi, bisogna ripercorrere gli ultimi 100 anni di storia vicentina
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L’idea del Parco della Pace di Vicenza, per essere realizzata, ha fatto i conti con i cambiamenti politici alla guida della città. E la partecipazione di cittadini e cittadine ne ha risentito
Il processo per trasformare l’ex aeroporto di Vicenza in un luogo vissuto dalla cittadinanza e utile per l’intera città è ancora in corso. Ma avanza. Ed è un esempio interessante per tanti spazi simili in Italia ed Europa
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